Al quarto anno di liceo ebbi modo di vedere dal vivo Guernica di Pablo Picasso: un’opera mastodontica – 3 metri di altezza e quasi 8 di larghezza – dipinta a seguito del bombardamento a tappeto della cittadina basca di Guernica per opera delle truppe nazifasciste a sostegno del futuro dittatore Francisco Franco, ricordato come uno degli episodi più sanguinosi e atroci della Guerra civile spagnola. Picasso completò l’opera in poco meno di tre mesi, appena in tempo per mostrarla al mondo durante l’Esposizione universale di Parigi del 1937. Leggenda vuole che un ufficiale nazista vedendo il quadro abbia chiesto con disgusto: « Avete fatto voi questo orrore, maestro?». Picasso avrebbe risposto: «No, siete stati voi».
Guernica, che si trova nel museo madrileno intitolato alla Reina Sofia, è stata riprodotta migliaia di volte su libri, poster e cartoline; se già vederla così in piccolo suscita inquietudine, dal vivo è un pugno allo stomaco: il quadro è enorme, ti fagocita e ti rende parte delle scene che vi si stanno svolgendo, mettendoti nei panni di un civile miracolosamente sopravvissuto al bombardamento e che si guarda intorno in cerca di punti di riferimento familiari; con orrore crescente si assiste alla morte di un toro, l’animale simbolo della Spagna, al grido al cielo di una madre che tiene in braccio il figlioletto morto, a un cavallo (più simile a un asino) spaventato che pesta con i suoi zoccoli il cadavere del suo cavaliere, due donne, una ridotta alla sola testa, che guardano con sgomento la scena, mentre un’altra è rimasta intrappolata tra le fiamme e urla di dolore. I soggetti sono deformati secondo i dettami dello stile cubista di cui Picasso è stato il più grande esponente e probabilmente nessun realismo avrebbe potuto riproporre l’orrore della scena come lo hanno fatto queste figure che sembrano disegnate da un infante. Non c’è colore, solo bianco e nero e grigio come le foto dei giornali che riportavano gli eventi di Guernica, le fonti che l’artista ha usato per ispirarsi; l’unica punta di colore è il pallido giallo di una lampadina che simboleggia la speranza e la ragione. Guernica è una denuncia della violenza insensata della guerra, del dolore subito dalla popolazione indifesa e una delle mie opere preferite in assoluto. Eppure, c’è una nota dolente in questo mio elogio: io so che Pablo Picasso non era una brava persona e questo mi guasta il godimento del capolavoro perché mi porta a tessere di lodi di un uomo che, se non fosse stato un artista, avrei visto volentieri in un istituto psichiatrico o in prigione. Se questa personalità controversa potrebbe essere cosa di poco conto per i più se paragonata al suo genio artistico, come lo è stato per decenni, di recente la questione si è fatta più scottante.

È noto che Picasso fu un uomo molto tormentato dalle proprie vicende familiari e da quelle storiche del Novecento; un dolore che, per citare un detto dello slang americano, ha voluto che fosse un problema per tutte le persone che gli stavano attorno. Il suo amore per le donne – mogli, amanti, muse – andava di pari passo con il disprezzo che provava per loro, sentimenti contrastanti che davano nutrimento alla sua vena artistica e di cui le maggiori vittime furono tutte coloro che ebbero la sfortuna di averlo nella loro vita.
Fernande Oliver, la prima moglie e prima musa, fu abbandonata in miseria dopo otto anni di matrimonio e di abusi per Marcelle Humbert, morta poco tempo dopo di tubercolosi; in seguito Picasso incontrò la seconda moglie, Olga Khokhlova, una ballerina russa da cui rimase folgorato: Khokhlova gli diede il primo figlio Paulo e fu sua ispiratrice assieme ad altre decine di amanti con cui la tradiva regolarmente. Fra queste c’era la minorenne Marie-Thérèse Walter, che gli diede la seconda figlia, Maya, e fu causa di una violenta separazione da Khokhlova. Poco tempo dopo Picasso incontrò Dora Maar, una delle fotografe più influenti dell’epoca, intrattenendo con lei una relazione tempestosa senza smettere di frequentare Walter: l’una sapeva dell’esistenza dell’altra e l’uomo pareva trarre godimento dalla gelosia feroce delle due donne, arrivando anche a organizzare delle cene dove entrambe erano presenti. Fu Maar a documentare la genesi di Guernica con la sua fotografia, una passione che Picasso la costrinse ad abbandonare in favore della pittura. (vedi Vv n.202) Fu un fatale errore: Picasso criticava con durezza qualunque sua produzione, suscitando in lei ira e dolore e umiliazione che lui riproduceva poi nei suoi quadri. Tutte le sue realizzazioni hanno, in realtà, un qualcosa delle donne che ha maltrattato, come se avesse rubato loro qualcosa per cui era poi impossibile tornare a una vita normale.

