Quest’anno, in occasione del Giorno della Memoria, con la nostra Compagnia di Teatro filosofico, abbiamo voluto dar voce a chi ha fatto opposizione al fascismo e, dopo l’internamento, ha fatto ritorno dalle deportazioni nei Lager.
Il dopoguerra italiano, tra il’45 e il ’50, è stato ricco di difficoltà di ogni genere per coloro che erano riusciti a salvarsi, ma poco raccontato. Il ritorno alla vita di due reduci è stato il tema sviluppato, grazie al ritrovamento di un vecchio libro, Ritorno alla vita, di Vincenzo Pappalettera, anche lui deportato politico a Mauthausen, e famoso per il suo precedente libro Tu passerai per il camino.

Nella rappresentazione scenica, avvenuta domenica 22 gennaio a Merlino, c’è stato un bell’accompagnamento musicale grazie alla chitarra di Alex Filippini, al corno di Luca Medioli e alla splendida voce di Sonia Luglio. In apertura e in chiusura, danze ebraiche del gruppo Danze in cerchio di Regina Riva con Tania Cristiani, Carla Tinelli e Loredana Iavello.
Alcune parti vengono lette, altre recitate
Prima Danza: Rikud Shel Shabbat
Egidio legge un’introduzione storica: «Sappiamo che le deportate e i deportati militari e politici (i triangoli rossi) italiani censiti furono oltre 23.000, 22.204 uomini e 1.514 donne.Tra di loro c’erano donne e uomini antifascisti, partigiani, sindacalisti, scioperanti, fiancheggiatori della resistenza, ostaggi prelevati al posto del familiare partigiano, ma anche renitenti alla leva, militari fascisti disertori, detenuti comuni, borsaneristi, militari italiani sotto processo, chi aveva aiutato gli ebrei, chi aveva ascoltato Radio Londra. Ne morirono 10.129, ovvero il 45%. Le/i deportati ebrei italiani furono circa 8.000, ne morirono quasi il 90%. Vi furono anche i circa 600.000 Internati militari italiani che, dopo l’8 settembre, rifiutarono di combattere al fianco dei tedeschi e furono costretti al lavoro forzato, sia pure sottoposti a condizioni detentive meno dure (ne morirono tra i 40 e i 50 mila, quasi il 10%). Di omosessuali, deportati in quanto tali, in Italia, non ce ne furono. La condizione dei deportati e delle deportate italiane nei campi fu particolarmente difficile: agli occhi dei tedeschi erano traditrici, mentre agli occhi delle altre e degli altri deportati erano tutti fascisti. L’isolamento delle/degli italiani nei campi nazisti fu accentuato anche dalla loro scarsa conoscenza delle lingue che impediva loro di comprendere prontamente gli ordini in tedesco e ostacolava la loro comunicazione con gli altri e le altre prigioniere. Dopo la liberazione, le liste dei profughi e profughe, e il luogo in cui si trovavano, vennero trasmesse dalla radio, pubblicate sui giornali e, più spesso, affidate a foglietti appesi a cartelloni nelle stazioni ferroviarie. Convinti che, abbattuto il fascismo, fosse realizzabile un mondo nuovo fondato sulla giustizia, due sopravvissuti del Lager di Mauthausen, un ex militare e un politico antifascista, affrontano le difficoltà del dopoguerra, sforzandosi di reinserirsi nella vita civile. Storia di ieri, ma nel contempo anche storia di oggi perché è indubbio che le scelte morali, sociali e politiche di quegli anni, tra il ’45 e il ’50, hanno influenzato la realtà di oggi.
L’opera Ritorno alla vita pone domande inquietanti ed emblematiche; l’esperienza della deportazione ha dotato i protagonisti di un sesto senso, che permette loro di comprendere meglio la società, o forse può averli colpiti talmente da far loro vedere nella vita di ogni giorno fantasmi di kapò che cercano di spersonalizzarli? L’aver subito la deportazione ha condizionato fortemente la loro esistenza: «Essere stato in Lager è un impegno» ci dicono e chi, come noi oggi, ascolta un superstite dell’Olocausto diventa a sua volta un testimone.
