Come per tanti altri ambiti dell’agire umano, anche lo sport subisce e rispecchia le dinamiche di potere presenti nel contesto sociale e culturale in cui si sviluppa. In questo senso, quindi, non è sorprendente notare come atlete di tutte le discipline siano ancora vittime di discriminazione di genere. Le diseguaglianze nello sport sono molteplici e comprendono sia aspetti culturali che economici. In primis, è la stessa partecipazione all’attività sportiva a essere ancora fortemente connotata rispetto al genere, come ben descritto dall’Istituto Europeo per l’uguaglianza di genere. Secondo quest’istituzione, infatti, le donne praticano meno sport anche perché è «tradizionalmente un settore dominato dagli uomini e i progressi compiuti nella parità di genere in questo campo sono frenati dalle concezioni sociali di femminilità e mascolinità, che spesso associano lo sport a caratteristiche “maschili” quali la forza fisica e la resistenza, la velocità e uno spirito molto combattivo, se non addirittura aggressivo. Le donne che si impegnano nello sport possono essere viste come “mascoline”, mentre gli uomini non interessati agli sport possono essere considerati “poco virili”». A livello economico invece il problema strutturale più considerevole è il divario salariale, detto comunemente gender pay gap. Le atlete sono pagate molto meno degli uomini anche a parità di livello raggiunto, impegno profuso e vittorie ottenute.
Statisticamente, di cosa parliamo quando parliamo di divario salariale di genere? È bene cominciare dicendo che i dati sono proprio quello che ci manca per riuscire a delineare un quadro concreto della diseguaglianza in atto. Nel caso dell’Italia, ad esempio, la difficoltà è rappresentata principalmente dal carattere dilettantistico del mondo sportivo: ad eccezione di basket, golf, ciclismo su strada e calcio (solo in questo caso anche nel femminile) nessun’altra federazione prevede lo status di professionismo. Ciò significa, nella maggior parte dei casi, che gli stipendi figurano come rimborsi spesa e sono regolati da scritture private spesso senza obbligo di dichiarazione. I pochi dati a disposizione sono comunque sufficienti per renderci conto che il tipo di divario di cui stiamo parlando supera di gran lunga il buon senso. Nell’ultima lista di Forbes dei 50 atleti più pagati al mondo, la prima donna che compare è la tennista Naomi Osaka alla diciannovesima posizione. Come donna più pagata del mondo il suo incasso annuo totale (sia dentro che fuori dal campo) è di 59,2 milioni di dollari mentre per il primo classificato, il calciatore Lionel Messi, gli introiti raggiungono quota 130 milioni. L’unica altra donna nella lista è la famosissima Serena Williams. Il tennis infatti è uno dei pochi sport in cui, dopo una faticosa battaglia, le donne hanno guadagnato maggior visibilità e aumenti salariali. Per esempio, nei tornei del Grande Slam i premi vittoria sono equiparati fra generi.
Le ricompense per le vittorie sono un altro campo in cui si palesano grandi disparità anche se spesso limitate ad alcune discipline specifiche come il calcio. La vittoria della Champions League frutta a un club maschile 4,5 milioni mentre a uno femminile 250 mila euro. La vittoria del Campionato del mondo nel 2022 prevedeva un montepremi di 44o milioni di dollari mentre per le donne, ai Mondiali francesi del 2019, appena 30 milioni.
Nella mia disciplina, il basket, il divario di genere è addirittura esorbitante. Se prendiamo in considerazione il quadro internazionale, la differenza tra l’Nba (massima lega americana maschile) e il suo corrispettivo femminile, la Wnba, la disparità salariale è abissale. Di media una cestista guadagna poco più di 102 mila dollari per salire a ben 8,5 milioni di dollari tra gli uomini. Mediaticamente, suscitò parecchia indignazione il fatto che la mascotte della squadra maschile di Denver avesse uno stipendio maggiore rispetto alla giocatrice più pagata dalla lega, Diana Taurasi. In Italia, solamente il campionato maschile di serie A è considerato professionistico, quindi la raccolta di dati risulta ancora molto difficile. Per farsi un’idea della differenza, però, basti pensare che il giocatore italiano più pagato è Marco Belinelli, firmatario di un contratto triennale di 5 milioni, mentre Cecilia Zandalasini, punta di diamante del basket femminile italiano e molto presumibilmente una delle più pagate, ha firmato un contratto di appena 300 mila euro, sempre per tre anni. In media, una cestista italiana nella massima serie guadagna più o meno quanto un giocatore di serie B.
