I secoli XV e XVI sono, come noto, segmenti storici che contengono un enorme rigoglio culturale, tra Umanesimo e Rinascimento. «Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto»: nelle parole di Pico della Mirandola (dal De hominis dignitate) è racchiusa l’essenza di questo tempo nuovo, un impulso a porre al centro dell’universo l’uomo, con la sua capacità di autodeterminarsi, la sua arguzia, la sua industria. E le donne? Cosa cambia per loro? Sostanzialmente nulla, se non essere rappresentate ancora come corpi di seduzione. Molte sono le poete e le scrittrici che operano tra 1400 e 1500, ma esse sono state scandalosamente eliminate dal canone letterario e a scuola, eccetto qualche breve cenno (quando va bene), continuano a cadere nell’oblio, mentre avanza la visione della donna come figura subalterna, così come emerge dai classici. In Angelo Poliziano la donna è una rosa dall’odore «sì soave […] che tutto mi senti’ destar el core/di dolce voglia e d’un piacer divino. […] Amor mi disse allor: “Va’, cogli di quelle che più vedi fiorite in sullo spino”»; la Simonetta delle Stanze per la giostra è «candida», «di rose e’ fior dipinta», con «l’inanellato crin dall’aurea testa» e fa ridere tutta la foresta intorno in un tripudio di locus amoenus.

Nella letteratura cavalleresca, Matteo Maria Boiardo introduce i protagonisti indiscussi di questo genere umanistico-rinascimentale, Orlando e Angelica, incastonati nelle tradizionali dinamiche di genere: Orlando è il valoroso paladino di Carlo Magno caduto nella trappola di Amore al punto da innamorarsi perdutamente della bella e pagana Angelica, «vinto al tuto e suiugato». La storia di questo “inamoramento” è poco nota, ci fa sapere Pulci nel proemio, perché non era il caso di diffondere una debolezza, in fondo, da cui il valoroso eroe di Roncisvalle si era lasciato cogliere in fallo. Del resto, l’amore non è che un cadere in un dolce baratro, come cantava Freddie Mercury, «I’ve fallen in love for the first time/And this time I know it’s for real»: il verbo to fall, cadere, rende l’idea della caduta, dell’essere invischiati nella rete d’amore, espressione presente già nella Rhetorica ad Herennium del I sec. a.C. («Nemo potest uno aspectu neque praeteriens in amorem incidere»). Orlando, vittima della «ribalda incantatrice» Angelica, è preda dell’amore, si sente morire senza di lei (un colpo di fulmine potentissimo, dato che l’ha vista, in quel frangente, alla corte di Carlo Magno per la prima volta!) e non c’è forza in lui che possa contrastare tale giogo («io vedo il meglio e al peggior m’apiglio»).

Ariosto libera Angelica in parte, a mio avviso, dallo stereotipo della femme fatale a cui nessun valoroso guerriero può resistere. Nell’Orlando furioso, il poeta emiliano non teme di raccontare in modo drammaticamente grottesco e iperbolico la pazzia del paladino, denudandolo letteralmente della sua veste di eroe maschio, intransigente e senza macchia. Allo stesso tempo, mostra come Angelica sia una donna in grado di autodeterminarsi e compiere autonomamente le sue scelte. La principessa pagana sfugge da tutti i cavalieri che tentano in ogni modo di possederla (perché di questo si tratta ed è così che dovremmo raccontarlo a scuola), per poi innamorarsi del giovane Medoro, umile soldato pagano, ferito sul campo di battaglia perché si è lanciato a salvare il corpo esanime del suo signore Dardinello, per dargli degna sepoltura. Prima di imbattersi in Medoro, le continue fughe di Angelica sono narrativamente angoscianti, un vero e proprio stalking prolungato: «La donna il palafreno a dietro volta / […] pallida, tremando, e di sé tolta, / lascia cura al destrier che la via faccia»; «Fugge tra selve spaventose e scure, / per lochi inabitati, ermi e selvaggi. / […] Qual pargoletta o damma o capriuola, / che tra le fronde del natio boschetto / alla madre veduta abbia la gola / stringer dal pardo […] ad ogni sterpo che passando tocca, / ella si crede all’empia fera in bocca». Del resto, atti di stalking culturalmente legittimato ne abbiamo già visti nella letteratura antica. Varrà la pena menzionare giusto un paio di esempi: Apollo che rincorre Dafne per possederla con la violenza, dato il rifiuto della ninfa a concedersi («Come quando un cane gallico scorge una lepre in campo aperto, e l’uno cerca la preda correndo, l’altra la salvezza […]: così il dio e la vergine ninfa; uno corre per la speranza, l’altra per il timore. […] non dà tregua e sta addosso alle spalle della fuggitiva»: Dafne sarà costretta a farsi trasformare in albero da suo padre Peneo per sfuggire alla foga violenta di Apollo); la giovane Cloe in un’ode di Orazio, una ragazza timida che fugge dall’uomo che la vuole per sé, avendo decretato che ormai non è più il tempo di essere ritrosa e stare con la madre, ma di concedersi a lui che la desidera («non t’inseguo per ucciderti / come selvaggia tigre o di Getulia / leone. E alfine tu, matura per l’uomo, / smetti di seguire tua madre»).