«La composizione umana stratificata del Lager porta con sé anche la confusione delle lingue», scriveva Primo Levi, una Babele che riveste un ruolo centrale nei ricordi dei deportati italiani: spesso vi era la difficoltà di capire gli ordini, ma anche il divieto di usare una lingua diversa dal tedesco. Rimane il ricordo ossessivo di parole che continuano a tornare alla mente, anche a tanti anni di distanza. Rimangono vive, negli ex prigionieri, le parole del linguaggio del Lager provenienti da varie lingue che si sono mescolate tra di loro: tedesco, russo, polacco, spagnolo, italiano.
Si sente una voce forte maschile fuori campo: Achtung, raus, arbeit, appellplatz, bahnhof, cantera, charasciò, como no, frio, gucke, Kamarad, Kapò, Kaputt, kartoffel, macaroni, misky, musulman, polsky, skurva, stuck, tovarisch, verboten, warum
Matilda, una studente di 3^ media, col libro di storia in mano: «L’insegnante di storia ha parlato oggi della giornata della memoria, istituita dall’Onu nel 2005 a ricordo della liberazione dei campi di concentramento nazisti, dove milioni di persone vi trovarono la morte; la maggior parte erano ebrei, ma moltissimi furono i russi, i prigionieri politici, i rom e sinti, gli omosessuali di tutta Europa. I prigionieri e le prigioniere superstiti dovettero superare immense fatiche e pericoli prima di poter fare ritorno nelle loro case. Molti morirono di fame e di freddo lungo le strade europee in quella che fu chiamata marcia della morte. La Croce Rossa diede soccorso ai/alle reduci, benché le strade e le linee ferroviarie fossero per lo più impraticabili e pochi furono gli aiuti ricevuti dalle popolazioni dei paesi e città attraversati. La nostra insegnante ha detto che la memoria non deve mai venir meno per non correre il rischio che noi giovani non si conoscano i fatti storici e si ripiombi in baratri di disumanità che oggi, purtroppo, riemergono nelle guerre e nelle dittature in corso. Quali italiani e italiane finirono nei campi di concentramento? Ho chiesto all’insegnante. Lei ha risposto che per la maggior parte ci finirono ebrei e di questi pochissime/i, come Primo Levi, Liliana Segre, Settimia Spizzichino, si salvarono, ma anche oppositori politici e disertori. Molte/i furono deportati nei campi di concentramento a lavorare come schiavi, specie quegli operai che fecero gli scioperi nelle fabbriche nel marzo del 1944, lo sciopero più grande di tutta l’Europa, contro gli armamenti nazi-fascisti, contro le deportazioni e contro il caro vita. Lavoratori e lavoratrici della Falk, della Pirelli, della Breda, della Marelli subirono più di mille deportazioni, specie a Sesto San Giovanni. Tornò solo chi era più giovane dai vari campi di concentramento, gli anziani e le anziane morirono per le condizioni disumane. Al termine della lezione l’insegnante ci ha fatto ascoltare le canzoni di Jannacci: Ma mi e Sei minuti all’alba che parlano dei condannati.
I due reduci entrano in scena e si abbracciano.
Tino: «Sono Tino Brambilla, soldato ribelle alla repubblica di Salò, ho fatto 14 mesi di prigionia e ora, giugno 1945, sono tornato a Milano, ho moglie e due figli. Come abbiamo potuto sopravvivere? Passo giornate terribili rivedendo ogni episodio vissuto a Mauthausen, la morte di ogni compagno, un incubo. Ci siamo conosciuti a Gusen nella Transportkolonne e ci siamo sempre aiutati; Antonio, ricordi quando Willy ti schiacciò gli occhiali e poi in baracca li abbiamo aggiustati?» Antonio: «E la zuppa ridivisa quando uno dei due veniva punito da Willy che lo lasciava senza rancio?» Tino: «Quanti ne abbiamo lasciati in Lager!!! I più anziani non ce l’hanno fatta e molti li abbiamo portati all’ospedale perché ridotti malissimo.
