Donne in manicomio nel regime fascista

La mostra dal titolo: I fiori del male. Una mostra sulle donne in manicomio nel regime fascista, ospitata nei locali del Museo Athena del Comune di Capannori (18 febbraio – 8 marzo 2023), ha offerto alla cittadinanza la possibilità di accendere un riflettore sui percorsi di marginalizzazione femminile.
Sullo stesso tema si era svolto nel dicembre 2022 un corso di formazione dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Lucca dal titolo: Il quinto stato. Storie di donne fra fascismo e dopoguerra. Convivenze, conflitti e transizioni nell’età contemporanea. A presentare i lavori era intervenuta Maria Teresa Leone, Consulente Pari opportunità dell’Amministrazione provinciale di Lucca e membro Isrec cittadino. Il corso aveva preso l’avvio analizzando i concetti di emarginazione e devianza in relazione agli stereotipi culturali, al ruolo delle donne nella fase del ventennio fascista, in quella bellica e nella ricostruzione del dopoguerra, in un percorso che ha inteso delineare sia il quadro nazionale, sia lo specifico contesto locale. A introdurre i lavori il dott. Costantino di Sante che, per presentare il percorso sulle storie femminili nel periodo a cavallo della metà del ‘900, ha proposto di partire dalla categoria interpretativa della devianza e della presenza femminile nelle strutture manicomiali dello Stato.

Il lavoro della mostra parte dall’analisi documentale del manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, una delle più grandi strutture psichiatriche del centro sud Italia e dai percorsi biografici che hanno determinato l’internamento in strutture che spesso diventano, da parte delle famiglie, uno dei percorsi per gestire risorse economiche precarie o relazioni parentali complesse. Tali dinamiche sono state inquadrate nel complesso sistema normativo italiano anche precedente al fascismo: la legge istitutiva dei manicomi in Italia è la legge 14 febbraio 1904, n. 36, tale normativa è stata messa in relazione con il contesto culturale, dominato dalle teorie positiviste che sanciscono l’inferiorità biologica delle donne. Durante l’epoca fascista i percorsi di devianza femminile vengono codificati a partire dallo stereotipo di donna e società che ne ha il regime: moglie generatrice di pura razza italica e madre accudente. Questo determina un rigido controllo sul corpo e la sessualità femminile, che diviene oggetto di un preciso progetto politico.

La dott.a Annacarla Valeriano, cocuratrice della mostra insieme al prof. Costantino Di Sante, ha presentato il cambiamento degli stereotipi femminili e il complesso sistema di condizionamenti normativi, sociali e morali a esso correlati. All’attenzione dei corsisti è stata proposta l’Enciclica Casti Connubi, che focalizza la propria riflessione teologica sull’indissolubilità del matrimonio dalla quale consegue la sua specifica finalità riproduttiva, con la conseguente condanna di ogni pratica sessuale extraconiugale, cristallizzando la figura femminile nel ruolo di sposa e di madre. Sul versante laico le teorie eugenetiche allora dominanti nel Paese, ammantate da un presunto rigore scientifico, quindi come tali difficilmente discutibili, avevano rafforzato l’immaginario collettivo della presunta inferiorità della donna, relegandola nello spazio muliebre e della maternità e determinando come ulteriore conseguenza anche una inedita convergenza tra fascismo e chiesa cattolica nel controllo pervasivo e manipolatorio della sessualità femminile. 

A livello normativo poi è stata posta l’attenzione sulle implicazioni sociali del Testo Unico delle Leggi di pubblica sicurezza del 1926, che imponeva a tutta una serie di figure professionali la denuncia dei comportamenti devianti e che trova una sua organicità nel Codice Rocco, promulgato con Regio decreto il 19 ottobre 1930 che contempla il solo adulterio femminile come reato. Con la caduta del regime e con l’avvento dell’era repubblicana la funzione sociale dei manicomi rimane invariata per molto tempo, a testimonianza di un modello culturale persistente nel paese. Bisognerà attendere sostanzialmente gli anni Settanta per un radicale cambiamento di passo e la legge Basaglia del 13 maggio 1978, n. 180 per poter pensare il malato di mente come persona, non come corpo estraneo della società.

