Una santa medievale di epoca contemporanea. Così è stata definita. Una descrizione quantomeno lusinghiera per raccontare una figura sfaccettata, complessa, contraddittoria, che si è mossa nel bianco e nel nero, attraversando zone di ombra e foschia talmente tante volte da rimanerne comunque impolverata. Una figura che ha varcato due età e due mondi, camminando in ciascuno di essi perfettamente a proprio agio, con una sicurezza data dalla profonda sensazione di essere comunque nel giusto, predestinata a qualcosa di grande e per molti e molte incomprensibile. Perché colei che è stata chiamata la santa dei poveri nasce invece in un ambiente e in una famiglia nei quali la ricchezza è un dato di fatto, esattamente come il potere. E nasce a Skopje, in quello che all’epoca è ancora Impero Ottomano ma che, nel giro di pochi anni, finirà per non esistere più.

Una realtà, dunque, che in breve tempo diventa passaggio verso un presente del tutto nuovo. Quando viene al mondo, il suo nome è Anjezë Gonxhe Bojaxhiu. Suo padre è un uomo d’affari importante, un grosso industriale con interessi nell’edilizia e nelle ferrovie, nonché leader del nascente Partito nazionalista albanese. Talmente forti sono i legami della sua famiglia con personaggi di spicco che quando, diciottenne, Anjezë decide di prendere i voti e vola a Parigi per un primo colloquio con l’ordine religioso nel quale vuole entrare — le Suore diLoreto — sarà l’ambasciatore iugoslavo in persona a farle da interprete. Ciò che Anjezë sente, vuole e sceglie, è una vita di missione, lontana, e non solo geograficamente, dalla realtà che ha sempre conosciuto. Dopo Parigi c’è Dublino, due mesi per imparare la lingua inglese, e, infine, dopo ulteriori trenta giorni di navigazione, l’arrivo in India nel gennaio del 1929. Per due anni è una novizia, insegnante nella scuola del convento di Darjeeling, alle pendici dell’Himalaya. Poi nel 1931 diviene finalmente professoressa con il nome di Teresa, in onore di Teresa di Lisieux, la protettrice dei missionari e delle missionarie.

Ha inizio così la prima vita di suor Teresa nel Paese asiatico, vita che la vede impegnata come docente di storia e geografia alla Saint Mary’s High School di Calcutta, un istituto frequentato dalle giovani figlie dei coloni britannici o da ragazze provenienti dalle famiglie locali più altolocate. Nella città indiana, suor Teresa opera dal 1931 al 1948. Sono anni tutt’altro che facili. Anni di passaggio anche questi, trattenuti per le spalle da un periodo che finisce e spinti in avanti dal nuovo che sta arrivando. Nel 1943 il Bengala vive una delle più atroci carestie che la storia umana ricordi, con circa tre milioni di persone morte letteralmente di fame. C’è poi la Seconda guerra mondiale con il bombardamento di Calcutta da parte dell’esercito giapponese. Arrivano la fine della dominazione britannica e l’indipendenza dell’India, nel 1948.

Il mondo intero sta dunque cambiando il proprio aspetto sociale e politico. La contemporaneità diviene attualità stringente. Una cosa, però, sembra non mutare mai: la miseria e le disuguaglianze viaggiano di pari passo con il futuro.
Sempre nel 1948, suor Teresa chiede e ottiene la cittadinanza di questo Paese che è ormai diventato la sua casa e la sua personale missione. Una missione diversa, però, da quella portata avanti fino a quel momento. Nel 1946, infatti, durante un viaggio in treno che da Calcutta la sta portando presso il suo vecchio convento a Darjeeling, ha — quella che lei stessa chiama — la sua seconda chiamata. È stanca di rimaner chiusa nelle aule dell’istituto a insegnare alle giovani di buona famiglia. Vuole andar per le strade, in mezzo alla povertà vera, lì dove il suo contributo, sente, può essere determinante. Impiega due anni a convincere le consorelle dell’ordine e l’arcivescovo di Calcutta a darle il permesso di lasciare il convento pur rimanendo suora. Quando ci riesce, e dopo un breve corso nel quale apprende qualche rudimento di infermieristica, si sente finalmente pronta per quella che lei ha sempre reputato la sua personale crociata. Nel marzo del 1949 viene raggiunta da alcune sue ex allieve della Saint Mary. Si pone dunque la necessità di formare un nuova congregazione, con la sua veste e le sue regole.

Nascono così, anche se l’autorizzazione definitiva arriverà solo con Paolo VI nel 1965, le Missionarie della Carità, il cui compito è quello di assistere gli individui più miseri e bisognosi abbandonati per le vie di Calcutta: i moribondi. La loro prima sede è un edificio di due stanza che il comune concede alla congregazione e che si trova vicino al tempio della dea Calì, la dea nera, terribile e crudele, protettrice della città: è la Casa dei Morenti. Le missionarie operano per dieci anni a Calcutta. A partire dal 1959 si attivano anche in altri luoghi dell’India. Poi, con gli anni Sessanta, arriva la fama internazionale. Madre Teresa diviene un personaggio pubblico. Chiamata a prender parte al Congresso delle donne dell’Azione Cattolica a Los Angeles, il mondo si accorge di lei e lei è ben contenta di presentarsi, cercando e alimentando la sua popolarità: convinta com’è che la propria opera sia diretta volontà di Dio, questo mostrarla significa, in realtà, rivelare un disegno ben più alto e imperscrutabile. A Calcutta arrivano le telecamere, e Madre Teresa si fa filmare mentre assiste un moribondo nei suoi ultimi momenti. E che la donna guardi principalmente l’obiettivo è un dettaglio che non passa inosservato.

Nel 1979 le viene assegnato il Premio Nobel per la pace. Ma le polemiche non si placano né diminuiscono, in controtendenza con le donazioni che, invece, aumentano sempre di più. Donazioni che lei non disdegna mai, indipendentemente da chi le elargisce, sia che si tratti di Jean-Claude Duvalier, dittatore di Haiti, di Enver Hoxha o di Charles Keating, uno dei peggiori truffatori americani, processato nel 1992. Durante il disastro di Bhopal pare abbia offerto preghiere e medaglioni della Vergine, piuttosto che un aiuto economico diretto. Sembra amare non tanto i poveri che assiste, quanto la povertà che essi rappresentano. La stampa medica, fra cui The Lancet e il British Medical Journal, critica pesantemente le cure che i bisognosi e le bisognose ricevono nelle Case della congregazione: aghi delle siringhe riutilizzati, suore e volontari senza alcuna esperienza sanitaria, assenza di dottori che possano almeno distinguere gli inguaribili dai malati con una qualche possibilità. Viene persino accusata di praticare battesimi coatti. Alla sua morte, nel 1997, il conto delle Missionarie della Carità è tra i più ricchi dell’intera banca vaticana, lo Ior. Tutti gli attacchi che le sono stati mossi sono stati respinti da volontari e volontarie, attivisti e giornalisti che con lei hanno lavorato, tra cui anche lo scrittore italiano Tiziano Terzani. Le ombre rimangono. Così come rimane, però, anche l’indubbia determinazione di questa donna, che si è sentita investita di una missione più grande, nel nome della quale ha operato, forse sbagliato, comunque agito. Sempre, questo le va riconosciuto, assolutamente coerente con sé stessa.
Qui le traduzioni in francese, inglese, spagnolo, ucraino.
***
Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.