Modificare o non modificare linguisticamente la letteratura per l’infanzia?

Non è ancora passato un mese dallo scoppio della diatriba sulle modifiche linguistiche apportate ai libri di Roald Dahl, che di questa polemica se n’è persa quasi traccia. Come è già successo per tanti altri momenti di indignazione popolare, anche questo è finito in un fuoco di paglia. Certo, è stato un periodo intenso, durante il quale moltissima gente (illustre e non, competente in materia e non) si è sentita in dovere di esternare la propria idea in merito. Come buona ultima, probabilmente, arrivo anch’io; se mi appresto solo ora a scrivere queste righe è perché, banalmente, non ho trovato il tempo di farlo, ma d’altra parte è probabilmente anche vero che questo tempo non l’ho trovato perché ho avuto bisogno di elaborare con calma le varie informazioni e le diverse posizioni, per evitare di esporre una mia reazione puramente emotiva.

Riassumiamo brevemente il fatto: la casa editrice di Oltremanica Puffin Books e la Roald Dahl Story Company hanno deciso di sottoporre le nuove edizioni inglesi (nel senso di britanniche) dei libri di Roald Dahl (l’autore de La fabbrica di cioccolato e di Matilde) a un aggiornamento linguistico e culturale. In pratica, in base alle indicazioni di un sensitive reader (vale a dire un/una professionista che indica quali parti di un testo, a livello lessicale o di contenuto, possono essere percepiti come offensivi o trasmettono stereotipi o pregiudizi, e suggerisce all’autore o all’autrice o alla casa editrice le opportune modifiche), hanno tagliato o riscritto quei passi in cui il linguaggio veicola contenuti misogini, xenofobi, razzisti o è irrispettoso ad esempio verso persone con problemi mentali o di sovrappeso. Secondo quanto riportato dai media, la casa editrice ha sottolineato che le modifiche sono state poche e ben ponderate e che non influenzano la struttura narrativa o lo spirito del racconto. Purtroppo, malgrado alcune mie ricerche online, non sono riuscita a elaborare una quantificazione di queste modifiche.

In ogni caso, quando è apparsa la notizia, mi sono detta: «no, ma dai, poveri libri», senza tuttavia arrivare a pensare a chissà quale cospirazione e a chissà quale censura da parte di un ordine superiore. E mi sono trovata d’accordo con chi riteneva che queste modifiche rappresentano un pericolo per la libertà di espressione e che uno scrittore o una scrittrice deve essere libero/a di esprimersi come meglio crede e che non si possono mettere le briglie alla fantasia e all’immaginazione. Ed ero anche in sintonia con chi sosteneva che i libri sono un patrimonio storico-culturale da salvaguardare, un’eredità letteraria che andrebbe lasciata intatta. E se c’è qualche parola negativa o scomoda pazienza, bisogna imparare a contestualizzare un’opera e a difendersi da questi attacchi linguistici. Mi sono anche messa nei panni di chi scrive e si vede modificato un testo: è doloroso, non si fa.

Non ero invece d’accordo con chi sosteneva che sono solo parole: quello che diciamo e il modo in cui lo diciamo hanno una forte influenza sul nostro pensiero e viceversa. E qui sono iniziati i primi dubbi. Ma le modifiche descritte sono tutte davvero da biasimare? Ancora: è davvero così negativo e pericoloso per la cultura e l’eredità letteraria trasmessa di generazione in generazione se il linguaggio dei libri per l’infanzia viene ammorbidito, smussato, aggiornato? Modificare questo tipo di letteratura non è una novità: esistono tante versioni della storia dei tre porcellini, di Cappuccetto rosso, di Hänsel e Gretel, di Biancaneve o di Cenerentola, per non parlare di quella del sanguinario uxoricida Barbablu. I temi della violenza e della morte sono da tempo “censurati” e in pochi se ne sono lamentati. Se una bambina o un bambino, oggi, incontra per la prima volta la parola mugnaio o filatrice o scalpellino o arrotino o fabbro, dovrà chiedere cosa significhi. Ai tempi di Grimm non sarebbe stato necessario. Ignorare i cambiamenti della società e dimenticarsi del lettore o della lettrice “ideale” attuale, cioè della destinataria/o per il quale si pubblica un libro, significa non capire che un libro è un dono che si fa alla società in cui si vive. E siamo arrivate a un punto centrale di questa discussione che è bene sempre ricordare e che probabilmente è stato messo in secondo piano in molti commenti: parliamo di libri che vengono letti (o ascoltati) principalmente da bambini e bambine che si stanno formando e che non hanno ancora uno spirito critico che permette loro di capire, ad esempio, che un libro è stato scritto 60 anni fa, con il linguaggio dell’epoca, e che da allora molte cose sono cambiate (nella società e nella lingua).

