Carissime lettrici e carissimi lettori,
La cronaca ci riporta prepotentemente alla settimana scorsa. Come se il tempo si fosse fermato lì. Perché abbiamo sulla coscienza quelle morti (quasi cento sicuramente, ufficialmente 72) della tragedia avvenuta a una manciata di metri dalla spiaggia di Cutro, in Calabria.
Ci siamo come fermati/e. Probabilmente in attesa di un discorso al femminile, diverso, innovativo. Cominciando dalla politica che è chiamata a rispondere anche di quello che è accaduto di terribile nel mare davanti alle coste calabre. Ci fermano anche, pochi giorni dopo l’8 marzo, le donne iraniane che continuano a lottare, ma contro le quali il regime degli Ayatollah non smette di porre, violentemente, ostacoli alla loro ricerca di libertà. Un regime che è riuscito a mimare la “soluzione” nazista di usare il gas per uccidere più o meno metaforicamente. Vittime le giovani ragazze e ragazzine che, per convincerle a lasciare la scuola, vengono costrette a sottostare al diktat del potere, costi quel che costi, anche ammalandosi e persino a morire respirando gas micidiali. Non pensavamo si arrivasse di nuovo a tanto. Quell’istruzione femminile che mette tanta paura anche al regime talebano dell’Afghanistan: si chiudono le università alle donne, le si obbligano di fatto a stare a casa e a non discutere. A questo serve la cultura e della cultura ha sempre avuto paura il potere.
C’è chi ha detto che la triade della protesta iraniana Donna Vita Libertà corrisponde, nella sua potenza rivoluzionaria, alla triade della rivoluzione francese. Quel Liberté fraternité égalité ha ispirato la stessa sete di giustizia e di emancipazione portata avanti dalla protesta delle donne iraniane aiutate dai loro compagni di strada.
Un filo lungo e di genere lega oggi, in Italia, per tanti versi, la destra e la sinistra. Non certo per uguaglianza di direzioni ideologiche, ci mancherebbe altro, ma per un metodo, una metodologia capace di affrontare la propria visione del mondo. Peccato, ma è una nostra opinione, che una di loro (in questo caso la Presidente del Consiglio dei ministri, e ministre aggiungiamo, Giorgia Meloni) voglia essere istituzionalmente nominata al maschile. Purtroppo, non solo lei. Sono tante le professioniste che, a me così sembra e non penso di stare nel torto, rimangono legate a uno schema di società patriarcale secondo cui nominarsi al maschile indica la forza di ciò che fanno, di quello che sanno fare sul campo, nel loro lavoro, prima aperto solo ai maschi. Appare davvero riduttivo delle proprie capacità non in quanto donna, ma in quanto persona di genere femminile e la grammatica è consequenziale!
Mi ha colpito, proprio la sera di mercoledì in cui si celebrava (non festeggiava) l’8 marzo, la puntata di una striscia serale (Il cavallo e la torre) curata da Marco Damilano. Il discorso è partito da quell’arrivare che rimane il sogno del cambiamento e che oggi, proprio come carattere del nostro tempo, della nostra contemporaneità, riguarda le donne.
Damilano ha intervistato la scrittrice Lisa Levenstein il cui libro, They didn’t see us coming, Non ci hanno visto arrivare, è la storia del femminismo negli anni ’90. Il titolo e l’essenza del libro della professoressa americana è stato il primo commento a caldo di Elly Schlein alla sua vittoria e ha contribuito, dopo il discorso di Giorgia Meloni per la Giornata Internazionale della donna, a creare quel filo che collega, più che unisce, le due prime donne della politica italiana attuale: Ancora una volta non ci hanno visto arrivare. «Penso che ci siano due elementi delle nuove forme di organizzazione femminista – ha spiegato Lisa Levenstein, storica, docente all’università della North Carolina–che hanno mosso i primi passi alla fine del ventunesimo secolo e che vediamo fiorire oggi e spesso passano inosservati. Il primo elemento è che le donne non necessariamente si organizzano intorno a tematiche dichiaratamente femminili. Si organizzano, infatti, intorno a temi come il lavoro, l’ambiente, la salute, il razzismo e l’immigrazione. Si organizzano e considerano il proprio lavoro come parte del femminismo dal loro punto di vista. Tutto è interconnesso. Ma dal momento che non si riuniscono sotto lo striscione del femminismo spesso il loro lavoro passa inosservato. Il secondo aspetto è che le donne, le femministe, e in generale le persone che prendono parte a movimenti sociali in tutto il mondo, si programmano in modi molto diversi rispetto agli anni ‘60 o ‘70 del secolo scorso. Penso che non abbiamo del tutto afferrato le differenze che riguardano il modo di organizzarsi di queste persone. I social media e Internet sono solo un aspetto del modo in cui le persone formano coalizioni. Si usa l’educazione, le conferenze, i networking. Insomma, ci sono molte nuove strategie che vengono messe in campo e che non abbiamo ancora capito pienamente».