Antonio: «Sono Antonio Graziadei, prima del Lager ero confinato su un’isola perché comunista. Eccoci al Centro Assistenza Reduci in corso Italia al numero 10, per la restituzione di effetti personali che gli alleati hanno requisito al momento della liberazione del Lager. Ecco il mio orologio, ma questa, Tino, non è la tua cintura? C’è un cartellone con foglietti e foto appesi per la ricerca di informazioni, qui si ammassa un sacco di gente! A noi reduci viene dato un foglio prestampato affinché si possano lasciare informazioni utili sui nostri compagni, quelli al fronte o in prigionia, per favorire il ritrovamento di chi non è tornato; è un aiuto alle loro famiglie. Guardate quanta gente ritroviamo che però non credono ai nostri racconti dei Lager, dicono che ci stiamo inventando tutto. Meglio non parlarne più, allungare la manica della camicia e nascondere il numero tatuato sul braccio sinistro, ma tu, Tino, dici che si deve invece continuare a parlarne. Il fascismo è Kaput, ma non lo è la società che lo ha generato. Sono tornati per ora solo due gruppi di reduci, il nostro da Mauthausen e uno da Dachau; qui nessuno conosce la vera portata della tragedia, nessuno si rende conto di quanti eravamo. I parenti ci assaltano mostrandoci le foto. Una donna si aggrappa a noi e mi grida: «Chi ha visto mio marito? Tralci Alceo? Era alto, biondo. Hei tu, vieni da Mauthausen? Guarda la foto di mio marito, lavorava all’Alfa Romeo, è stato arrestato dopo lo sciopero del marzo’44; sono venuti di notte i fascisti a prenderlo a casa; il direttore della fabbrica aveva dato l’elenco ai capi fascisti che hanno fatto gli arresti e poi li hanno consegnati alle SS. Mio marito era amico del prevosto di Sesto San Giovanni, certo don Mapelli, che aiutava gli antifascisti, ma quella volta non ha potuto far niente. Han trovato in casa anche dei giornali clandestini come questi (li sventola) e ciò ha peggiorato la situazione. Ne han portati tanti a San Vittore in quei giorni e poi li hanno deportati in Germania. Mi hanno fatto sapere che mio marito era a Mauthausen, sono 15 mesi che aspetto».
Antonio: «Signora, noi due non lo abbiamo conosciuto; in Lager era difficile conoscere i nomi e poi c’è da dire che l’aspetto fisico in Lager era ben diverso da quello di queste foto scattate magari nei giorni di festa; quello che so di certo è che io conosco i nomi dei fascisti, capeggiati dal Mastellini, che hanno catturato, torturato e fatto deportare ben otto amici rimasti là. Tino: «Mi hanno dato cinquanta lire, qui al Centro, come risarcimento. Cosa dici, andiamo all’Osteria? …con la fame che abbiamo!».
Stacco cantato: La vita è bella.
Osteria da Enea, mensa di guerra, 17 lire pasto completo.
Antonio: «Kamarad, ricordi la fame in Lager? Il cibo era scarso e noi, con la nostra misky in mano, guai a smarrirla, continuavamo a fare discorsi sui cibi di casa nostra? Si parlava di ricette tutti i giorni, di pane bianco e di salame. Tu, Tino, ci dicevi che tua moglie Rosina sapeva fare molto bene i tortellini. Ora qui a Milano c’è tutto razionato; se vuoi mangiare, devi andare al mercato nero dove la roba costa cento volte tanto, ma chi ce li ha i soldi? Vedi quella scaletta di legno? Porta in solaio dove Enea, il proprietario, tiene, o di certo teneva, scorte alimentari per il mercato nero, carissimo, che la povera gente non poteva permettersi, ma i fascisti che lo proibivano poi se ne servivano. Enea ora accoglie partigiani e reduci come noi per confondere le acque sul suo passato, avendo lui servito quelli della Muti e della Gestapo. Ecco qua che bel salame, a me piace a talloni e anche un bel pezzo di formaggio. È necessario fare un’analisi politica sulla mancanza di cibo a Milano; stanno infatti diminuendo le razioni nelle tessere annonarie, i campi non hanno prodotto grano perché non sono stati coltivati, cosa faremo? Ma andiamo a trovare i nostri compagni in sanatorio; portiamo loro i nostri avanzi di cibo».
