Per chi sappia leggerle, le città narrano le storie di coloro che le hanno abitate.
C’è una città, in Italia, che si muove controcorrente rispetto alla paranoia securitaria dilagante. Nel marzo 2015 l’Amministrazione ha approvato la Carta di Palermo, un documento sviluppato al termine del convegno Io sono persona, che riconosce la mobilità umana come diritto fondamentale e inalienabile e attribuisce al Comune un ruolo strategico in tema di accoglienza e promozione dei diritti umani.
È la Palermo fondata dai Fenici, Palermo la splendida della Zisa e della Kalsa, la città colta e cosmopolita di Federico II stupor mundi, dove fino al XV secolo la cultura latina, quella araba e quella bizantina convissero pacificamente; è Panormus tutta porto, crocevia del Mediterraneo. È la Sicilia ponte tra i continenti, ci ricorda che l’umanità è una specie meticcia (in realtà tutto il vivente lo è: la biodiversità è frutto delle migrazioni delle specie). Da qui, per centinaia di generazioni, sono passati tutti. Molti sono rimasti, arricchendo il Dna delle genti di Trinacria. Questo fattore evolutivo ha formato l’identità polimorfa che conosciamo e che amiamo, figlia, piaccia o non piaccia, di millenni di migrazioni.
L’umanità si muove da sempre ed è la sua fortuna. Darwin lo chiamava «il fiume della vita».
La storia umana conosciuta comincia con una migrazione: out of Africa, le popolazioni primitive milioni di anni fa sono uscite dal continente nero e hanno colonizzato il resto del pianeta abitabile.

La storia europea è in larga parte una storia di profughi/e: una storia di soggetti attivi, che sono stati protagonisti della trasformazione sociale e politica del continente.

A chi richiama insistentemente il valore delle nostre radici vorrei ricordare le tradizioni dell’area del Mediterraneo (il mare interno alle terre) e vorrei partire da una parola come “accoglienza”, che rimanda al senso profondo delle relazioni umane.

La lingua non solo manifesta, ma condiziona il nostro modo di pensare: essa incorpora una visione del mondo e ce la impone. La lingua non ha solo la funzione di rispecchiare i valori, ma anche quella di concorrere a determinarli, organizzando le nostre menti. Le parole cambiano la percezione delle persone. Nella lingua, dunque, la posta in gioco è l’interpretazione del mondo che mette in moto il senso.
Quando si parla di accoglienza in senso culturale, non si parla solo dell’assegnazione di diritti e doveri, ma di quell’atteggiamento che viene definito da un’altra parola importante, “riconoscimento”. Per riconoscimento si deve intendere un atteggiamento verso uno o più soggetti portatori di una qualche forma di diversità – di genere, sociale, nazionale, culturale, etnica – che si fondi sull’accettazione di essi per ciò che essi sono, e non per ciò che si pretenderebbe che fossero.
Così si rivolge Nausicaa al profugo Odisseo: «Straniero […] La fortuna è Zeus che la distribuisce agli uomini, ai buoni e ai malvagi, come vuole per ciascuno. A te ha dato in sorte questo e bisogna che tu lo sopporti. Ma ora, poiché alla nostra città, alla nostra terra sei giunto, non ti mancheranno le vesti né nessun’altra cosa di ciò che è giusto che riceva un supplice infelice.


Nell’Ecuba di Euripide l’essere «ostili nei confronti dello straniero» è considerato un «innominabile crimine».
Nella cultura latina l’Eneide è l’esempio più noto di racconto epico, dove l’eroe protagonista è un profugo. «Qui, in pochi, nuotammo alle vostre spiagge. Che razza di uomini è questa? Quale patria è così barbara da permettere una simile usanza? Ci negano il rifugio della sabbia…».
L’antica Roma è l’esempio più noto di melting pot; il suo impero fu la prima società multietnica del mondo, il primo esempio storico di globalizzazione. I veri punti di forza di Roma, quelli che la differenzieranno dagli imperialismi successivi, furono la tolleranza e un certo rispetto nei confronti dei popoli e delle culture che esprimevano, e un’organizzazione amministrativa con vaste autonomie.


L’accoglienza è un dovere codificato nel diritto internazionale ma anche nella tradizione ebraica, come ricorda il Levitico («Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi: tu lo amerai come te stesso») e cristiana. «Ero straniero e mi avete accolto» si legge nel Vangelo di Matteo. Nella religione che non dice prima gli italiani ma “prima gli ultimi”, i valori essenziali sono condensati nella parabola del buon samaritano, esaltazione dell’ospitalità disinteressata verso l’altro, tanto più se nemico. Nella cultura ebraica l’accoglienza e l’ospitalità sono prima di tutto quelle di Abramo che nella Genesi fornisce cibo, bevande e alloggio agli ospiti stranieri. Nella tradizione beduina è fondamentale per la sopravvivenza essere accolti e di conseguenza è un dovere accogliere. Fino all’inizio degli anni Novanta l’Italia ha concepito se stessa come una terra di migranti che cercavano la propria fortuna in terre prospere e accoglienti. Tale memoria ha cominciato a infrangersi quando si è scontrata con la realtà di barconi di Albanesi che attraccavano sulle coste adriatiche in cerca di libertà e lavoro. Era il 1991.