Alla domanda se la rivoluzione al femminile contro le violenze esercitate sul corpo delle donne in Iran e in Afghanistan possa avere un futuro e cosa cambierà per loro, la storica americana ha risposto: «Non sono una sociologa o una politologa, non posso predire il futuro, ma posso dire che una delle caratteristiche del movimento per i diritti delle donne e per il controllo del loro corpo è una peculiarità che esiste da tempo, ma forse è più evidente adesso, con le nuove tecnologie a disposizione. Le persone imparano l’una dall’altra condividono informazioni superando i confini nazionali, in nuovi modi. Le donne, le attiviste occidentali hanno anche preso coscienza del fatto che noi non abbiamo tutte le risposte, siamo più illuminate più libere. Nel momento stesso in cui stiamo parlando io sto imparando dalle donne afghane e iraniane, dal modo in cui si organizzano e aprono nuove strade. Non pretendo di sapere cosa le aspetta ma so che si tratta di un movimento in cui le persone parlano tra di loro, imparano l’una dall’altra e questo si spera sarà di aiuto ad altri movimenti in Paesi diversi. Mentre stanno fronteggiando una tremenda opposizione io sto imparando da loro tantissimo. La battaglia contro il patriarcato è vinta ogni volta che un movimento cresce e crescono anche la resistenza e l’opposizione a quel movimento. Lo abbiamo visto in tutto il mondo: i movimenti per i diritti delle persone oppresse, comprese le donne, si sono rafforzati, hanno alzato la voce e hanno acquistato più spazio. Lo stesso ha fatto l’opposizione a quei movimenti, un’opposizione che cresce e trova nuovi modi di esprimersi. Per esempio con la nascita di nuove formazioni politiche ci stiamo avvicinando al punto di ebollizione in cui vediamo una crescente sfida al patriarcato ma anche un rafforzamento del patriarcato stesso». La partita, secondo Levenstein, dunque, non è affatto chiusa, ma le opposizioni si rafforzano e alla fine si può giungere al cambiamento radicale.
Un cambiamento che sembra però lontano se si segue la cronaca di questi giorni riguardante le donne, quello che subiscono, come vengono viste in questa società in cui ancora regna il concetto patriarcale della centralità dello sguardo maschile sul corpo delle donne, sessualizzato al massimo. La Presidente del consiglio parlando in Parlamento dell’8 marzo ha detto: «Ho visto spesso, anche 5 mesi fa, lo sguardo di chi mi osservava, quello sguardo che dice «ora ci divertiamo». Spesso hanno scommesso sul mio fallimento. E a volte mi è passata per la mente l’idea che forse avevano ragione, che non ce l’avrei fatta. Capita perché sono donna? Probabilmente sì. Ci ho messo molto a realizzarlo. Ma la notizia, oggi, è che essere sottovalutate è un vantaggio. Non ci vedono arrivare». Su Elly Schlein si è riversato il diluvio della banalità sessista. La neosegretaria del partito di opposizione ha ricevuto scritte offensive sui muri (a Viterbo), con tanto di firma con una svastica, è stata paragonata nel sorriso a un cavallo, si è vista sottolineare fantasiose, quanto irreali, sembianze da attribuire alla sua discendenza ebraica, di nuovo in stile fascionazista. Poi, proprio alla vigilia dell’8 marzo, Giuseppe Antipasqua, capogruppo della minoranza in Castiglione Val D’Orcia, in provincia di Siena, se ne esce con una frase squallida, ma razzista, apparsa sulla sua pagina Facebook (e poi cancellata!) di confronto con Giorgia Meloni: «Il Pd è molto felice di aver eletto come segretario generale del partito una donna – si legge – una donna che ama un’altra donna che non fa figli e questo non la fa sentire meno donna. Giorgia Meloni è una donna, capo del governo, ama un uomo, fa figli ed è cristiana». Ironicamente mi verrebbe da dirgli: «E che soddisfazione è?».
Rabbia, tanta, fanno le morti ininterrotte di donne. Sono già venti le donne uccise dall’inizio dell’anno e due sono state ammazzate nello stesso giorno. Magra consolazione personale: il mio computer non mi segna più in rosso il termine femminicidio, come se, da termine inesistente o errato, avesse preso corpo e vita linguistica. Una piccola speranza che si trasformi e diminuisca, fino ad azzerarsi, il concetto e la reazione violenta sulle donne, compresa quella fisica, psicologica ed economica, tra le più crudeli.