Tino: «Sì, andiamo al sanatorio di Garbagnate; per fortuna i tram vanno, l’Atm non si è mai fermata durante la guerra; vogliamo vedere i reduci, i nostri compagni ricoverati, Luigi, il Franchino e credo anche l’Andrea, scampati come noi da Mauthausen, ma che non si reggono in piedi. Suora, non faccia troppe storie per l’orario visite! Noi entriamo lo stesso. Vedo che qui non danno troppo da mangiare, pastina, solo pastina; sarà per far abituare lo stomaco che è rimasto chiuso tanto tempo. Compagni, vi abbiamo portato noi del cibo dall’osteria, ecco del salame e del formaggio. Vi curano bene, qui? Dovete riprendervi al più presto, intesi! Torneremo ancora a trovarvi, speriamo di vedervi in piedi la prossima volta. Noi due andiamo a parlare col prof Ferrari che ci visita, perché anche noi ci siamo indeboliti: cuore, polmoni, fondo dell’occhio; dice che siamo tra i pochi fortunati che non hanno subito danni permanenti dai Lager. Io però non potrò più fare lavori pesanti».
Stacco musicale: Schindler’list.
Dachau, War Crimes Branch.
Antonio: «Ci vogliono a testimoniare a Dachau sui crimini di guerra, è un’indagine per raccogliere i nominativi da mandare al grande processo di Norimberga. Questo ordine ci coglie di sorpresa, ma dobbiamo andare. Monaco è una città distrutta, si vedono solo macerie. La nostra testimonianza non avrà un gran valore, ormai i giornalisti al seguito delle truppe alleate hanno divulgato a tutto il mondo cosa sia stato l’universo concentrazionario. Impiccheranno di certo tutti i criminali. A Gusen, dove eravamo noi due, sono morti circa trentasettemila deportati, e un terzo di questi per mano del kapò Willy che li ha massacrati di lavoro. Ma stiamo a vedere quali sono le leggi americane?
Tino: «Il solo fatto di essere stati deportati è un impegno a testimoniare. Ora noi siamo fuori e gli aguzzini sono dentro: le Ss a Mauthausen erano cinquemila, i kapò tremila. Guarda, quei pochi che hanno preso li trattano bene: cibo, sigarette, uscite in giardino, non come hanno trattato noi. Non vogliono che deperiscano, che suscitino compassione. Ho sentito dire che pagheranno solo un migliaio da tutti i Lager; gli americani vogliono chiudere presto la questione, vogliono l’alleanza coi tedeschi per riprendere con loro una buona economia. Ci sono troppi interessi con gli ex-nazisti. Qui gli americani vogliono riscontrare le singole responsabilità di ognuno, cercare i Kapò più crudeli ma i kapò erano tutti cattivi, tutti uccidevano, tutti bastonavano, di buoni non ce n’erano. Willy buttava giù i prigionieri dalla rupe chiamata dei paracadutisti o meglio, prima di uccidere il prigioniero, gli gridava di scegliere se voleva essere ucciso con un colpo di pistola, oppure, se preferiva, poteva buttare giù un compagno. Noi non sappiamo il nome e la nazionalità di ogni singolo individuo e quindi, dicono gli americani, non si può accusare Willy, quella canaglia, perché il reato non sussiste». Antonio: «Kappel ha ucciso un olandese, un ebreo olandese, ricordate? Kappel voleva che gli si costruisse una bambola per la sua prostituta preferita e l’olandese disse che ne era capace e così fu trasferito in un magazzino dove mangiò e si ristabilì, ma quando dimostrò di non saper costruire nessuna bambola fu ucciso. Noi non assistemmo direttamente all’uccisione, ma l’olandese non tornò più nella camerata. Per la giustizia americana questo