A questo punto si potrà obiettare che allora dobbiamo abolire anche la visione dei film ambientati nel passato, che un film western in cui i cowboy trionfano contro gli indiani o un film ambientato durante la guerra civile americana, presentano le stesse criticità dal punto di vista dell’integrazione etnica, del ruolo delle donne, del linguaggio. La differenza, a mio avviso, sta nel fatto che l’immagine visiva permette subito di mettere distanza cronologica tra noi, tra l’oggi, e il tempo dell’ambientazione del film. In un libro tutto è lasciato alla parola e alla forza della fantasia e rischiamo di vedere la narrazione con gli occhi di oggi. Un romanzo in cui non vengono rispettate le diversità ha dunque meno filtri rispetto a un film: è maggiormente immediato e “a rischio interiorizzazione”. Crescendo si impara a collocare temporalmente una narrazione, ma per un bambino o una bambina ciò è più difficile e la consapevolezza della nozione del tempo si acquisisce piano piano. E qui parlo unicamente per esperienza personale perché ho dovuto spiegare ai miei figli che sì, all’epoca dei loro nonni c’erano già le automobili e che invece no, i cavalieri con le armature non c’erano. Certo, erano piccoli e non ancora in grado di leggere, ma il punto non cambia: non tutti i bambini e le bambine hanno gli strumenti per elaborare la collocazione storica del libro e relativizzare la portata di un linguaggio discriminante e vettore di pregiudizi.

Non sarebbe dunque questo un ruolo che dovrebbe ricoprire la scuola? Forse si dimentica che questi libri pubblicati in inglese non vengono commercializzati unicamente nel Regno Unito o negli Stati Uniti e che raggiungono molte nazioni in cui la lingua della scolarizzazione è sì l’inglese, ma che non necessariamente condividono la stessa religione, la stessa storia o la stessa impostazione di valori sociali. Come non mettersi nei panni di un bambino o di una bambina di Bombay che legge i romanzi di Kipling?

Rimane ancora il ruolo della famiglia. I genitori possono di sicuro evitare di far leggere ai figli libri con un certo tipo di linguaggio, ma è anche vero che è difficile e complicato filtrare ogni libro che passa per casa. Io mi preoccupo e vorrei evitare che mio figlio pensasse, perché l’ha letto da qualche parte, che le streghe sono cattive e sono calve (e che magari, incontrando una donna malata di cancro le chiedesse, o anche solo pensasse, che è una strega) oppure che leggendo di un bambino in sovrappeso ridacchiasse tra sé e sé pensando a quel compagno di classe che tutti prendono in giro perché è diverso. L’educazione alla diversità passa anche dall’uso di parole appropriate, soprattutto durante l’infanzia. Come persona adulta, possiedo gli strumenti culturali per combattere la discriminazione presente nelle parole e negli atti, ma un bambino o una bambina deve ancora formare il proprio spirito critico.

Razzismo, xenofobia, discriminazione, diseguaglianza di genere non sono certo argomenti di oggi e, forse, se siamo ancora qua a parlarne, è perché i genitori di oggi si sono formati sui libri dei loro genitori e non hanno saputo individuare da sé o attraverso la scuola le spie di un linguaggio discriminante. Dunque, buttiamo via tutti i volumi scritti finora? No, certo che no: sarebbe una catastrofe e rafforzare lo spirito critico di ognuna/o rimane fondamentale, anche per potersi difendere da fake news o propaganda. Perché, allora, non aiutare le persone a scegliere i libri giusti in base all’età e alla consapevolezza personale? Come? Magari aggiungendo in copertina una semplice etichetta, come quella dei film, che indica chiaramente il tipo di contenuto e anche il tipo di linguaggio. Poi spetterà a chi compra valutare se acquistarlo o meno, per sé o per altri.

PS: qualche giorno dopo aver scritto questo testo è apparsa la notizia della revisione linguistica dei gialli di Agatha Christie. In questo caso non si tratta, chiaramente, di libri che verranno letti soprattutto da bambini e bambine e non ritengo di estendere gli argomenti qui sviluppati anche alla scrittura di Christie. Osservo, in ogni caso, che l’attuale spinta a una revisione linguistica di alcuni autori o autrici del passato parte principalmente dal Regno Unito, una nazione che ha una storia di conquiste coloniali con la quale deve fare i conti.

***

Articolo di Lorenza Pescia De Lellis

Nata e cresciuta nel Canton ticino, sono stata assistente al Romanisches Seminar di Zurigo e ho collaborato all’edizione degli Scritti linguistici di Carlo Salvioni. Attualmente vivo negli Stati Uniti e sono visiting scholar all’Institute for Advanced Study di Princeton. Tra i miei interessi di ricerca ci sono il linguaggio di genere, il multilinguismo e la politica linguistica, l’analisi del discorso, la storia della linguistica.

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