Sul solco di tale riflessione, risulteranno emblematiche le parole del cavaliere pagano Sacripante, che alla vista di Angelica si eccita a tal punto da prepararsi a violentarla: «Corrò la fresca e matutina rosa, / che, tardando, stagion perder potria. / So ben ch’a donna non si può far cosa/che piú soave e piú piacevol sia, / ancor che se ne mostri disdegnosa, / e talor mesta e flebil se ne stia: / non starò per repulsa o finto sdegno, / ch’io non adombri e incarni il mio disegno». Dunque, ad una donna – come afferma il cavaliere – non c’è altro che possa fare più piacere che essere posseduta: un vero e proprio sdoganamento della cultura dello stupro, perché in fondo a una donna piace che l’uomo le salti addosso. Sarà bene riflettere insieme alle e agli studenti a scuola (e anche all’università) che su questa mentalità si sono costruiti secoli di soprusi, e – collegandosi all’età contemporanea – potrà essere un’occasione per ricordare le parole dell’interrogatorio a cui fu sottoposta Franca Rame per il violentissimo stupro subìto: «Medico: Dica, signorina, o signora, durante l’aggressione lei ha provato solo disgusto o anche un certo piacere, una inconscia soddisfazione? Poliziotto: Non s’è sentita lusingata che tanti uomini, quattro mi pare, tutti insieme, la desiderassero tanto, con così dura passione? Giudice: È rimasta sempre passiva o ad un certo punto ha partecipato?». Andrà disinnescata la portata fintamente romantica e innocente di quel «s’apparecchia / al dolce assalto» che descrive Sacripante intento a prepararsi a uno stupro, tutt’altro che un dolce assalto.

Ariosto, poi, restituisce il diritto di autodeterminazione al personaggio di Angelica quando lei si innamora di Medoro e a lui, spontaneamente, «la prima rosa / coglier lasciò, non ancor tocca inante». Di fronte a tale libertà agita da questa ragazza, però, Orlando impazzisce in modalità assolutamente pericolosa e animalesca: il paladino di Carlo Magno, imbattendosi nella casa del pastore che aveva ospitato i due giovani amanti e nei luoghi da loro frequentati durante la breve “luna di miele”, ritrova segni tangibili della loro passione ovunque, e, nonostante abbia provato a ingannare la sua mente «usando fraude a se medesmo», si rende conto di non poter più avere Angelica tutta per sé, così «con gridi et urli apre le porte al duolo». Ci si chiede, però, come abbia potuto Orlando immaginarsi di dover ricevere amore e devozione da Angelica, se quest’ultima non era obbligata in alcun modo a tale pegno? Eppure, in modo assai moderno, Ariosto delinea quel meccanismo psicologico che probabilmente scatta nella mente dell’uomo violento, possessivo, maltrattante, per il quale conta il solo “sentimento” da lui provato a senso unico, a prescindere dal consenso della donna: «Non son, non sono io quel che paio in viso:/quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; / la sua donna ingratissima l’ha ucciso: / sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra». Terribile quel suo ingratissima che addossa la responsabilità della sua ferina insania alla donna, nonostante ella mai nulla aveva promesso al paladino: e se anche fosse…?
Nel Cinquecento prende piede, poi, la trattatistica comportamentale, che produce una serie di opere contenenti precetti spesso fortemente misogini e sessisti. Nel Libro del cortegiano Baldesar Castiglione delinea una serie di regole per educare una donna di palazzo degna del ruolo che ricopre: «ma sopra tutto parmi che nei modi, maniere, parole, gesti e portamenti suoi, debba la donna essere molto dissimile dall’omo; perché come ad esso conviene mostrar una certa virilità soda e ferma, così alla donna sta ben aver una tenerezza molle e delicata, con maniera in ogni suo movimento di dolcezza feminile, che nell’andar e stare e dir ciò che si voglia sempre la faccia parer donna, senza similitudine alcuna d’omo […] Parmi ben che in lei sia poi più necessaria la bellezza che nel cortegiano, perché in vero molto manca a quella donna a cui manca la bellezza». Machiavelli, per spiegare il rapporto tra virtù del principe e fortuna, usa una delle similitudini più maschiliste della letteratura: «la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano». Ancora, lo scrittore del Principe scrive una commedia, Mandragola, in cui il giovane protagonista Callimaco si invaghisce per procura della onestissima Lucrezia e, postosi come obiettivo quello di averla a tutti i costi, ordisce una macchinosa rete di inganni per vincere la resistenza della donna e intrufolarsi nel suo talamo nuziale, con buona pace delle virtù pudiche di lei, che sperimenterà le gioie sessuali più fresche di Callimaco rispetto all’ormai maturo marito Nicia.


