Penelope, la più intelligente

Insieme ad Andromaca, altre eroine nei poemi omerici testimoniano di un’epoca in cui le donne avevano posizioni di grande prestigio.

Penelope, per esempio, è figura complessa, ambigua e contraddittoria, ben diversa da quella che la tradizione ci ha consegnato: sposa fedele per antonomasia, che passa il tempo struggendosi nell’attesa del marito. Il nome, riconducibile, secondo l’etimologia più accreditata, all’anatra, ne rivelerebbe l’antico status di dea con caratteri di uccello, come altre divinità femminili.

A presentarcela è Telemaco, rispondendo a Mente, l’ospite sotto le cui sembianze si cela la dea Atena, che nota quanto assomiglia a Odisseo e gli chiede se davvero sia suo figlio: «Mia madre dice che sono suo figlio: ma io non lo so. Poiché nessuno conosce davvero la sua origine», Odissea, I, 215-216. E la dea: «Gli dei non renderanno ingloriosa questa stirpe, visto che Penelope ha generato un figlio come te», ivi, I, 222-223.  Come a dire: ti basta sapere chi è tua madre, per poter aspirare a grandi cose.

Il giovane continua descrivendo la difficile situazione determinata dalla lunga assenza del padre: «I principi che nelle isole hanno il potere, e quelli che dominano qui, nella pietrosa Itaca, tutti aspirano a sposare mia madre, e mi distruggono, intanto, la casa. Queste nozze odiose lei non le rifiuta, ma non si decide», ivi, I, 245-250.

Così, magistralmente, il poeta crea nel suo uditorio l’aspettativa per l’entrata in scena della regina: qualche verso più in là «la figlia di Icario, Penelope ricca d’ingegno, divina fra le donne» scende nel megaron, la sala centrale del palazzo, per chiedere al cantore Femio di scegliere una storia meno dolorosa per lei. Telemaco le risponde bruscamente, ordinandole di tornare nelle sue stanze e lei, sorpresa dalle parole del figlio che lo rivelano tanto saggio, obbedisce e se ne torna al piano di sopra a piangere lo sposo, fino a che il sonno le dia pace. Ma la sua apparizione, per quanto fugace e dissimulata dal velo e dal pilastro che la nasconde, è bastata a riaccendere nei Pretendenti la voglia di fare l’amore con lei. Tanto che grammatici antichi e grecisti moderni sostennero l’opportunità di espungere la scena, considerandola interpolata, cioè inserita nel testo in epoche successive a Omero, più scollacciate: al vate divino non si potevano attribuire simili sconcezze. In effetti l’intervento di Penelope appare abbastanza audace, o, meglio, mal si accorda con la dote precipua che la tradizione le attribuisce: la fedeltà e quella saggezza che per le donne è soprattutto consapevolezza dei propri limiti e rinuncia a sconfinare.

Tuttavia una lettura attenta del testo rivela che Penelope, come donna sposata, possiede una certa autorità, in assenza del marito disperso, e, soprattutto, una autonomia decisionale che le consente di rifiutare o almeno rinviare le nozze: «Tua madre, se il suo cuore la spinge a sposarsi, torni alla reggia del padre suo potentissimo. Là celebreranno le nozze e molti doni le prepareranno, tutti quelli che a una figlia sono dovuti», ivi, I, 275-278. Così dice a Telemaco Mente-Atena: nessuno può obbligare Penelope a sposarsi, a patto che Odisseo sia ancora vivo. È anche per questo che consiglia al giovane di mettersi in viaggio alla ricerca di notizie: «Se saprai che tuo padre è morto, innalzagli una tomba e dà a tua madre un marito», ivi, I, 290-292.

Se Penelope tornasse alla casa di suo padre, infatti, il diritto di scegliere spetterebbe di nuovo a lui, insieme all’obbligo di fornirle una dote. È ancora Telemaco a spiegare: «I figli degli uomini più nobili di qui pretendono di sposare mia madre, che non vuole; e di andare alla casa di suo padre Icario hanno paura, perché lui le fornirebbe la dote, ma la darebbe in sposa a chi vuole, a chi gli piace», ivi, II, 50-54. Quella dote che, consegnata a suo tempo a Odisseo, lui, Telemaco sarebbe obbligato a restituire, se forzasse la situazione: «Non posso, contro il suo volere, cacciarla di casa, lei che mi ha generato e allevato, mentre mio padre è in qualche parte del mondo, forse vivo, forse morto. Molto dovrei pagare a Icario se di mia volontà gli rimandassi mia madre», ivi, II, 130-133.