non è un reato dimostrato e quindi non esiste. Valgono solo gli omicidi visti personalmente da chi li testimonia, come dice la loro legge americana, ma qui siamo di fronte a crimini di una immensità mai vista! Ci vogliono altri criteri». Tino: «Ora ci fanno fare un confronto, con una traduttrice, tra noi vittime e gli aguzzini, in questa baracca allestita come un teatrino. Gli aguzzini o dicono che non ricordano o che non è vero ciò che noi sosteniamo». La traduttrice di Willy riferisce: «Noi kapò eravamo costretti a stare in Lager e obbedire ai comandi: ebrei e politici dovevano morire, tanto valeva abbreviare i tempi»). Tino: «Io so che Willy era un ergastolano a cui Hitler aveva concessa salva la vita se fosse entrato in Lager come kapò, era triangolo nero, quello dei delinquenti. Era diventatoOberkapò, comandava 15/20 kapò, era spietato contro tutti i prigionieri, gridava, picchiava per nulla a scopo intimidatorio; chi non riusciva più a lavorare doveva morire sotto le sue nerbate. Il nazismo ha trasformato una gran quantità di meschini in biechi assassini. La traduttrice di Willy interviene di nuovo dicendo: «Sì, sollecitavo quelli che battevano la fiacca, ma non ho mai spinto uno giù dal dirupo, saranno caduti da soli perdendo l’equilibrio. Pagheranno pochissimi di noi kapò, quegli sfortunati che incroceranno le testimonianze schiaccianti dei testimoni, ma nel caso non ci siamo testimoni, perché tutti morti, non verranno incriminati». Segue il racconto autobiografico di Willy che era assistito da un avvocato; traduttrice: «Sono figlio di padre tedesco e madre zingara e per questo portato ad Auschwitz, perché non ariano puro, dopo aver combattuto per due anni nella Wehrmacht e lì accetto l’incarico di diventare kapò. Poi vengo trasferito a Mauthausen a occuparmi della cava, quella di 186 gradini, chiamata cava della morte, perché mi hanno ritenuto forte, il motto era: uccidi se non vuoi essere ucciso». Il suo avvocato dice che non c’è la certezza delle testimonianze, che le parole degli italiani contro di lui non sono precise e che pertanto Willy non può essere mandato a processo. Perché, conclude l’avvocato, infierire su un kapò e, magari, liberare le Ss? Willy è un piccolo uomo, debole, privo di freni inibitori, senza un ideale, senza una fede politica o religiosa. Andò soldato a 17 anni, conobbe solo violenza; è una vittima del sistema. Fu facile spersonalizzarlo. Chiedo pertanto che venga messo in libertà. E così è avvenuto quel giorno stesso.
Antonio: «Tino, torniamo a casa! La nostra testimonianza qui non conta niente, non interessa alla legge americana che pretende che noi si andava a chiedeva i documenti ai prigionieri mentre venivano colpiti a morte. Così i boia nazisti escono dalle galere e, in Italia, vi entrano i partigiani. In Italia l’amnistia Togliatti del giugno 1946 ha risposto all’obiettivo della Dc che voleva un’amnistia quanto più estesa possibile verso i fascisti, estesa anche a sinistra per includere in parte i crimini partigiani. L’amnistia ha portato alla scarcerazione dei torturatori, mentre i partigiani e le partigiane restano nelle carceri. Sappiate che De Gasperi, capo del Governo, è andato in America e il 4 gennaio ’46 ha firmato per ricevere gli aiuti americani, in cambio dell’eliminazione, in Italia, di socialisti e comunisti da tutti i posti chiave».
Stacco cantato: Blowin’in the wind.
