I sogni possono abitare ovunque. In testa, in un cassetto, dietro palpebre spalancate. I sogni vivono persino nel retrocasa di un palazzo, nascosti, con solo una luce immaginata a innescare la fotosintesi. Perché i sogni sanno succhiare via angosce e paure per rilasciare ossigeno e aria pulita. Per dar loro forma e coordinate, i sogni vanno trasferiti su pagine bianche, così da poterli tenere sotto controllo, cucirli e tagliarli a seconda di ciò che serve indossare.
Sono preziosi, i sogni, salvifici. Soprattutto se sei un ragazzino o una ragazzina che sta attraversando la soglia di quella che sarà la tua vita.
Se poi hai tredici anni, sei ebrea e vivi ad Amsterdam nel 1942, allora i sogni sono davvero tutto ciò che hai: aria, sole, sorrisi, uno ieri da ricordare e un domani da sperare. I sogni e i fogli per scriverli.
Il 12 giugno del 1942, un diario con la copertina a quadretti bianchi e rossi è il regalo di compleanno che Otto Heinrich Frank ed Edith Holländer fanno alla minore delle loro figlie, Anna.
Anna ha tredici anni e dopo un’infanzia passata a Francoforte sul Meno, sua cittadina natale, si trasferisce in Olanda con la famiglia: la Germania che ha appena eletto Hitler come cancelliere non lascia loro altra possibilità se non quella di provare a cercare altrove quella normalità a cui tutti gli individui hanno diritto.È così che Anna e sua sorella Margot crescono ad Amsterdam. Se non che, nel 1940 le truppe del Terzo Reich invadono e si impadroniscono dei Paesi Bassi. E la famiglia Frank, come tutti gli ebrei e le ebree, deve tirare il freno a mano della propria vita, entrare in un forzoso stato di bonaccia nel quale non esistere pare essere l’unico spiraglio per poter sopravvivere. Sono pochi i mesi che passano dal divieto di andare al cinema, alla scuola separata per sole ragazze ebree, alla stella di Davide cucita addosso, al tentativo estremo di provare a sparire e respirare. Otto Frank, che ad Amsterdam è dirigente di una fabbrica che produce pectina e altri composti utili per fare marmellate e confetture, prepara un nascondiglio nella casa retrostante — Achterhuis in olandese — l’edificio in cui ha sede la ditta, in Prinsengracht 263. Ciò che egli spera è una clandestinità veloce, poche settimane al massimo. Dovrà, però, scontrarsi con una realtà che è ben più crudele e folle, forse, di quanto egli possa solo immaginare. Sono due, infatti, gli anni durante i quali lui, sua moglie e le sue figlie dovranno rimanere celati agli occhi del mondo, raggiunti ben presto dalla famiglia van Pels e dal dentista Fritz Pfeffer.
Due anni di prigione autoimposta perché nascondere ciò che si è diventa l’unica alternativa possibile. Due anni di una vita contronatura, soprattutto per una ragazzina di dodici anni, che dovrebbe prendere il mondo a morsi e che invece si vede costretta a mendicare le briciole di un pasto reso tossico dalla più becera oscurità umana.
È così che ai pochi metri quadri dell’alloggio da dividere con altre sette persone, Anna contrappone gli spazi sconfinati di un foglio bianco, all’interno dei quali tutto si può fare e dire, e che — ostinatamente — riescono a mantenere preziosi i segreti e discreti i pensieri e i giudizi; un foglio bianco, che diventa Kitty, amica e confidente, dove si può finalmente essere ciò che si dovrebbe: un’adolescente critica, serena, a volte arrabbiata, riflessiva, speranzosa, che guarda al proprio futuro con le aspettative di chi ha tutto da inventare. «È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità».
Anna è una ragazzina che si innamora, che si infuria, che entra in conflitto con i genitori, che si disillude e che nuovamente acquista tutta la fiducia possibile. Però, Anna, che pare ancorare la propria giovinezza alle parole confidate a Kitty, cresce e matura, inesorabilmente e meravigliosamente, nonostante tutto ciò che è costretta ad affrontare: perché la grandezza di questa adolescente è che parla sempre e comunque di vita, di normalità, anche se puntellata e sospesa dal racconto affannoso e tristemente lucido di ciò che le sta capitando, che sta capitando al mondo intorno. «Rifiuto assolutamente di fare tutti i giorni quei compiti di matematica. Anche papà li trova difficili, e io ci riesco quasi meglio di lui, ma insomma non ci riusciamo né lui né io, e spesso dobbiamo chiamare in aiuto Margot. In stenografia sono la migliore di noi tre. Ieri ho finito di leggere “De Stormers”. E’ molto carino, ma non all’altezza di “Joop ter Heul”. Comunque, trovo che Cissy van Marxveldt scrive splendidamente. Farò leggere di sicuro i suoi libri anche ai miei figli. Mamma, Margot e io siamo ritornate buone amiche; così va molto meglio».
«C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage, all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità, senza eccezioni, non avrà subito una grande metamorfosi, la guerra imperverserà: tutto ciò che è stato ricostruito o coltivato sarà distrutto e rovinato di nuovo; e si dovrà ricominciare da capo». In questa distruzione feroce , in questo gorgo che fagocita ogni minimo scampolo di luce, è gettata anche Anna Frank.
Il 1 agosto del 1944, Anna scrive l’ultima pagina del suo diario. Poi, la mattina del 4 agosto, a seguito di una segnalazione anonima, agenti della Gestapo fanno irruzione nel retrocasa di Prinsengracht 263, arrestando tutte e tutti gli occupanti, che sono interrogati per l’intera notte, trasferiti prima nella prigione di Huis van Bewaring in Weteringschans e poi, due giorni dopo, nel campo di concentramento di Westerbork.
Il 2 settembre, la famiglia Frank e la famiglia van Pels, sono caricate sul treno per Auschwitz.
Di tutti gli occupanti del nascondiglio, sopravvive solo Otto Frank.
Anna muore nel campo di concentramento di Bergen-Belsen per tifo esantematico, a poche ore di distanza dalla sorella Margot.
Questa ragazzina, assunta nell’immaginario collettivo a simbolo del peggior orrore umano, è in realtà un inno alla vita e alla normalità.
Il suo diario, recuperato da alcuni amici di famiglia all’interno del nascondiglio, è una finestra di aria pulita, spalancata sull’inferno. Un inferno nel quale Anna è stata scaraventata e al quale ha tentato di opporsi con la forza di una pagina bianca.
Avrebbe dovuto avere il diritto all’anonimato e non una fama obbligata da ciò che una follia, più nera del nero, ha deciso di imporle.

In copertina: immagine dal film di animazione Where is Anna Frank, di Ari Folman.
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.