Penelope e i proci, John William Waterhouse, 1912. Aberdeen Art Gallery

Ma perché Penelope non vuole risposarsi? La spiegazione ufficiale afferma che è ancora innamorata di suo marito. Ma è proprio così?

Vale la pena di indagare meglio il significato dell’epiteto – l’elemento che, stabilmente associato a un personaggio epico, ne connota il carattere – accostato al nome di Penelope: períphron. Nella storia della traduzione del poema il più delle volte lo si trova reso con saggia, termine che suggerisce qualità attinenti alla sfera etica, più che a quella cognitiva, come sarebbe corretto. Solo di recente si affermano traduzioni che indicano le doti cui allude la radice -phron: capacità di usare la testa, di agire razionalmente e, se necessario, di illudere, ingannare, mentire. Una qualità che la regina possiede al massimo grado, come indica il prefisso perí-, e che ne fa la degna sposa dell’astuto Odisseo, ma che, in lei, non è sottolineata dalla narrazione tradizionale. Astuzia e fedeltà infatti non sempre vanno d’accordo. Come dimostra la storia di Clitennestra, personaggio paradigmaticamente opposto a Penelope: nell’Agamennone di Eschilo (v. 1427) lo stesso aggettivo períphron, qui riferito all’agire della regina che tradisce e uccide il marito, viene tradotto facendone emergere le possibili valenze negative: arrogante, sprezzante, addirittura insensato, per Pasolini, che arriva a capovolgerne il significato.

È Antinoo, il più arrogante dei Pretendenti, ad ammettere che è Penelope a dettare le regole del gioco: «Telemaco, non sono i Pretendenti che hanno colpe verso di te, è tua madre che conosce ogni sorta d’inganni. Sono già tre anni, presto saranno quattro, da quando tormenta il cuore degli Achei. Tutti illude, a ciascuno promette, inviando messaggi; ma la sua mente medita ben altro», ivi, II, 87-92. E non nasconde la sua ammirazione: «Molte doti le concesse Pallade Atena, saper fare cose meravigliose e avere mente acuta e accorta, quale nessuna donna, neppure quelle di un tempo, le achee bellissime che vissero in antico, Tiro, Alcmena, Micene dalla bella corona: nessuna di loro aveva la mente di Penelope», ivi, II, 116-123.

Il ritratto che ne emerge è quello di una donna tutt’altro che passiva, che escogita l’inganno della tela e riesce a tenerlo nascosto per più di tre anni; che interagisce con i Pretendenti e li tiene a bada. Anche se forse, in cuor suo, una scelta l’ha fatta: Anfinomo «era gradito a Penelope per i suoi discorsi: aveva un cuore gentile», ivi, XVI, 397-399.

Penelope non rinuncia a dire la sua su quello che accade in casa; come abbiamo visto nell’episodio di Femio, lascia liberamente le sue stanze, in cui il figlio la vorrebbe rinchiusa, per scendere nella grande sala a piano terra che, aperta all’esterno, è il punto d’incontro tra dentro e fuori, dove vengono accolti mendicanti e ospiti, a portare notizie dal mondo. Ma, proprio perché è accorta e prudente come il suo sposo, non crede facilmente a quello che costoro le raccontano. Tutto il canto XIX è dedicato alla lunga schermaglia che vede i due sposi, seduti finalmente l’una di fronte all’altro, ben decisi a non rivelarsi, lui, a non ammettere di riconoscerlo, lei. Quando Odisseo si schermisce e rifiuta di farsi lavare da una ragazza, le parole che Penelope gli rivolge fanno dubitare che davvero lei non abbia capito: «Ospite, mai, da terre lontane, venne a casa mia un uomo di tanta accortezza, o più caro, come te che trovi per ogni cosa la parola giusta! Ho una vecchia ancella, sì, che ha in cuore saldi pensieri, quella che accolse fra le sue mani l’infelice, quando la madre lo partorì e poi lo crebbe; ti laverà i piedi lei, anche se ormai è senza forze. Alzati, Euriclea, ricca d’ingegno, e lava quest’uomo, coetaneo del tuo signore; anche Odísseo, magari, è diventato così, nei piedi, e così, nelle mani», ivi, XIX, 350-360. E continua a metterlo alla prova, esattamente come fa lui con lei: «Ora, però, ascolta e interpreta questo mio sogno. In casa ci sono venti oche, uscite dall’acqua, che beccano grano, e io mi rallegro a vederle; ma piomba dal monte un’aquila enorme dal becco adunco, spezza a tutte il collo, le uccide; a terra per casa giacciono, in mucchio, e l’aquila vola nel cielo luminoso. Nel sogno io scoppio in pianto, e gemo e mi lamento perché l’aquila mi ha ucciso le oche. L’aquila torna si poggia sul bordo del tetto e mi consola con parole umane: coraggio, figlia d’Icario: questo non è sogno, ma vero presagio che avrà compimento. Sono i Pretendenti le oche, e io, ch’ero prima aquila, sono il tuo sposo, sono tornato e darò ai Pretendenti tutti una terribile sorte”», ivi, XIX, 535-550. L’ospite conferma l’interpretazione del sogno, ma Penelope ne sminuisce il valore: di sogni ce ne sono di falsi e di veritieri. E sceglie proprio questo momento per comunicare che ha deciso di scegliere uno dei Pretendenti e lo farà attraverso una gara che li sfida a compiere un’impresa di cui il suo sposo era capace: chiunque la voglia, deve conquistarsela. Lo stesso Odisseo dovrà dimostrare di nuovo quanto vale.