A sessant’anni, terminate le relazioni con Maar e Walter, incontrò la ventiduenne Françose Gilot, che gli diede altri due figli, Claude e Paloma; pure con lei il meccanismo di amore passionale e crudeltà non si placò, compresi i tradimenti. A differenza delle altre, però, Gilot rifiutò di accettare passiva l’abuso: lo lasciò, dicendogli anche che la sua pittura non le piaceva; Picasso le rispose spegnendo una sigaretta sulla sua guancia e pregandola di rimanere alternando suppliche a minacce e insulti, inutilmente. Gilot pubblicò poi la propria autobiografia, Vita con Picasso, che gettò un’ombra oscura sulla figura di un pittore fino a quel momento osannato. Sposò l’ultima moglie, la ventottenne Jacqueline Roque, dopo la morte di Olga nel 1961: tradì anche lei, ma Jaqueline rimase comunque al suo fianco fino alla morte avvenuta nel 1973. L’eredità di Picasso per le persone attorno a lui fu solo miseria: Paulo, Marie-Thérèse e Jacqueline si suicidarono, Khokhlova finì i suoi giorni in manicomio, Maar morì in solitudine dopo anni di terapie, tenuta in vita dalla volontà di non volerla dare vinta al suo vecchio amante e andare avanti anche dopo il suo abbandono.

Tutti e tutte coloro che frequentavano Picasso sapevano della sua indole, che corteggiava assiduamente le sue amanti solo per poi abbandonarle nella disperazione, che picchiava le sue compagne e i suoi figli e figlie – che mai ebbero belle parole per il padre; Marina Picasso, la nipote, descrisse in una biografia pubblicata pochi anni fa dell’abuso subito dal nonno.
La sua stessa madre, Maria, pregava amanti e compagne di lasciarlo: pare che a Khokhlova il giorno delle nozze abbia detto: «Non sai a cosa vai incontro». «Per me le donne sono dee o zerbini», disse Picasso, e frasi di un simile calibro sono riportate da tutti i suoi biografi e conoscenti. Questo comportamento odioso si estendeva anche al suo lavoro: è risaputo che il cubismo sia stato ispirato dalle maschere africane portate in Europa durante il colonialismo, oggetti che non sono mai stati riconosciuti come arte dai colonizzatori solo perché prodotti da uomini e donne ritenute inferiori all’uomo bianco europeo; queste maschere non erano quindi esposte nei musei d’arte per essere apprezzate nella loro bellezza, ma in quelli etnografici, relegate a meri oggetti esotici di popoli primitivi.

