Ha il nome di una regina del mondo antico, che deve al mito la sua vittoria sull’eternità.
Ha le mani di dama e di artigiana, cantate, torturate, osannate per la vita imperitura che hanno saputo creare.
È stata innumerevoli donne. E innumerevoli donne sono state lei. Suo, il loro viso. Sue, le loro forme.
È stata scandalo nella Roma papalina e fama nella Firenze medicea. Analfabeta per buona parte della sua esistenza e amica e conoscente di personalità culturali di spicco.
È stata corpo violato e sguardo invidiato. Caravaggesca nelle ombre, nelle luci e nella vita.
È stata, è, Artemisia Gentileschi, Artemisia Lomi, la pittora.

Artemisia Gentileschi nasce a Roma l’8 luglio del 1593, un anno dopo la salita al soglio di Pietro di papa Clemente VIII, il pontefice sotto il quale sono condannati a morte Giordano Bruno e Beatrice Cenci, la nobildonna romana rea di aver ucciso il padre che, per anni, aveva abusato di lei. È la Roma della Controriforma, della voce sussurrata e del braccio spietato.
Nasce da Orazio Gentileschi, affermato artista dallo stile e dall’impronta di Michelangelo Merisi, e Prudenzia di Ottaviano Montoni, una donna destinata a fare la donna come si voleva fossero le donne in quegli anni: moglie, madre, sacrificata sull’altare del parto, di cui morirà, infatti, nel 1605.
Le sopravvivono tre figli e una figlia, Artemisia appunto, la primogenita, che ha, in quanto tale, la strada segnata dall’accudimento del padre e dei fratelli. Eppure lei non ci sta. Sente mischiarsi sotto pelle le tinte, le terre, le polveri come fossero sulla tavolozza. Vede, dietro gli occhi chiusi, tele bianche che aspettano solo di colorarsi a vita. Tocca arte. Respira arte. Vuole essere arte.
Poiché assistente del padre, frequenta e mastica pittura fin da ragazzina, conosce nomi importanti del campo pittorico. Ciò che nasce come servizio di figlia devota, diviene ben presto la passione motrice di questa meravigliosa giovane donna, dal carattere — pare — allegro e irriverente.
Orazio Gentileschi, che sa fare il proprio mestiere, non impiega molto ad accorgersi che la figlia è brava, che — a differenza dei fratelli, indolenti e svogliati — sa, può e deve seguire le sue impronte. Eppure, è combattuto: è giusto che lei, una donna, intraprenda questo mestiere? Non sarebbe forse meglio per entrambi darla in sposa a un marito capace di imbrigliare quello spirito libero e visionario?
Nel dubbio, Orazio la chiude in casa e le affianca una donna — tal Truzia — per controllarla e farle una qualche compagnia.
Nel frattempo, però, la fa anche esercitare, la fa dipingere e creare, le lascia l’occasione di cercare nella pittura quella libertà che le sta limitando. E Artemisia lavora, assiduamente, con tele e pennello. Usa Truzia come modella e a sedici anni dipinge la Madonna col Bambino. Ma, soprattutto, usa sé stessa, si guarda allo specchio e si figura, lei, prisma del tempo passato e di quello presente, attraverso il quale la propria immagine diviene arte.
Per aiutarla ad affinare la tecnica, il padre la fa seguire da un artista con il quale, in quel momento, sta collaborando negli affreschi della “Loggia di Montecavallo”, nel giardino del cardinale Scipione Borghese. L’uomo si chiama Agostino Tassi, è un paesaggista esperto nella tecnica della prospettiva, ed è soprannominato lo Smargiasso. È un tizio pericoloso, così come annuncia il suo appellativo, uno che, si racconta, ha commissionato l’omicidio della moglie a Lucca, ha avuto una relazione con la cognata, ha subito un processo per adulterio e le cui sorelle, sono dedite — sotto sua direzione — alla prostituzione. È però un artista di un discreto talento. E tanto basta a Orazio Gentileschi per decidere di affiancarlo alla figlia.
Ciò che avviene è cosa nota. Agostino Tassi stupra Artemisia e l’anno seguente — nel 1612 — il padre della ragazza denuncia il pittore per aver mancato la promessa del matrimonio riparatore.
Le carte del processo mostrano come a salire sul banco degli imputati non sia l’accusato. È il corpo di Artemisia a diventare corpo di reato consapevole e condiscendente. È lei che deve difendersi: dal padre e dai fratelli, da Truzia e da Tassi, dalle ostetriche che la “rovistano” come fosse un sacco alla ricerca della colpa, dai magistrati e dal loro linguaggio da Controriforma, che nulla apertamente dice, ma che tutto con ferocia lascia intendere. Sue, le mani che vengono torturate per farle ammettere la verità.
Alla fine, Agostino Tassi viene condannato: o il carcere o l’esilio da Roma. Non sconterà nessuna delle due. Sarà Artemisia, invece, a fuggire: convolata in rapide nozze con Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore, se ne andrà col marito a Firenze.
L’esilio, però, diviene rinascita e, nella città medicea, il talento di Artemisia sarà finalmente foriero di fama e, in una qualche maniera, di una nuova vita. Entra nelle grazie di Cristina di Lorena, coreggente, insieme alla nuora, del Granducato di Toscana dopo la morte del figlio Cosimo II. È il padre a fornirle la lettera che la presenta alla granduchessa come pittrice di grande bravura: la dote e insieme il congedo che Cosimo lascia alla figlia.
E quest’ultima si fa ora chiamare Artemisia Lomi, assumendo il cognome del nonno paterno che il padre aveva abbandonato. Impara a leggere e a scrivere, così da potersi relazionare, in prima persona, con i grandi nomi della cultura e con gli e le committenti che là gravitano e vivono. Impara a conversare e approfondisce la conoscenza dei classici e delle storie che dovrà raccontare nelle sue opere. Stringe una forte amicizia con Galileo Galilei, con Cristofano Allori e con Michelangelo Buonarroti il giovane. Da quest’ultimo riceve l’incarico di affrescare il soffitto della Galleria a casa Buonarroti, in via Ghibellina.
Nel 1616 è ammessa all’Accademia del Disegno, prima donna nella storia. Inizia a vivere grazie alla sua arte, al suo talento finalmente riconosciuto. Diviene ciò che è sempre stata: una pittora.

E infine conosce anche l’amore. La sua relazione extraconiugale con Francesco Maria Maringhi sarà appassionata e totalizzante, pure durante le sue lunghe assenze dalla città.
Viaggia, infatti, Artemisia. Torna a Roma — dove il pittore Pierre Dumonstier le dipingerà le mani, regalando loro una rivincita di arte e immortalità — va a Venezia, a Londra, a Napoli. E, nella città partenopea, morirà nel 1656.
Artemisia Gentileschi, che deve il suo nome alla regina di Alicarnasso, moglie di Mausulo, condivide con la donna del mito la forza e l’immortalità. E come la prima, che commissionerà il famoso Mausoleo, ma che si farà essa stessa custode eterna del consorte, bevendone le ceneri e divenendone tomba e monumento, così Artemisia Gentileschi, la pittora, farà arte ma sarà opera d’arte. Sarà il puro spirito di una donna mai doma che ha vinto, grazie alla pittura, il rispetto e il riscatto. Hanno provato a strapparla e lacerarla, come fosse una misera tela incrostata. E invece ella ha dipinto la propria vita con i colori e le tinte di un capolavoro.
In copertina: Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, 1638-1639, Royal Collection, Windsor Castle.
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.