Tino: «Ora che ho ripreso il mio peso forma, devo trovare un lavoro e per questo mi chiedono di compilare molte carte dove mi fanno mille domande. Sono nato nel settembre 1915, ho moglie e due figli, ho la 5^ elementare, dal ’42 sono iscritto al Psi, cosa che sono andato a dichiarare anche in Lager e che ha peggiorato la mia condizione di prigioniero politico, triangolo rosso. Senza raccomandazioni, specie quelle di un curato, oggi non si lavora. Sono tornato dall’ing. Carugati per trasformare i capannoni della sua fabbrica metalmeccanica dalla produzione di materiale bellico alla produzione di oggetti per il tempo di pace. Gli ho detto che non posso più fare il lavoro pesante che facevo prima. Mi offre il posto di capo officina, solo se lascio il sindacato e il partito. Io non so comandare, non so fare il kapò e non lo voglio fare; sono uno dei 600.000 militari italiani internati in Germania dopo l’8 settembre che hanno preferito marcire dietro ai reticolati, morire di fame e di epidemie, lasciarsi divorare dai parassiti, patire il freddo dell’inverno tedesco o polacco piuttosto che giurare fedeltà alla repubblica fascista di Salò e salvare la pelle. L’ho fatto per difendere la libertà e in questo modo veniamo ricompensati? Ma ora come manterrò la mia famiglia? Come farò questa sera a dire a Rosina che anche oggi non ho trovato il lavoro? Antonio: «Hai ragione Tino; io torno a Roma dove lavoro per il partito comunista, lo stipendio è basso, ma almeno un lavoro ce l’ho. Cerco di aiutare tutti i compagni a trovare la casa e un lavoro. Ci troveremo un’altra volta, anche con i compagni che saranno guariti».
Seconda Danza: Agalaim Susa.
Riccarda: «Da un lavoro di Elisa Guida La strada di casa. Nel capitolo: tornare, mangiare, raccontare si legge che nel 1963 venne pubblicato da Einaudi il romanzo di Primo Levi, La Tregua, racconto del lungo e travagliato viaggio di ritorno dal lager di Auschwitz verso l’Italia, attraverso un’Europa distrutta. L’arrivo alla stazione di Torino nell’ottobre del 1945 con cui si conclude il libro, non costituisce un lieto fine: «La casa era in piedi, tutti i famigliari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, stentai a farmi riconoscere». Ritrovati i vecchi amici, ripreso il lavoro quotidiano, in Levi restava la consapevolezza di non essere mai uscito dal lager, perché la guerra è sempre. E così, il rimpatrio dalla prigionia aveva rappresentato solo una tregua, una vacanza, tra l’esperienza del lager e il difficile ritorno alla vita. Il reinserimento dei reduci nella società civile e le memorie di quella drammatica esperienza, il periodo che va dall’apertura dei cancelli dei lager al rimpatrio, non ha quasi mai destato un particolare interesse tra gli studiosi/e. Decenni di indifferenza verso il loro dramma. Così, nella memorialistica il momento della liberazione dai campi è trattato in poche battute. Solamente pochi/e testimoni hanno aperto la riflessione al dramma del ritorno a casa e alla normalità anche se, come afferma Levi, chi è stato nei lager non vi è mai uscito: «il disinteresse con il quale furono accolti in patria fu lo specchio di un paese che non riuscì a elaborare con senso di responsabilità la propria storia recente». Il rimpatrio come fatto esistenziale: il viaggio di ritorno non fu infatti una semplice peregrinazione per l’Europa, ma fu un percorso interiore, «una transizione da uno stato esistenziale all’altro affrontato dai superstiti con l’animo sospeso di chi spera che il proprio universo affettivo non sia stato completamente distrutto». Il rimpatrio non rappresentò né la fine dell’orrore del lager né la ripresa della normalità, ma una tregua tra due guerre diverse, una appena terminata e una che si apriva: un tempo necessario, secondo le parole di Liliana Segre, per riprendere le forze fisiche e morali necessarie a sopravvivere in una società che non sembrava voler accoglierli.
Terza Danza: Matzlla Ch Moshiach.
Hanno interpretato questa pièce: Camelia Ardelean, Maria Grazia Borla, Luca Laudato, Riccarda Longaretti, Matilda Pierangeli, Egidio Pinna, Giulia Riboli.
In copertina: la Compagnia teatrale.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.