Le trecciaiole. Un’arte silenziosa

Il cappello di paglia è il copricapo più antico utilizzato per ripararsi dal sole. Il più noto al mondo è quello di Firenze, riprodotto in molte opere dell’Ottocento e celebrato ovunque. 
Dietro a questi aerei ed eleganti manufatti c’è una vera e propria rivoluzione pre-industriale cui dette le mosse intorno al 1715 Domenico Michelacci. Commerciante e imprenditore, Michelacci si trasferì da Galeata, nell’allora Romagna toscana, a Signa, nei pressi di Firenze. Snodo viario importante tra Firenze e l’Appennino tosco-emiliano, sede di un ponte sull’Arno che per secoli ha rappresentato l’unico attraversamento possibile tra Firenze e Pisa, Signa fu per il Michelacci il luogo ideale per le sue sperimentazioni e i suoi commerci. Sui colli signesi mise, infatti, a punto un’innovativa tecnica di coltivazione del grano marzuolo (Gentil rosso con resta) che gli permise di ottenere per la prima volta una paglia qualitativamente uniforme, fine, lucente, flessibile e tenace. 
Le donne signesi, abili intrecciatrici come tutte quelle della piana intorno a Firenze, erano note per la loro maestria. A queste Michelacci consegnò le nuove fibre per lavorarle, attraverso una tecnica messa a punto nel corso dei secoli, e ottenere così cappelli mai visti prima. Utilizzando la via fluviale dell’Arno, vennero trasportati fino al porto di Livorno e qui furono proposti sul mercato, ottenendo un successo immediato, tanto che i mercanti inglesi ne furono conquistati, acquistandoli tutti per portarli nel loro Paese. Per il successo che riscossero furono da allora in poi definiti cappelli Leghorn, cioè “di Livorno” e apprezzati in tutto il mondo.
Il cappello di paglia ha segnato e fornito identità a più di un’epoca perché è stato il primo prodotto Made in Italy esportato, e anche il primo ad assumere un’identità collettiva, suggerendo l’appartenenza a una nazione che si stava formando, ma che di fatto non era ancora uno stato. Lo chapeau de paille prodotto a Firenze fu, infatti, chiamato d’Italie in periodo preunitario, portando con sé il nome di un’Italia in procinto di divenire tale, riacquistando il nome originario di “cappello di paglia di Firenze” successivamente, a unità finalmente raggiunta. 

Cappello di paglia

Le trecciaiole 
Sappiamo dalle fonti che già nel Trecento le donne della Piana fiorentina intrecciavano la paglia per farne cappelli. Erano artefici capaci di creare copricapi ritenuti di altissima qualità. Così li definisce, infatti, tra il 1580 e il 1581 lo scrittore e viaggiatore Michel de Montaigne, nel suo Journal du voyage quando, nei pressi di Firenze, incontrò un gruppo di donne che indossavano meravigliosi cappelli di paglia; ne rimase così colpito da scrivere: «Qui se font plus excellans en cete contrée qu’en lieu du monde». Quello di intrecciare la paglia per farne poi cappelli era un lavoro destinato quasi esclusivamente alle donne. Tutte lavoravano: alcune solo per potersi togliere uno sfizio, molte per integrare la paga del marito, altre ancora perché le loro entrate di fatto costituivano l’unica fonte di reddito della famiglia. Si imparava a fare la treccia da piccine. Era un mestiere che, se fatto bene, avrebbe potuto permettere di migliorare un po’ il tenore di vita o, in caso di bisogno, di poter sbarcare il lunario. Di fatto costituiva una dote immateriale, ma fondamentale. Si lavorava in casa, per strada, sull’uscio. Si riusciva allo stesso tempo a badare alla prole, stando insieme, condividendo con le altre donne preoccupazioni e difficoltà che forse in questo modo apparivano meno pesanti. 

Le trecce

Il lavoro e la tecnica 
Come si lavorava la paglia? Occorreva intanto procurarsi il materiale: la menata di paglia, cioè il piccolo fastello di fibre più o meno fini. Questa, per essere lavorata doveva essere preventivamente tenuta a bagno nell’acqua e poi avvolta in un panno per mantenerla umida; posta poi sotto il braccio, retta nell’incavo dell’ascella, forniva i fili che venivano intrecciati solitamente in numero dispari. La treccia si lavorava quindi sia stando sedute che camminando, portando la materia prima sempre con sé. Le tipologie dell’intreccio, da quelle classiche alle più complicate, si imparavano osservando le donne più brave che le ideavano. Non c’era altro da fare se non guardare e provare a riprodurre gli schemi, con pazienza, più e più volte. I modelli, i nomi di questi, le altre fibre che si mischiavano alla paglia nelle trecce, nascevano dalla fantasia delle trecciaiole che provavano ad alternare fili in modo diverso per creare qualcosa di nuovo, una tipologia differente che, se avesse riscontrato il favore del mercato, avrebbe loro permesso di guadagnare di più

Una fibra speciale 
La particolarità della paglia signese era la sua omogeneità e qualità, lucentezza e bellezza. Come fare a ottenerla lo aveva insegnato il Michelacci: si seminava il grano fittamente così che lo stelo crescesse allungandosi più possibile a cercare la luce del sole; non si mieteva, ma si sbarbava la pianta prima che giungesse a maturazione. Privato poi della spiga e delle foglie veniva tagliato all’altezza dell’ultimo internodo. Era questa la parte che serviva per l’intreccio. Il procedimento per ottenere questa fibra era lungo e complesso. A queste fasi vi erano per lo più addetti gli uomini, come uomini erano gli intermediari che, procuratisi la paglia adatta, la fornivano alle trecciaiole (ogni intermediario, detto fattorino, faceva riferimento a un “suo” gruppo di donne) per poi ritornare a riprendere le trecce o i cappelli già cuciti. Il passaggio successivo era vendere ai commercianti il prodotto finito e ottenere il guadagno ricavato da questa intermediazione. 