Ritorno di Odisseo, Pinturicchio, 1508-1509. National Gallery, Londra

Ancora il giorno dopo, quando Euriclea, ormai libera dal giuramento di tacere fatto al padrone, va a svegliarla e le racconta della vendetta ormai compiuta, Penelope le oppone il suo scetticismo: «Nutrice, non rallegrarti ancora, non esultare […] uno dei numi avrà ucciso i nobili Pretendenti», ivi, XXIII, 59-63. Scesa nella sala, incerta su come comportarsi, si mette a sedere davanti a Odisseo e attende, muta. È Telemaco, ora, ad apostrofarla: «cuore più duro di un sasso». Ma lei non cede e ribadisce la necessità di un riconoscimento «reciproco», attraverso segni segreti noti a loro soltanto.  Sul momento Odisseo sorride magnanimo e attribuisce al suo aspetto miserevole la difficoltà di Penelope a riconoscerlo. Rinvia dunque il momento cruciale a quando il palazzo sarà stato ripulito da ogni traccia della strage. Poi però, quando uscito  dal bagno, «simile agl’immortali d’aspetto», si siede di nuovo davanti a Penelope e lei continua a tacere, sbotta in un rimprovero pesante, rinfacciandole un’ostinazione incomprensibile; poi, offeso, chiede che gli preparino il letto: ci si stenderà da solo. Allora Penelope fa mostra di essere convinta e invece gli tende ancora un tranello, invitando la nutrice a portar fuori dal talamo il letto nuziale che il marito aveva costruito con le sue mani. Odisseo s’infuria: il suoletto non può essere spostato, a meno di non separarlo dal tronco nel quale ne era stata intagliata la base; l’eroe perde tutta la sua sicurezza e comincia a dubitare: «non so, donna, se è ancora intatto il mio letto o se ormai un altro uomo l’ha spostato altrove», ivi, XXIII, 202-204.

Penelope, Dante Gabriel Rossetti, 1869.
Andrew Lloyd Webber Collection

Solo a questo punto Penelope gli getta le braccia al collo e cerca di giustificare il suo comportamento con la cautela che ha dovuto adottare di necessità: «Ora finalmente m’hai detto il segno certo, il nostro letto, che nessuno ha veduto, ma tu e io soli, e un’unica ancella, che il padre mi donò quando venni qui, che ci chiudeva le porte del talamo; e hai convinto la mia anima, pur tanto inflessibile», ivi, XXIII, 225-230. Col suo comportamento la regina ha ribadito che a lei, e solo a lei, spetta la parola definitiva e il diritto di riaccogliere in casa colui che l’ha abbandonata, con un neonato in braccio, venti anni prima. E a noi resta qualche dubbio che sia davvero completamente felice di farlo. Perché, come dice Adriana Cavarero in un suo famoso saggio (Nonostante Platone, 1990), col ritorno del marito Penelope perde la sua libertà: non potrà chiudersi più in quella stanza tutta per sé dove passava giornate e notti, insieme ad altre donne, a tessere, a disfare e a sognare.

Magari sognare di essere corteggiata e desiderata da venti giovani uomini, quelli che il suo sposo, appena tornato, ha barbaramente ucciso.

In copertina: Penelope (particolare), Domenico Beccafumi, 1514. Seminario patriarcale, Venezia.

***

Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

 

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