Dalla storica lettera di denuncia di Serena Williams al giornale The Guardian, passando per le calciatrici americane che hanno fatto causa alla loro stessa federazione per discriminazione di genere e le giocatrici di 25 squadre nazionali di calcio femminile che stanno a gran voce reclamando parità nei trattamenti e nei premi in vista dei Mondiali di quest’estate, gli esempi di donne e organizzazioni che stanno lottando per cambiare lo status quo sono numerosissime. Che questo sforzo non abbia ancora pagato in termini di risultati è dato soprattutto dal fatto che il divario salariale di genere è un problema strutturale con radici assai profonde e che si inserisce all’interno di una cornice di «disuguaglianza complessa».Come ci spiega benissimo Pippo Russo nel suo studio (“La disuguaglianza complessa. Tutte le dimensioni del gender gap nello sport”, Eracle Journal of Social Science, Vol 3, 2020) il divario salariale tra uomini e donne è rinforzato e strettamente collegato ad altre ingiustizie: le donne sono meno presenti nello sport sia come atlete che nei quadri dirigenziali e tecnici, hanno molte tutele in meno perché praticamente mai inquadrate come professioniste (l’unica eccezione è il calcio) e sono assai meno visibili mediaticamente con un misero 4% di copertura televisiva e un 12% di presenza nelle notizie a livello internazionale.
L’assunto di fondo che aleggia intorno alla disparità salariale di genere nel mondo dello sport è la pericolosa idea che essa sia giustificata in quanto lo sport femminile è comunemente meno seguito perché meno spettacolare, meno atletico. Le donne sono viste sempre come più lente, più basse, più deboli. A un torneo estivo di basket organizzato e sponsorizzato dalla Federazione Italiana Pallacanestro a cui ho partecipato e dove hanno preso parte sedici squadre maschili e otto femminili, il montepremi finale per i vincitori era di 1000 euro per le donne e 2500 per gli uomini. Una disparità notevole visto che non era un torneo con le quote di partecipazione, infatti la somma finale era offerta dalla Fip stessa e da vari sponsor. Ho comunicato le mie perplessità in uno dei canali social più seguiti dal movimento: provo ancora parecchia frustrazione a ripensare alle risposte che ho ricevuto. Nonostante molti utenti abbiano mostrato solidarietà, ce ne sono stati altrettanti che hanno trovato il fatto piuttosto giustificabile. Il commento che mi ha colpito di più e che spiega il concetto culturale che sta alla base del divario salariale di genere è il seguente: «A prescindere da tutto: c’è veramente qualcuno che pensa, con tutta l’onestà intellettuale di questo mondo, che lo sport femminile sia solo minimamente paragonabile a quello maschile sotto uno qualunque degli aspetti che si possono valutare? Il gender gap l’ha creato madre natura.[…] Vuoi l’uguaglianza? Non esiste. Non offri lo stesso spettacolo e di conseguenza non meriti lo stesso premio […] la biologia è maschilista, pare!».
Quando si affronta quindi il tema del divario salariale di genere nello sport è importante ricordarsi che è il frutto di una serie ingarbugliata di discriminazioni che trovano origine in una concezione dell’atleta ancora sbagliatissima in quanto fortemente stereotipata. In un certo senso, la lotta che noi donne sportive abbiamo davanti non è quella di cercare di equipararci agli uomini ma di scrivere la nostra storia e la nostra narrativa in maniera autonoma e auto-determinata. Solo quando lo sport maschile smetterà di essere il punto d’arrivo, la norma a cui ambire e diventerà soltanto una delle tante possibilità dell’esperienza e capacità umana in senso sportivo, ogni tipo di divario tra uomo e donna smetterà di essere giustificabile e cesserà così di esistere.
***
Articolo di Camilla Valerio

Sono nata a Bolzano, ma vivo a Salerno e amo giocare a basket da ben 19 anni. Ho conseguito una laurea specialistica in Global Studies presso l’Università Karl-Franzens di Graz con una tesi che poi è diventata anche un libro: The Normalization of Far-right Populism. Narratives on Migration by the Italian Minister of the Interior between 2017 and 2018. Scrivo per diverse testate e ho iniziato ad interessarmi al femminismo quando ho capito che tante delle cose che mi facevano arrabbiare avevano un nome, ovvero “patriarcato”. Frequento il Master in Studi e Politiche di genere presso l’Università di Roma Tre.
Un commento