Il secondo e il terzo incontro hanno visto come relatrice Alessandra Celi, ricercatrice e socia della Società italiana delle storiche, con un intervento dal titolo: Ricostruire (1946–1945), la prima parte dedicata al contesto nazionale, la seconda alle specificità locali. L’intervento ha inteso illustrare le modalità con cui le donne, dopo il conflitto bellico che aveva rimodulato e talvolta messo in discussione il ruolo del femminile nello spazio pubblico e familiare, sono uscite dalla sfera domestica per innestarsi in quella pubblica, iniziando di fatto a frantumare alcune logiche patriarcali e di potere. L’analisi ha inteso partire dall’indagare il ruolo del e verso il femminile all’interno delle associazioni, della chiesa, dei partiti e anche all’interno delle istituzioni dello Stato. Le donne acquisiscono visibilità nello spazio pubblico, che viene diversamente caratterizzato dal proprio agito.
Sono state analizzate le scelte politiche delle donne di diversa affiliazione partitica che però hanno avuto come matrice comune la concretezza, cioè il rispondere alle esigenze contingenti della popolazione. L’analisi ha inteso anche proporre dei numeri: dalle madri costituenti alle donne che nel decennio di riferimento sono state consigliere comunali, assessore e alla esigua percentuale di sindache o vicesindache nella regione Toscana. La loro politica, caratterizzata dalla scelta di rispondere in maniera concreta ai bisogni e alle esigenze della popolazione, le ha portate a occuparsi della carenza abitativa, dei bambini di strada, dei problemi del mondo del lavoro in un contesto culturale ed economico che tendeva a riportare il genere femminile all’interno delle mura domestiche dopo il ritorno degli uomini dal fronte. Tutto ciò testimoniato anche dalle madri costituenti che possedevano un modello etico della politica della concretezza, determinando spazi dell’agito politico femminile che ha permesso di superare barriere ideologiche e partitiche. 

Una ulteriore riflessione ha riguardato il nuovo ruolo femminile di elettrici attive e di come per la prima volta i partiti di massa abbiano dovuto pensare a come veicolare la propria proposta politica a un elettorato nuovo, ma che stava formando la propria coscienza politica non solo in seno ai partiti di massa, ma anche in altri spazi pubblici, come le associazioni femminili. La relatrice ha poi proposto l’analisi dell’associazionismo femminile, in particolare del Cif e dell’Udi, che nell’immediato dopoguerra si costituiscono come le associazioni più rappresentative dell’impegno associazionistico femminile. Al di là delle evidenti differenze ideologiche, le due associazioni condividono l’interesse verso i medesimi campi di azione: si occuperanno da subito, in maniera prioritaria, di infanzia, di scuola, di edilizia pubblica, ancora una volta con quella caratteristica marcata di attenzione al concreto e ai bisogni contingenti dell’immediato dopoguerra. 

L’ultimo incontro, tenuto dal dott. Federico Creatini, ha inteso proporre alcune caratteristiche del lavoro femminile in provincia di Lucca, in particolare facendo riferimento a una delle aziende maggiormente attrattive per la manodopera femminile, la Cucirini Cantoni Coats, importante manifattura cittadina. L’intervento ha posto l’attenzione sulle caratteristiche socioculturali e socioeconomiche della città agli inizi del Novecento e soprattutto sulla scarsa sindacalizzazione della manodopera che garantiva una bassissima conflittualità come fattore dirimente nella scelta di sviluppare l’impianto industriale nella città toscana. L’assoluta maggioranza della manodopera impiegata nell’industria tessile cittadina, per tutto il ventesimo secolo, era femminile e spesso si trattava di donne che erano impiegate a cottimo o a chiamata, tipologia di lavoro considerata conciliante con il ruolo ancillare riservato alle donne che, pur lavorando in fabbrica, si facevano carico comunque di tutti i compiti domestici e di cura. Il dott. Creatini ha analizzato le politiche paternalistiche aziendali, portate avanti in fin dall’inizio del Novecento, per rendere attrattivo il lavoro in fabbrica, come lo spaccio aziendale o le società sportive per dipendenti e figli di dipendenti, politiche che contribuivano a mantenere bassa la conflittualità interna, anche se l’azienda continuava a essere caratterizzata da una fortissima gerarchizzazione e discriminazione stipendiale di genere. Anche l’assunzione e la rivendicazione di diritti in qualità di lavoratrici evidenzia i caratteri specifici della città: le manifestazioni e gli scioperi, sia prima del 1940, sia dopo il 1945 sono finalizzati a richieste concrete, poco sindacalizzate e politicizzate, tutte gestite all’interno dell’azienda con pochissimo sostegno da parte della cittadinanza. Le lotte sindacali usciranno di fabbrica soltanto a partire del 1968/1969, con un maggiore coinvolgimento della popolazione cittadina.

Tutti gli interventi hanno avuto una caratteristica comune: l’attenzione alla specificità locale che ha fornito utili strumenti a tutti quei docenti che intendano andare oltre la storia manualistica e intendano avviare con le proprie classi una didattica attiva e coinvolgente e collegata al territorio.

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Articolo di Paola Paterni

Laureata presso l’Università degli Studi di Firenze, è insegnante. Tra le sue pubblicazioni: Le leggi della città, le leggi della famiglia (Lucca, XVI–XVIII sec.), in Calvi G., Chabot I., Le ricchezze delle donne. Diritti patrimoniali e poteri familiari in Italia (XIII–XIX sec.), Torino, Rosemberg & Sellier 1998, pp. 65–78. Camaiani P.G., Paterni P. (a cura di), Arturo Paoli, “Vivo sotto la tenda”, edizioni San Paolo 2006.

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