Intanto l’agenzia giornalistica Ansa ci informa che secondo l’Onu circa 383 milioni di donne nel mondo vivono in stato di completa povertà anche a causa delle persistenti disuguaglianze (ci vorranno almeno 3 secoli perché si annullino) e ogni 11 minuti muore nel mondo una donna per mano di un suo familiare, figli compresi. Sulle 125 donne uccise nel 2022 il 78% sono italiane. 103 i femminicidi in ambito familiare: 61 per mano del partner, o ex partner e 34 uccise da un genitore o da un figlio (fonte polizia criminale). Una triste conta.
Siamo molto d’accordo, per questo, con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha indicato la data dell’8 marzo «non come una festa per la donna ma un’occasione per fare il punto sulle criticità e su quello a cui si è giunti per ottenere la completa parità di genere». Intanto gioiamo per l’iniziativa di una o più anonime mani che hanno rallegrato le vie di Lipari, la più grande delle isole Eolie, con cartelli indicanti nomi di donne: tra le tante la filosofa Hannah Arendt e la giornalista Ilaria Alpi oltre a tante donne locali che si sono distinte nel tempo.
Se la cronaca ci ha lasciate/i alla settimana scorsa noi rimaniamo con la mente davanti a quelle bare allineate a Cutro, a chi si è salvato, ai parenti venuti da lontano per prendersi carico dei corpi, tutti e tutte, vivi/e e morti/e umiliati dallo Stato italiano che li ha relegati in un bunker, praticamente messi a dormire per terra. É triste sapere che quelle bare sono state ignorate dalla politica (solo il presidente Mattarella è andato, e in forma privata). Quelle bare dovevano essere allontanate da Cutro e il Governo, che stranamente ha voluto organizzare lì il Consiglio dei ministri, come un antico doloroso revival (quello sui morti del terremoto de L’Aquila ai tempi del governo Berlusconi), non è andato a onorarle, come fossero approdati/e sulla spiaggia di un’altra Nazione (così come questo governo ama chiamarla). In quelle bare giacciono i corpi di tante donne (anche bambine) che hanno costruito per i loro Paesi, ma che sono state costrette a fuggire. Come la calciatrice e capitana della squadra pakistana di hockey Shahida Raza o la giornalista afghana Torpekai Amarkhel.
Ci si chiede, è doveroso, il perché di tutto questo. Lo si chiede al Governo, alla Presidente del Consiglio perché le persone vanno trattate con dignità, anche dopo la morte. E qui è una morte tra le onde del mare nostrum!
Vivendo, seppure attraverso uno schermo, con tutta la sensazione ovattata data dalla lontananza, questo triste episodio, ho risentito in testa la bella musica e le parole di Ivano Fossati che dedico insieme e a nome di tutti e tutte voi ai passeggeri/profughi della barca naufragata e alla Calabria, ai suoi e alle sue abitanti che hanno dato una grande lezione di immensa umanità, un’umanità che implora uno sguardo carico della latina pietas.
Mio fratello che guardi il mondo
E il mondo non somiglia a te
Mio fratello che guardi il cielo
E il cielo non ti guarda
Se c’è una strada sotto il mare
Prima o poi ci troverà
Se non c’è strada dentro il cuore degli altri
Prima o poi si traccerà
Sono nato e ho lavorato in ogni paese
E ho difeso con fatica la mia dignità
Sono nato e sono morto in ogni paese
E ho camminato in ogni strada del mondo
Che vedi
Mio fratello che guardi il mondo
E il mondo non somiglia a te
Mio fratello che guardi il cielo
E il cielo non ti guarda
Se c’è una strada sotto il mare
Prima o poi ci troverà
Se non c’è strada dentro il cuore degli altri
Prima o poi si traccerà.
Buona lettura a tutte e a tutti
Nella settimana in cui abbiamo celebrato la Giornata internazionale della donna iniziamo la lettura della nostra rivista con «Donna». Word e il Tribunale 8 marzo, una serie di riflessioni a partire dal libro La Parola del Tribunale 8 marzo. Restando nel campo delle antesignane del femminismo, questa volta siciliano, incontriamo Due donne siciliane da ricordare. Rosa Bianca Colonna e Lina Noto.
Per Calendaria 2023, Gerty Theresa Radnitz Cori è la prima donna a ricevere il Nobel per la Medicina.
