Il pensiero senza parola è niente.
La verità non comunicata si inacidisce e imputridisce, come una bolla di acqua che non sgorga e che si contamina e diventa palude.
Dire, condividere ciò che si sa è il movimento primo verso la conoscenza. Permettere agli altri e alle altre di farlo è la strada verso la tolleranza.
Una strada non facile, che in linea retta si restringe, le cui curve e dislivelli aumentano invece di mitigarsi, indipendentemente dalle epoche e dai contesti.
Ci vuole un baricentro forte per mettersi in cammino; un baricentro forte per mantenersi acqua pulita e sfogarsi in sorgente anche quando tutt’intorno si stanno costruendo mura, costrizioni e impedimenti; un baricentro forte per pensare, parlare, comunicare e mantenersi comunque in equilibrio, nonostante le macerie che vanno spargendo intorno e che intralciano i passi, annebbiano la vista e cavano il respiro.

E Alessandria d’Egitto, nel V secolo dopo Cristo, è proprio così, una città dal reticolo complesso, disordinato e ostacolato, con un passato glorioso rimasto tale solo nelle ombre che adesso ne offuscano la luce. La metropoli fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C., sede del magnifico Faro, del Museion, il centro culturale cittadino, della Biblioteca e del Serapeion, è ora teatro di lotte religiose tra le sette del giovane cristianesimo e la guerra―prevalente―al paganesimo, che ha nella cultura ellenistica la sua espressione più alta.
Ciò che è stato non deve essere più.
In quanto città situata nella parte orientale dell’Impero Romano, Alessandria è governata da un prefectus augustalis incaricato dall’imperatore di Costantinopoli; de facto, però, gran parte della sua popolazione obbedisce ai dettami del suo vescovo e patriarca, custode della fede e dell’ortodossia della comunità cristiana.
E’ in questo contesto di transizione tra un’epoca antica e gli albori di una nuova età che nasce, una figura, il cui nome rimanda all’idea di “eminenza” e “suprema altezza” si impone: Ipazia.
Ipazia nasce intorno al 350-370 e cresce come allieva del padre Teone ,direttore del Museion, nonché eminente studioso di scienze matematiche: è a lui che il mondo occidentale deve la sopravvivenza degli Elementi di Euclide e dell’Almagesto di Tolomeo.
Anche Ipazia è una matematica e un’astronoma, nonché grande esperta e studiosa di meccanica e di tecnologia applicata, e, in questi ambiti, le vengono attribuite due invenzioni: un areometro―strumento utile alla misurazione della densità dei liquidi― e un astrolabio.
Però a Ipazia le scienze non bastano. Si dedica anche alla filosofia, aristotelica e platonica, fino a divenire, nel 393, la direttrice della scuola neoplatonica di Alessandria. E proprio come filosofa, ella rappresenta l’ultimo collegamento con un mondo, con una conoscenza che si sta tentando di imbrigliare, imbavagliare e far sparire.
Nel 391, l’imperatore Teodosio I promulga una serie di editti che, di fatto, vanno a perseguitare i culti pagani; nello stesso anno, il vescovo Teofilo ordina la distruzione del Serapeion, emblema visibile e magnifico di quegli dèi che non devono più esistere. E, in tale clima, Ipazia si mantiene ostinatamente libera e scissa, nella sua cultura e nei suoi insegnamenti, da ogni credo religioso.
Il nome ben presto viaggia oltre i confini cittadini e alle sue lezioni vanno ad assistere persone da ogni parte dell’Impero.

È una sapiente generosa della propria conoscenza, che condivide con chiunque abbia voglia di ascoltarla. Cammina per le vie di Alessandria dialogando con i suoi discepoli e indossando il tribonio, il mantello ruvido e grezzo usato come “divisa” dai filosofi, unica donna nelle assemblee degli intellettuali.
È una maestra di pensiero e, soprattutto, del pensiero ellenistico, dell’ideale classico di educazione e di impegno nella vita pubblica.
Lo stile dei suoi discorsi è talmente franco da risultare insolente. Eppure, il suo modo di vivere è casto e morigerato, votato esclusivamente allo studio.
Ed è bella, Ipazia, bellissima. E sovente i suoi allievi finiscono per innamorarsene. Lei, però, li rifiuta con fermezza, spiegando loro che l’eros intellettuale e la passione fisica sono cose separate e distinte. Raccontano le cronache che, di fronte a un suo studente particolarmente ostinato, si presenta un giorno a lezione con uno di quei panni usati dalle donne durante le mestruazioni: «In definitiva è di questo, ragazzino, che ti sei innamorato. Di niente di sublime».
Con il passare del tempo, Ipazia acquista sempre più prestigio intellettuale e politico, tanto che il prefetto cittadino Oreste, un cristiano, si rivolge a lei per consulti e consigli. E lo fa nonostante il vescovo Cirillo, nipote del Teofilo distruttore del tempio di Serapide, gli ricordi spesso quale sia in realtà il libro al cospetto del quale egli dovrebbe inchinarsi, chiedendo lumie giurando obbedienza. Perché c’è una cosa che Cirillo intende portare a termine: la violenta colonizzazione religiosa iniziata dallo zio suo predecessore.
E quale miglior simbolo da colpire se non Ipazia, filosofa, pagana, influente e donna? Poco importa, naturalmente, che ella mai abbia dissertato contro la dottrina cristiana e, anzi, abbia accolto tra i propri discepoli persone di ogni credo e culto.
È il marzo dell’anno 415, tempo di Quaresima. Pochi mesi prima, Cirillo ha ordinato un enorme pogrom e ha chiamato al suo cospetto dei gruppi di monaci barellieri presso i quali egli stesso ha soggiornato prima di di venire vescovo e che sono di fatto la sua milizia armata: i parabalani.
Un pomeriggio, Ipazia, mentre sta tornado a casa da una delle sue pubbliche apparizioni, è improvvisamente circondata e tirata giù dalla sua carrozza.

Afferrata per le vesti e i capelli, è denudata, trascinata in una chiesa e lì fatta apezzi con dei cocci aguzzi. Mentre ancora respira, le sono cavati gli occhi. Le sue membra sono infine bruciate, così da cancellarla per sempre.
Ed effettivamente, di Ipazia di Alessandria non sono giunte ai posteri immagini che possano mostrarla nel suo tanto decantato aspetto fisico.
A essere sopravvissuti, però, sono i suoi studi, il suo orgoglioso modo di essere scienziata, filosofa, donna; il suo amore estremo per la sapienza e la libertà; la sua ricerca della verità; il suo vivere costantemente di dubbi.
Perché le parole e i pensieri esistono, nella comunione e nella condivisione, ben oltre le persone che le hanno pronunciate. E, soprattutto, ben oltre le persone che le hanno soffocate.
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.