Cappello di paglia signese

Lo sciopero del 1896 
Tra Otto e Novecento, però, una grave crisi economica colpì la Toscana. Le trecciaiole dettero vita a un epocale sciopero nel maggio 1896, il primo sciopero femminile della storia sociale italiana. I motivi di questa rivolta che ebbe eco in tutto il mondo, dalla Svizzera alla Nuova Zelanda, furono studiati direttamente dal Governo italiano che istituì un’indagine (Relazione sulle condizioni della industria fiorentina delle trecce e dei cappelli di paglia nel 1896), conclusasi con estrema celerità nel mese di agosto, temendo l’innescarsi di disordini ancora più vasti. La crisi del cappello tradizionale in tredici fili di paglia fatto a Firenze, prodotto di punta, alla base di questa rivolta di donne, derivò non solo dalla concorrenza più a basso costo del mercato interno, ma soprattutto per l’arrivo dalla Cina di trecce di paglia di riso insuperabili per convenienza e alta qualità. Il seme del grano marzuolo andò a costare addirittura più della treccia d’importazione. Solo le donne più brave continuarono a lavorare mentre l’enorme platea delle donne comuni che da una vita riproducevano lo stesso intreccio in maniera quasi meccanica, si ritrovarono improvvisamente senza sostentamento per la famiglia. Erano moltissime. A capo delle scioperanti fu Barsene Conti da Peretola, detta “la Baldissera”. Recentemente il Comune di Campi Bisenzio le ha dedicato un grande giardino pubblico, perché resti memoria dell’opera coraggiosa di questa protagonista di fine Ottocento. 

Il silenzio 
Dal vastissimo universo delle trecciaiole emergono i loro nomi poche volte e solo in rari casi. Nella letteratura che le riguarda queste non sono mai definite se non in gruppi e luoghi in cui operavano: le trecciaiole di Brozzi, quelle dell’Impruneta, di Signa o di Carmignano, per esempio. Gli unici, rarissimi, casi in cui si menzionano per nome sono o perché autrici di un particolare cappello o intreccio, o perché assurte alle cronache per fatti giudiziari. Per trovare i loro nomi dobbiamo aprire i documenti conservati negli archivi comunali, tra gli Stati di famiglia o nei Censimenti. Tra Otto e Novecento, nelle descrizioni dei mestieri esercitati nei nuclei familiari ci sono sempre trecciaiole o cappellaie. Spesso sanno leggere e scrivere: poco, ma quanto basta per tener conto di quanto dovevano venir pagate dai fattorini o per leggere un appunto riguardante un ordine. Lavorano anche le bambine di otto o dieci anni, per aiutare ad esempio la madre rimasta vedova o perché la famiglia aveva poche risorse. Del resto, per diventare davvero brave, si doveva cominciare a intrecciare da piccole e la strada era lunga. Negli anni d’oro della manifattura della paglia signese, intorno al 1840, le donne più capaci riuscivano a guadagnare quasi quanto un professionista. Qualche famiglia conserva ancora il ricordo di una propria antenata che faceva la treccia, ma più il tempo passa, più cade il silenzio su questo mondo e sulle sue protagoniste.

Foto di proprietà della famiglia Masi-Pratesi

Le donne e la fabbrica 
Successivamente allo sciopero del ’96 la produzione del cappello da donna si interruppe. Si dovrà attendere il 1910 circa quando iniziò una fase di ripresa, grazie alla produzione di un nuovo modello di cappello, questa volta da uomo: il canotto o paglietta. Il mutamento più rilevante fu senz’altro lo spostamento della lavorazione del cappello di paglia dalle mura domestiche alle fabbriche. Il canotto presupponeva l’uso di macchine per cucire e presse per dare la forma. Le trecciaiole non lavorano più esclusivamente a domicilio: ora si recano in fabbrica e questo significò per loro una maggiore emancipazione. Vestite con più cura e pettinate, le “fabbrichine”, così venivano chiamate non senza una certa malizia e velato giudizio, partivano la mattina a gruppetti, sottobraccio, per recarsi a lavorare, tra chiacchiere e piccoli screzi. Le donne verranno pagate meno rispetto all’uomo, ma si chiederà loro lo stesso impegno. Certo è che le fabbriche si adattano alla grande presenza femminile attrezzandosi anche con la “stanza per l’allattamento”, permettendo così alle giovani madri di portare con sé i figli neonati. Fra alti e bassi il lavoro delle trecciaiole e delle cappellaie ha continuato a esistere nella zona intorno a Firenze fino agli anni ’70 del Novecento. Il cambiamento del gusto, della moda, i nuovi modelli di vita che si consolidavano portarono ad abbandonare l’uso del cappello. La nuova produzione che caratterizzò il territorio della Piana fu quello della maglieria e a Signa nacquero stabilimenti in risposta alle nuove esigenze del mercato. Molte delle nuove ditte avevano nomi di donne perché da donne erano state fondate. L’imprenditoria a Signa fu caratterizzata proprio da una forte presenza femminile, con un bagaglio di tecniche e conoscenze che derivavano dalla paglia e che ben si applicavano al nuovo mondo della maglieria. 

Scarpe e ciabatte in rafia prodotte dalla ditta “Lodoletta” nei primi anni ’50

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Articolo di Maria Emirenza Tozzi

Storica dell’arte, esperta di fibre vegetali da intreccio, è stata conservatrice presso il Museo della Paglia di Signa (FI). Tiene lezioni sulla storia del cappello di paglia di Firenze e laboratori di intreccio. E’ docente di scuola media.

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