Picasso non ha mai nascosto di essersi ispirato a quelle maschere ma il suo pensiero su di esse non si discostava da quello dei suoi contemporanei: mai considerò quelle maschere arte. Poco conosciuta è invece l’influenza dell’artista algerina Baya Mehieddine: un prodigio autodidatta, che nei suoi quadri raffigurava momenti di vita comunitaria femminile; usava colori accesi, mischiando a figure geometriche i ghirigori e le decorazioni dei tessuti tipici algerini, dipingendo figure astratte di donne. Picasso la conobbe a una mostra a Parigi e la invitò a collaborare con lui.
L’influenza fu reciproca e fruttuosa, eppure il nome di Baya non appare mai nei libri a lui dedicati, facendo credere che Picasso abbia fatto tutto da solo – né questi si premurò di rettificare. Se non fosse stato fatto passare che Picasso era un artista originale e unico avremmo mai accettato di celebrare un uomo violento che faceva fatica ad ammettere l’origine della sua ispirazione? Perché ridimensioniamo il dolore e il danno che persone come lui hanno causato e reagiamo con disprezzo a chi ci ricorda le sue cattive azioni, che in altre circostanze mai penseremmo che potrebbero redimere qualcuno? Picasso è l’ultimo di una lunga serie di rilevanti figure storiche oggi sottoposte a una feroce e attenta revisione della loro vita per verificare se valga la pena portarne avanti il nome nonostante le persone che erano. L’influenza del fenomeno della cancel culture è qua evidente, ma sarebbe fare un disservizio ridurlo ad esso: alla base c’è una riflessione su quanto si sia disposti a chiudere un occhio pur di poter godere di un contenuto considerato bello quando prodotto da una persona detestabile. O meglio, quando prodotto da un uomo, per quanto già immagino che la precisazione faccia storcere il naso ad alcuni di voi lettori e lettrici, ma è innegabile che la storia sia piena di uomini le cui nefandezze sono abilmente nascoste dalle lodi per la loro arte, e che in altri contesti non celebreremmo mai: ci verrebbe d’istinto mettere le mani addosso a un uomo che ha passato malattie sessualmente trasmissibili a decine di ragazzine, eppure guardiamo sognanti le spiagge polinesiane di Gauguin; mai vorremmo che un uomo guardi nostra figlia mentre si allena per il suo saggio di danza, che la tocchi e la costringa a stare in posizioni scomode per ore insultandola se si muove, eppure la serie sulle ballerine è la più famosa e celebrata di Degas. Se la classe intellettuale del passato – bianca europea e americana – non avesse deciso di celebrare l’artista mettendo in secondo piano l’uomo, avremmo mai tessuto le lodi del loro lavoro sapendo che persone erano? È davvero possibile separare l’artista e l’uomo se il primo si nutre del secondo? Del resto, Picasso usava il dolore che causava alle donne per trarre ispirazione per le sue opere: come scindere qui l’arte dall’abuso?
Sul perché si sia così ben disposti a chiudere un occhio verso comportamenti criminali se una persona ci fornisce un qualcosa che ci dà piacere il dibattito è ancora aperto: per alcuni pareri si tratta semplicemente di egoismo, finché le vittime non siamo noi non ci importa della sofferenza altrui, non possiamo farla nostra anche qualora avessimo tutta l’empatia del mondo; per altri l’egoismo è una spiegazione troppo semplice, perché il valore storico e artistico di quanto è stato prodotto da quelle mani che hanno picchiato donne e bambini è oggettivo, a prescindere dall’individuo. Picasso era sicuramente un narcisista violento che ha fatto soffrire decine di persone, eppure la forza della sua arte è innegabile: come può un uomo del genere aver avuto la sensibilità necessaria per dipingere Guernica è un enigma irrisolvibile. Forse il genio non può essere compreso da chi non ha altrettanto talento, ma può il genio giustificare abusi, stupri e sadismo solo per il contributo che dà alla società e alla cultura?
Oggi, con internet, è più difficile che certe situazioni vengano nascoste sotto un tappeto, ma la tendenza a sminuire fatti gravi se commessi da persone famose non pare avere termine: nel luglio del 2020 le immagini della rapper afroamericana Megan The Stallion che usciva zoppicante e sanguinante dalla propria macchina circondata dalla polizia fecero il giro del mondo; le indagini stabilirono che a ferirla fu un colpo di arma da fuoco sparato dal rapper Tory Lopez, che negherà sia a processo che pubblicamente di essere il colpevole. I giudici daranno ragione a Megan The Stallion, ma buona parte del pubblico aveva già deciso che la cantante stesse mentendo: oggi i suoi profili social sono bombardati da insulti e minacce da parte dei fan di Lopez; Drake, preminente cantante canadese, ha implicitamente citato la rapper nel suo ultimo album accusandola di essere una bugiarda e di aver messo in carcere un uomo innocente, una canzone che ha ricevuto moltissime critiche e milioni di stream.

Difficile dire se si arriverà mai ad una conclusione su questo dibattitto ma certo è impossibile non notare che ad essere costantemente sminuita e ridicolizzata è la violenza sulle donne, sempre e comunque sacrificabili sull’altare della gloria di un uomo.
In copertina: Pablo Picasso, Donna che piange, 1937.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.