Con il webinar di mercoledì 22 marzo dal tema Viaggiatrici o migranti? si è aperta la terza giornata dedicata alla XIX settimana indetta dall’UNAR contro il razzismo e le discriminazioni.
L’incontro, moderato da Katya Foletto, Consigliera di parità della Valle d’Aosta, ha visto protagoniste Ester Rizzo, Giusi Sammartino, Laura Candiani e le donne dell’associazione Dora.
Foletto, nell’introduzione alla mattinata, ha posto l’attenzione sul fatto che le donne, che siano viaggiatrici o che siano migranti, hanno comunque sempre avuto un ruolo fondamentale nel cambiamento sia del luogo dal quale sono partite sia di quello in cui sono arrivate. Il loro movimento, che è, di certo, mutato con gli anni, facendosi via via più autonomo e indipendente, porta invece con sé pericoli che sembrano eterni. Ecco perché la maggior parte di esse si impegna, una volta giunte nel nuovo Paese, in realtà associative e di aiuto e accoglienza indirizzate soprattutto ad altre migranti.
Le donne, ad oggi, rappresentano in Italia più del 50% della migrazione e sono, per molti settori lavorativi, una vera e propria spina dorsale. Impiegate, tra l’altro, nel badantato, nell’agricoltura e nella sartoria, meriterebbero un partenariato internazionale che permetta il riconoscimento di studi e qualifiche, affinché le competenze e le conoscenze acquisite, indipendentemente da dove siano state acquisite, abbiano il giusto peso e valore.
Terminata questa interessante premessa, e dopo la messa in onda del video Senso di marcia, che dà il titolo all’intero progetto di Toponomastica femminile, Katya Foletto introduce la prima delle relatrici, Ester Rizzo.
Ester Rizzo è giornalista, laureata in Giurisprudenza, e docente al Cusca (Centro universitario socio culturale adulti) nel corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo, Le Ricamatrici, Donne disobbedienti e Il labirinto delle perdute.
Ed è proprio Camicette bianche. Oltre l’otto marzo il centro del suo intervento che, prima di entrare nel vivo, lascia la parola, bellissima e coinvolgente, a Massimo Salviatti, attore, regista drammaturgo, studioso di memoria storica, che recita un passo estremamente toccante del libro.
Vinta la naturale commozione, Ester Rizzo ci racconta com’è nata l’idea di questo lavoro, com’è che ha scelto di parlare della vita, e della morte, delle trentotto italiane che il 25 marzo del 1911 perirono, insieme ad altre novantuno operaie, nell’incendio della Triangle Waist di New York. Molte di loro erano siciliane, esattamente come l’autrice, ed è forse questa sorellanza di terra che ha mosso la curiosità e la voglia di donare una sorta di riscatto, almeno nella memoria, a queste migranti, a queste lavoratrici, a queste donne.
Un riscatto che parte dal narrarne le esistenze, le speranze, i timori, e che diventa così una sorta di rivincita sul destino che, di loro, aveva deciso di lasciarci solo i certificati di morte.
Ciò che colpisce delle parole di Ester Rizzo è la portata rivoluzionaria di queste donne: semplici, spesso povere, ma che partirono per lavorare in terra straniera da sole, a volte con le figlie, rompendo così gli schemi dei ruoli precostituiti per scavarsi un proprio ruolo nel mondo. Storie come tante, ma storie uniche di coraggio. Storie di ieri che sono le storie di oggi, perché, come dice Ester Rizzo, i fenomeni migratori non finiranno mai e l’accoglienza è un meraviglioso dono.
Dopo l’intervento di Ester Rizzo, è il momento di Giusi Sammartino.
Giusi Sammartino, laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di Affari Sociali Internazionali su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia. È la direttora di Vitamine vaganti.
Giusi Sammartino ha voluto incentrare la propria relazione innanzitutto sul coraggio che chi migra ha: perché migrare, spiega, è perdere l’equilibrio.
Un equilibrio che a volte viene smarrito per sempre e che, altre volte, invece, viene trovato e stabilizzato. E di questo ci ha parlato Sammartino. Per scrivere il suo libro Siamo qui. Storie e successi di donne migranti, ha incontrato oltre cinquanta donne: di loro ha dovuto conquistare fiducia, di loro è diventata amica, per poi unire, con il ponte della sorellanza, vite nate distanti e divenute vicine. Il viaggio, raccontato da questo punto di vista, riesce ad avere sempre un qualcosa di positivo: i nuovi luoghi, la nuova alterità, la comunanza di speranze e di paure. E poi c’è quel “forse”, fulcro di ogni movimento, che rende il terrore verso l’ignoto meno brutto e meno totalizzante, che allontana definitivamente la sconfitta.