Nella Sezione Le Storie ricordiamo Anna Frank, una ragazzina che, come scrive l’autrice dell’articolo che ce la racconta, «assunta nell’immaginario collettivo a simbolo del peggior orrore umano, è in realtà un inno alla vita e alla normalità»; in campo musicale, Une salonnière et femme illustre. Pauline García Viardot, è la storia in campo musicale che ci farà scoprire un grande talento femminile.
Continuano le nostre serie. Via Nomentana n° 6. La casa di Antonia Caenis è la seconda targa commemorativa immaginaria dedicata a una donna da conoscere insieme alla sua storia d’amore con Vespasiano.
Nella Sezione Juvenilia Amare, lottare, lavorare: storie di resistenza e di filande descrive due progetti realizzati da ragazzi e ragazze dell’Iis “L. Donati” di Fossombrone, premiati nei due Concorsi Sulle vie della parità di Toponomastica femminile e delle Marche: La cucina vegana. Couscous ai pomodori, olive e capperi è la ricetta di questo numero, che coi suoi profumi ci regala un anticipo d’estate e di mare.
Questa settimana, la quarta lezione del corso sulla sessualità della Sis, dal titolo Interrogare il dilemma sesso/genere. La rottura dei femminismi anni Ottanta e dibattiti contemporanei, si occupa anche dei confini tra maschile e femminile, binarismo e non binarismo, sesso biologico e cultura.
L’articolo Riflessioni sul docufilm LFG (Let’s Fucking Go!) tratta di come sia necessario abbattere le disuguaglianze di genere soprattutto nell’ambito del professionismo sportivo.
Per le iniziative Toponomastiche In passeggiata con Ersilia Bronzini Majno ci appassioneremo alla descrizione della cerimonia di intitolazione a «una delle più grandi figure femminili del panorama culturale e sociale milanese e italiano.»
Questa settimana il consiglio di lettura è su un tema che ci riguarda tutte: La città femminista di Leslie Kern edito da Treccani, che si interroga su cosa significhi «ripensare le città in risposta e in contrasto con quelle che strutturalmente sono state costruite come le “città degli uomini».
Cambiamo discorso. Contributi per il contrasto agli stereotipi di genere è un ciclo che la nostra rivista segue da tempo. I prossimi tre incontri saranno su un tema di grande attualità. Abbiamo intervistato le relatrici che li condurranno, nell’articolo Cambiamo discorso. Donne e ambiente. Prospettive eco-femministe.
Il 12 marzo 1994 ci lasciava una grandissima scrittrice, purtroppo oggi poco valorizzata. Ce ne parla l’articolo Fausta Cialente, uno sguardo femminile fra Oriente e Occidente.
Chiudiamo con un pensiero tratto dal diario di Anna Frank sulla guerra: « C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage, all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità, senza eccezioni, non avrà subito una grande metamorfosi, la guerra imperverserà: tutto ciò che è stato ricostruito o coltivato sarà distrutto e rovinato di nuovo; e si dovrà ricominciare da capo».
Il nostro augurio rimane. Pace, forza, gioia.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
Lettura preziosa, come sempre del resto.
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Ti ho detto: orgogliosa che sei tra le mie lettrici . Grazie infinite
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Ancora un ‘analisi perfetta. Tanti temi. Solo apparentemente diversi. Tragedie, rivendicazioni, constatazioni. Giusi ci invita a riflettere. L’ho fatto anche io. E per riflettere ho preso il modello delle donne: imparano l’un l’altra. Ecco, da una notizia che Giusi commenta impariamo una cosa per comprendere bene quella successiva. Giusi volutamente le ha messe una dietro l’altra. Dalla rivoluzione delle donne in Iran che mostrano forza alla contrapposizione di donne italiane che si fanno prestare la forza dal nome dei maschi. E arrivare al dolore che rivoluzione e forza non possono far nulla davanti alla legge della povertà. La povertà toglie la forza. Complimenti Giusi. Un abbraccio
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Ti scrivevo in privato “qualsiasi cosa tu abbia scritto, grazie”. Dopo averti letto penso allora che il “grazie” non basta, ma non ho altro per dirti ciò che provo dopo aver riflettuto anche io attraverso la tua lettura che è specialistica, professionale, un “mestiere” che hai fatto da sempre. Sì mi inorgoglisce il fatto che arrivi al lettore quello che sento e cerco di esprimere scrivendo. Passo per passo. Ti ringrazio ancora delle tue attentissime letture. Ancora grazie e riconsegno il tuo caro abbraccio con il mio sempre affettuoso.
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