Da allora si diffuse la sensazione di essere accerchiati e attaccati, si palesò come tema quello delle frontiere e del loro controllo, si cominciarono a organizzare gruppi apertamente xenofobi; alcuni sindaci cominciarono a emettere ordinanze dal sapore razzista.
Non so se la correlazione sia azzeccata, ma quello fu anche il periodo in cui si rese più evidente l’imbarbarimento dei nostri registri linguistici. Qualcosa, nella convivenza civile, era cambiato. È la lingua che fonda la communitas. Poiché essa è il collante della società, il suo deteriorarsi significa che si sono deteriorati i legami sociali, la struttura stessa del nostro stare insieme, e prima ancora del nostro pensiero. Ma la sua distruzione è lenta, strisciante, inavvertita: anche le cose più inconcepibili in Italia oggi vengono digerite, assorbite, metabolizzate senza difficoltà. Ci siamo accontentate/i, ci siamo rassegnate/i, assorbendo le nostre dosi piccole e grandi di veleni quotidiani: è questa la nostra colpa maggiore.
La protesta delle giovani generazioni centra il problema quando reclamano di voler rimanere sane, pulite, vivere in un orizzonte democratico, godere di istituzioni dignitose, immuni dai fantasmi del razzismo o analoghe patologie.


Le parole, come i simboli, prendono senso dal contesto in cui vivono. Se c’è effervescenza collettiva sono effervescenti. Se sono private del rapporto con le passioni collettive che le avevano alimentate, cambiano natura: diventano deboli e provvisorie, si riducono a segni grafici, a loghi pubblicitari. Se sono immerse in un universo di merci, diventano merci esse stesse. La nostra è un’epoca nella quale – nonostante il bombardamento di stimoli e le molteplici possibilità di conoscenza accessibile – quando più persone si confrontano, invece di arricchirsi vicendevolmente guardando la stessa cosa sotto punti di vista diversi, preferiscono accusare, offendere, non ascoltare.
Il linguaggio trasmette l’interazione con gli altri: narra le categorizzazioni di cui ci serviamo; reiterandoli, consolida gli stereotipi; partecipa alla costruzione e all’alimentazione dei pregiudizi, e così facendo influenza in modo rilevante la percezione sociale di un determinato gruppo.


Il gentese ha traslocato la pernacchia in sedi ufficiali, con metafore bellicose, attacchi personali, volgarità compiaciute, insulti quotidiani. Il cinismo, inteso come banalizzazione cattiva della complessità in cui siamo immersi, viene vissuto addirittura come sincerità. Linguaggio disinvolto, spontaneo, popolare? No, sbracato. Non è simpatico folklore, non è un fatto formale; è regressione civile.
“Gentese” significa “lingua dell’uomo della strada”, e in democrazia sembrerebbe una buona cosa. Il problema è che l’essere umano comune è concepito come un bifolco da aizzare, cui piacciono solo i toni grevi: ma è l’antitesi della democrazia. Tutto questo, infatti, lascia inalterati i ghetti che la vicenda sociale ha creato, non sfiora nemmeno le disuguaglianze. L’idea che la politica si debba aprire alle peggiori pratiche della quotidianità per essere più vicina al popolo funziona in termini di voti, ma è povera e inefficace in termini di progresso civile.
Le parole di odio, che additano il nemico di turno, che feriscono, scherniscono, offendono, finiscono col diventare parole comuni, e dal Parlamento arrivano alla bocciofila, perché la politica conforma il linguaggio sociale.