Nel proprio lavoro, Sammartino parla proprio di donne che ce l’hanno fatta, che si inventano nuovi lavori, che reinventano loro stesse, andando così a rompere infiniti stereotipi legati al mondo femminile.
Commovente il ricordo che l’autrice fa infine di Piera degli Esposti, grandissima attrice teatrale, che ha curato l’introduzione del libro. Un libro che è un dialogo, un abbraccio, un viatico grazie al quale si riesce ad accendere luce nuova sulle donne e sul loro viaggiare.
A seguire, l’intervento di Laura Candiani.
Laura Candiani è un’ex insegnante di Materie letterarie negli Istituti superiori e, dal 2012, collabora con l’associazione Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. È consigliera della sezione Storia e Storie al Femminile dell’Istituto Storico Lucchese (Pescia). Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni, fornisce consulenze alle amministrazioni locali e alle commissioni Pari Opportunità. Fra 2016 e 2017 ha realizzato come coautrice tre libri: Donne mal dette e nascoste nel territorio e nelle strade italiane, Le Mille e Pistoia. Tracce, storie e percorsi di donne. Nel 2018 ha scritto e curato la guida al femminile: La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
Questa terza relazione si concentra sulla figura, nostalgica e un po’ romantica, delle balie, di cui è stata allestita una mostra. L’excursus storico del fenomeno del baliatico ha mostrato come esso si sia declinato in un doppio aspetto: quello domestico e quello migratorio. Le balie partivano per vendere l’unico bene che avevano, un bene tra l’altro momentaneo e che non avrebbe garantito loro alcun tipo di sicurezza futura. Altissimo il prezzo da pagare: il distacco dalla propria creatura, da altri figli e figlie, dalla famiglia, oltre, ovviamente, all’abbandonare l’unico mondo fino a quel momento conosciuto.
Il baliatico è un lavoro sommerso, relativo alle classi più povere, che spesso ha portato con sé la colpa e la vergogna. Quasi a dire che le donne, che avevano per mestiere la cura di figli e figlie di altri, non avevano la possibilità di trovare chi badasse ai loro bambini e alle loro bambine almeno con la medesima attenzione. Tra la prole delle balie vi era un alto tasso di mortalità.
Negli ultimi anni, la ricerca storica sta tentando di portare nuova luce su questo mondo. La regione Toscana, in particolare, sta riscoprendo, lavorando molto con le scuole, realtà locali che parevano essere dimenticate. La migrazione che ha riguardato le balie è stata sia dalla campagna alla città, sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali. Esse sono state un vero e proprio simbolo di ricchezza e importanza sociale: le famiglie benestanti avevano balie per i propri figli e figlie ed esse ne divenivano, per il periodo di allattamento, parte integrante. Ecco perché queste donne possono essere assunte a simbolo di emancipazione.
La ricerca di questo fenomeno deve necessariamente continuare, non fosse altro per dare nuova luce a un mestiere, spesso nemmeno ritenuto tale, e che invece ha contribuito a scrivere parte della storia femminile del nostro Paese.
A conclusione della mattinata, due interventi video a cura di Dora, associazione della Val d’Aosta, che si occupa di combattere ogni forma di violenza o molestia in qualsiasi ambito avvenga, promuovendo forme di prevenzione attraverso attività educative e formative, con la quale Toponomastica femminile collabora ormai da diverso tempo.
Il primo contributo è stato a cura di Arlette, una migrante di ritorno figlia una coppia valdostana, nata a Parigi e rientrata da adulta in Valle; una donna che si è sempre sentita una straniera. Arlette è nata durante la Seconda guerra mondiale, quando Francia e Italia erano su fronti opposti, e la mamma decise di darle un nome francese proprio per evitarle, soprattutto in quel periodo, di essere additata come l’altra, la nemica. Eppure diversa Arlette si è sentita sempre. Perché, come dice lei stessa nell’intervista, non è vero che gli stranieri e le straniere non si vogliono integrare: sono le occasioni a mancare. Però, aggiunge anche, a volte, sentirsi eternamente straniera, può avere il vantaggio di farti trovare, sempre e comunque, a casa tua.
Il secondo contributo, invece, riguarda la testimonianza di una ragazza spagnola, in Italia per uno scambio culturale tra università. Relazionarsi tra due culture diverse non è mai facile: il segreto, ci dice, è non aver paura di scoprire la diversità.
Si conclude così questo terzo incontro. Un incontro che ha tentato di mostrare quanto il movimento di popoli sia perpetuo e inevitabile.
Non ha dunque senso porsi nei suoi confronti con idee di chiusura e respingimento. La diversità, quando accettata, accolta e aiutata, ha sempre fornito crescita e felicità, da entrambe le parti.
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.