Milletrecentottantotto chilometri. Scritto così, senza le cifre che fanno vedere lo spazio e riprendere il fiato. Milletrecentottantotto chilometri.
Tanta è la strada che divide Mogadiscio da Bosaso. Tanto lo spazio che sta tra il nord e il sud della Somalia, una terra che pare incastrata al continente, unita senza malta, incuneata tra l’Etiopia e l’oceano come fosse un mattone di fango e argilla seccato al sole.
Milletrecentottantotto chilometri che procedono impolverati tra la vita e la morte, che decidono il prima e il dopo, la verità e il buio nascosto, le cose che non si conoscono e quelle che non si dovrebbero conoscere.

Ilaria Alpi, quei milletrecentottantotto chilometri, li ha percorsi tutti, andata e ritorno; ha attraversato il confine. Da nord a sud. Per sapere, capire e raccontare.
Perché Ilaria è una giornalista, e le giornaliste fanno proprio questo: provano a capire, cercano di sapere, corrono a raccontare.
Ed è brava, Ilaria. Ama il suo lavoro e lo fa nel miglior modo possibile.
Dopo aver vinto un concorso in Rai ― grazie soprattutto alla sua conoscenza della lingua araba ― è in breve tempo affidata alla redazione degli esteri. La si vede poco in video: a parte la sua voce, preferisce lasciare parola, immagini e riflettori alle persone, ai luoghi, alle storie che sta raccontando. Si mette a loro servizio, e al servizio di chi, dei sui articoli e reportage, fruisce. Questo è il suo modo di lavorare: con la gente, in mezzo alla gente, a respirarne gli usi e le tradizioni, a nutrirsene. A dire sempre e comunque la verità, senza orpelli o mistificazioni. Parte dal basso della terra battuta e calpestata per arrivare alla comprensione ampia e profonda di questioni generali e internazionali.
Anche per questo, è una delle ultime rappresentanti della stampa italiana a rimanere in Somalia, alla fine di marzo del 1994: lei, il suo operatore freelance Miran Hrovatin e pochi e poche altre.
Il Paese è spezzato da tre anni di guerra civile tra i signori della guerra, iniziata dopo la morte di Siad Barre. Pure l’Onu ha mollato la presa mettendo fine alla missione Restor Hope e ritirando i propri contingenti. Eppure, Ilaria Alpi decide di restare, almeno qualche giorno in più, perché le interessa capire e documentare la reazione della popolazione civile al ritiro delle truppe internazionali. E poi, perché ha una grande storia per le mani.
Così, il 20 marzo del 1994, dopo aver percorso milletrecentottantotto chilometri, nel viaggio di ritorno da Bosaso, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin atterrano a Mogadiscio. Ad attenderli non c’è la loro scorta, che è stata depistata e spedita all’ambasciata americana, bensì una Toyota pickup che li conduce all’albergo Sahafi, nella zona sud della città, quella controllata dalle truppe di Aidid. Dopo poco, si fanno accompagnare all’hotel Hamana, nella parte nord di Mogadiscio. È un’area pericolosa quella, dove è meglio non andare. Eppure, i due sono lì. E lì, una manciata di minuti dopo essere entrati e usciti dall’hotel, sono uccisi dai colpi provenienti da una macchina che taglia loro la strada. È una vera e propria esecuzione, dicono i primi testimoni giunti sul posto.
La distanza che separa i due alberghi è minima, soprattutto se paragonata al viaggio da Bosaso a Mogadiscio che Ilaria e Miran hanno compiuto in quella stessa giornata.

I due percorsi, però, sono collegati. Le due strade paiono condurre nella medesima direzione.
Ilaria Alpi sta indagando su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici nel quale sarebbero coinvolti anche i servizi segreti italiani. Paesi industrializzati producono rifiuti che sono poi distribuiti in alcuni Stati africani ― tra cui la Somalia ― in cambio di tangenti e armi. E quelle stesse armi sono lì, che sparano e uccidono, che foraggiano e ingrassano la guerra civile. È a Bosaso che Ilaria trova informazioni e indizi, soprattutto dopo il suo colloquio con il sultano Abdullahi Moussa Bogor e dopo esser salita su alcuni pescherecci ormeggiati al porto. È a Bosaso che si decide il suo destino.
Dalla sparatoria in poi, dal 1994 in poi, la morte di Alpi e Hrovatin è un continuo e macabro balletto di depistaggi, ricerche superficiali, evidenze negate.
Le tasche vuote al momento dell’uccisione, senza alcuna traccia del suo taccuino, dell’onnipresente zainetto nero o del passaporto; il numero della stanza d’albergo che non torna, tra la chiave ritrovata e l’effettiva camera dove sono stati recuperati i bagagli; le versioni discordanti di chi arriva sul posto dell’omicidio; le indagini in Italia che dicono e si contraddicono; la condanna infine di un innocente. Tutto questo sporca di nebbia nera l’intera vicenda e, di contro, rende fin troppo evidente che lì, in Somalia, Ilaria Alpi ha davvero scoperto qualcosa di grande, di forte. Qualcosa di così importante che la sua penna deve essere spezzata e la sua bocca chiusa.
Sono tanti milletrecentottantotto chilometri. Ci si può smarrire facilmente lungo un percorso così. E ci si smarrisce ancor più facilmente se si ha chiara l’idea di cosa si è visto e di cosa si denuncerà.
Nella strada polverosa che divide Bosaso da Mogadiscio, tutti e tutte noi abbiamo perso una grande giornalista. Una giovane donna dalla schiena dritta e dallo sguardo profondo, che viveva di storie, di esistenze, di diversità e sfumature. Una donna che credeva nell’antirazzismo feroce e nella giustizia. Nel far bene e con rispetto il proprio lavoro.
Ed è con esso che Ilaria Alpi può essere raccontata. Della sua vita ci rimane poco: la passione per il giornalismo nata alle scuole medie, il liceo classico, la laurea in lettere e la specializzazione in lingua e cultura araba. È come se la sua morte violenta avesse fagocitato tutto ciò che Ilaria è stata prima di quel 20 marzo 1994.
I suoi articoli, però, i suoi servizi, la sua voce sono riusciti a mantenere l’eco di ciò che già era e che sarebbe poi diventata: una donna libera, coraggiosa, una voce e una penna così forti da riuscire a parlare anche dopo che qualcuno ha provato ad imbavagliarle nel viaggio faticoso verso la verità.
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.