La gogna più comune fino al XIX secolo era il ceppo: la vittima, legata mani e piedi, veniva esposta in piazza alla folla, che ne faceva bersaglio delle proprie tensioni. La gogna più comune nel tecnologico XXI secolo sono i social, ricettacoli di rabbia e di rancore, emblematici della trasformazione antropologica delle nostre società. Cultura, metodo, clima morale, olio di ricino virtuale: ecco il nemico, scatenate gli attacchi, l’odio, la volgarità.
Internet non ha inventato i balordi, i malvagi, i cattivi, e nemmeno i buzzurri: li ha resi più potenti, ha stanato le parti peggiori dell’umanità, prima dissimulate. Le ha amplificate, dilatate. Sdoganate. Legittimate. Fine ultimo, il clic. L’asticella si spinge ogni giorno un po’ più in là, poiché un dispositivo ben oliato si innesca facilmente.
Che questo sia voluto, che cioè i social siano dispositivi di soggettivazione con algoritmi che lavorano sugli istinti aggressivi, li plasmano e li assecondano per scopi commerciali o politici, è ben vero. Spin doctor, esperti di marketing emozionale, poderose macchine comunicative creano una cortina fumogena, una vera e propria filter bubble attorno alle cittadine e ai cittadini.
«Per tenere i popoli a freno, di nemici bisogna sempre inventarne, e dipingerli in modo che suscitino paura e ripugnanza»: così Umberto Eco in una conferenza (Costruire il nemico), raccolta insieme ad altri saggi nel 2008. Dimostrava che per chi ha pochi scrupoli e molte ambizioni la costruzione del nemico è un pezzo importante della ricerca del consenso.
Se c’è la crisi e temi per il tuo domani, se ti senti frustrato e abbandonato, se non capisci la complessità e ti pare di essere schiacciato da logiche più forti di te, la scorciatoia populista propone come terapia per il tuo malcontento e il tuo rancore quella di sfogarti (in metafora, ma purtroppo non sempre) contro gli unici che stanno peggio di te ma vengono additati come responsabili dei tuoi mali.
Il meccanismo elementare con registro cattivista chiede sacrifici umani, ma non necessariamente i sudditi se ne rendono conto. La zona grigia che porta persone comuni a diventare complici e carcerieri è sempre diffusa tra chi ha paura. Basta una persona, o poche, che scaglia le primissime pietre, e la folla segue, iniziando il terribile atto del linciaggio.
La storia produce di continuo capri espiatori, come nel rito antico destinato a placare con un sacrificio animale, talvolta anche umano, l’ira degli dei: possono essere minoranze etniche o religiose, o portatori di comportamenti minoritari, o addirittura corpi non conformi. Irregolari. Più il “colpevole” dei mali della società è grande, più è forte l’odio che gli viene riversato contro.

La figura è ben nota; i sistemi autoritari e oscurantisti l’adottano da sempre, con fredda premeditazione. Si tratta per loro di un’operazione facile e molto conveniente. Lanciano il sasso nello stagno disseminando odio: il resto lo fa con gratuito entusiasmo il tamtam della gente, la vox populi. Bisogna fare un’opportuna manutenzione dell’idea di nemico: bisogna evocarla, alimentarla e coccolarla spesso in modo da tenerla viva, ripugnante o terrorizzante quanto basta. Una mitologia di facile presa. Nemico per eccellenza è lo straniero, il diverso. Diverse le donne, i neri, gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari. Simili le radici della misoginia, dell’omofobia, del razzismo, dell’antisemitismo. Le situazioni sono diverse da Paese a Paese, ma simili sono le scelte e ugualmente nefasti sono gli esiti.
Quando gli umori intolleranti diffusi nella società sono sollecitati e incoraggiati dal sistema dell’informazione da una parte, dalle istituzioni e dagli apparati dello Stato dall’altra, è allora che s’innesca il circolo vizioso.

Moltiplicandosi le espressioni e gli atti d’intolleranza e divenendo routinaria la discriminazione, sancita o legittimata dalle norme, si incrementano le immagini negative delle minoranze, già diffuse nella società e consolidate dall’opera svolta dai media. Tutto ciò, a sua volta, aggrava l’ineguaglianza strutturale delle minoranze e rafforza la xenofobia e il razzismo.
È importante ricordare che non si nasce razzisti, come non si nasce omofobi, non si nasce sessisti; lo si diventa attraverso l’educazione, i messaggi, diretti e indiretti, che la famiglia, le amicizie, la politica, la Chiesa e i media ci trasmettono. Fin dalla tenera età noi acquisiamo convinzioni e valori che ci vengono presentati come assolutamente giusti e legittimi. Il processo di allineamento all’opinione dominante è un processo a spirale, in cui l’allineamento del singolo è rafforzato dall’allineamento degli altri.

La paura del diverso ha lasciato nella storia una traccia indelebile. Il caso degli ebrei è la memoria più immediata e tremenda, ma si può ricordare la lunghissima vicenda delle caccia alle streghe, si può citare l’esempio manzoniano degli untori. Occorre che lo straniero sia vicino perché la xenofobia acquisti forma. Si vedeva poco, quando gli ebrei erano invisibili dietro le mura dei loro ghetti; è diventata terribilmente visibile una volta che essi sono apparsi sulle strade. La concezione gerarchica degli esseri umani consente la degradazione degli “inferiori” e motiva le politiche dell’esclusione, trovando la sua giustificazione nel fatto che la svalutazione della vita di quegli “inferiori” sia diventata senso comune e mentalità condivisa. Anche quando tutto ciò resta implicito o viene addirittura negato con sdegno.
È contro l’oscurantismo che nacque l’Illuminismo (l’etimo simmetrico è chiaro). I lumi della ragione a cancellare il buio della credulità e della superstizione. Siamo ancora lì? Si parte dalla diffidenza, si passa dalla stigmatizzazione che legittima la discriminazione, infine si arriva alla deumanizzazione che legittima la violenza.
In copertina: dal film La vita è bella, 1997, diretto e interpretato da Roberto Benigni.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: “C’è differenza. Identità di genere e linguaggi”, “Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo”, “Viaggio nel paese degli stereotipi”.