Chiude il secolo XVI un grande classico della nostra letteratura, la Gerusalemme liberata del tormentato Torquato Tasso. Anche sulla lettura di questa opera si potrebbero operare delle riflessioni in ottica di genere. Il poema eroico-cavalleresco è popolato da diverse figure femminili, che passano da una caratterizzazione di estrema timidezza e fragilità (come nel caso di Erminia) a una di seducente inganno (come Armida). Tasso, ossessionato dalla censura e dall’allineamento della sua composizione ai dettami della Controriforma, imprigiona letteralmente la passione e l’erotismo – che fluivano liberamente nell’Orlando furioso – in situazioni che comprimono i sentimenti amorosi in un’oscillazione tra desiderio e paura di lasciarsi andare. Paradigmatica, in tal senso, la descrizione del duello tra Tancredi e Clorinda: «Tre volte il cavalier la donna stringe/con le robuste braccia, ed altrettante/da que’ nodi tenaci ella si scinge,/nodi di fer nemico e non d’amante». Una differenza di reazione di fronte al rifiuto amoroso, però, la si può evidenziare in un confronto tra i personaggi di Orlando ed Erminia. La fanciulla fugge come Angelica ed erra come Orlando in preda al dolore: «Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno / errò senza consiglio e senza guida, / non udendo o vedendo altro d’intorno, / che le lagrime sue, che le sue strida». Ma, mentre il paladino cristiano sfoga il suo delirio nella violenza più bieca (divelle alberi, strazia animali, stacca la testa ai pastori: «In tanta rabbia, in tanto furor venne,/che rimase offuscato in ogni senso. [..] ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci,/cavalli e buoi rompe, fracassa e strugge»), la fanciulla pagana – innamorata nel segreto di Tancredi – reagisce in modo nobile, composto, non lasciando spazio ad alcun sentimento di feroce rabbia: «Forse averrà, se ‘l Ciel benigno ascolta/affettuoso alcun prego mortale,/che venga in queste selve anco tal volta/quegli a cui di me forse or nulla cale; / e rivolgendo gli occhi ove sepolta / giacerà questa spoglia inferma e frale, / tardo premio conceda a i miei martìri / di poche lagrimette e di sospiri; onde se in vita il cor misero fine, / sia lo spirito in morte almen felice». Un bell’esempio di accettazione della realtà, del rifiuto, del mancato compimento del desiderio amoroso che varrà la pena evidenziare a confronto con la violenza cieca che si impossessa di Orlando, alla stregua di quella terribile brutalità che agisce nell’uomo maltrattante incapace di accettare la fine di una relazione.
In copertina: Primavera di Botticelli.
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.
Grazie davvero a Valeria Pilone per averci donato delle riflessioni su questi famosi personaggi d’autore, guidandoci nei percorsi femminili, messi in ombra e/o deviati da sguardi maschili.
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Grazie a lei, di cuore, per l’apprezzamento! Ne sono felice 🤗
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