Da più di 20 anni si occupa di promuovere politiche linguistiche per una maggiore visibilità delle donne nei ruoli dirigenziali, nelle interazioni amministrative e nei media: Giuliana Giusti è professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari Venezia. In quanto anche docente del corso, gratuito e frequentatissimo, sulla piattaforma EduOpen Linguaggio, identità di genere e lingua italiana, giunto alla nona edizione, le poniamo alcune domande su questo aspetto sempre più dibattuto.
Abbiamo pensato di chiederLe questa intervista a seguito delle esternazioni fatte sul palco del concertone del Primo Maggio dalla presentatrice Ambra Angiolini
Ricevo regolarmente queste interviste dopo esternazioni che, però, non conosco perché non seguo, le conosco sempre a posteriori. Mi dica cosa ha fatto Ambra Angiolini.
Ambra ha detto: «Avvocata, ingegnera, architetta. Non è che tutte queste vocali in fondo alle parole sono armi di distrazione di massa? Ci fanno perdere di vista i fatti. In Italia una donna su cinque non lavora dopo un figlio, guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione. Che ce ne facciamo delle parole? Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20 per cento di retribuzione. Uguale significare essere uguale, e finisce con la ‘e’» Lei come reagisce a queste affermazioni?
Innanzitutto questa è un’obiezione vecchissima, che è sempre stata fatta: il benaltrismo. Il linguaggio non fa male a nessuno, in un senso e nell’altro, a noi non serve sprecare tempo con queste questioni, e così via.
La prima cosa da sfatare è che non si chiede una modifica della lingua italiana quando si vuole declinare avvocata al femminile per riferirsi a una donna. Non è una modifica ma una conservazione della struttura linguistica italiana. La modifica, semmai, è quella che per avvocato si accetti anche una referente femminile, mentre per impiegato no. Molti pensano che dire di una donna avvocato sia una forma diconservazione, in realtà è una forte innovazione che non si applica ai nomi che indicano ruoli sociali non prestigiosi.
Il maschile, che è il genere non marcato in italiano, viene riferito a uomini e donne, sia nel plurale, sia nel generico, a gruppi misti come referente singolare non ben identificato e, a ciò, negli ultimi tempi, si è aggiunta la connotazione di prestigio. Questa connotazione è un’innovazione forte.
La domanda che dobbiamo porci è: conviene combattere contro questa innovazione se il linguaggio non modifica la realtà, non aiuta a modificare la realtà? Ci conviene, perché ci piace l’italiano. Non vogliamo modificare la lingua italiana. E poi, siamo sicure che la lingua non abbia nulla a che fare con la nostra percezione della realtà? É chiaro che chiamare una donna avvocata o avvocato non cambia il suo status sociale nel momento in cui pronunciamo la parola. Si tratta di capire se la percezione dell’avvocatura in generale, categoria che allo stato attuale vede presenti più donne che uomini, viene cambiata nella percezione culturale, di chi parla e ascolta, dall’uso costante e immersivo del riferimento maschile per la classe dell’avvocatura. Questo uso non viene fatto per la classe dell’infermieristica, della cura o dell’insegnamento nella scuola e così via.
Abbiamo studi di psicologia sperimentale che ci dicono che un determinato uso linguistico può cambiare la percezione della realtà. Se il riferimento generico è al maschile, la percezione è che ci siano più uomini che donne. Nel caso della professione, la percezione è che quella professione sia più adatta a uomini che a donne o che gli uomini appartenenti a quella professione siano più prestigiosi rispetto alle donne. Questo ci viene confermato da esperimenti. Anche la donna che si fa chiamare avvocato viene percepita come più prestigiosa della donna che si fa chiamare avvocata e, questo, è anche un motivo per non consigliare alla singola persona di usare il femminile perché è chiaro che nella professione ognuna vuole avere il massimo prestigio.
Questo è il motivo per cui molte rivendicano di essere appellate al maschile. Penso anche alla Presidente Meloni.
Certo, percepiscono il maschile come più prestigioso e, questa, è una modifica dell’italiano. Modifica dovuta alla cultura. Si sa che essere uomo è più facile che essere donna nel campo professionale. Da questo si evince che non è vero che il linguaggio non serve a niente, altrimenti nessuna chiederebbe di essere chiamata signor presidente. Oltretutto il nome presidente, come l’aggettivo uguale (usato da Angiolini) può essere maschile o femminile: il presidente o la presidente; una cosa uguale; un oggetto uguale. Ci vorrebbe un piccolo corso di linguistica, di morfologia, che dovremmo avere avuto già alle scuole medie.
Queste sono competenze che Lei insegna e diffonde. Appurato che la comunicazione è molto importante per i personaggi pubblici, politici, e anche per i docenti nelle scuole, come mai l’uso proprio della lingua italiana è andato perso? Perché è stato trascurato, non si è ritenuta importante una formazione specifica e, di conseguenza, si è avuta questa regressione?
Io non penso che sia una regressione. La vera riflessione linguistica scientifica è sconosciuta al sistema scolastico tradizionale italiano. É entrata nella scuola forse più di recente, ma non credo che i nostri genitori l’abbiano avuta e che la struttura gentiliana della scuola ce l’abbia. La concezione scolastica della buona grammatica è puramente normativa: ‘si dice così, si deve dire così, guai a dire cosà’ e, di solito, il ‘guai a dire cosà’ si rivolge a strutture che sono perfettamente coerenti con l’italiano. Prendiamo l’esempio di ‘a me mi hanno visto’. Ci si chiede come potremmo dire altrimenti, visto che, in quel caso lì ‘a me’ è un complemento oggetto e ‘a me hanno visto’ lo trasformerebbe in complemento di termine. Eppure, c’è chi dice ‘a me hanno visto’, ‘a me hanno convocato’, lo sentiamo costantemente nella bocca di intellettuali che sicuramente pensano di fare una riflessione sul proprio italiano e pensano di usare un italiano corretto. L’atteggiamento normativo verso la lingua fa parte della cultura italiana proprio perché la lingua è un oggetto di identificazione culturale e, spessissimo, queste norme non sono mai fondate su osservazioni scientifiche ma su osservazioni, se va bene, estetiche. ‘A me mi’ non si dovrebbe dire perché è una ripetizione: questa cosa è assurda perché le riprese anaforiche vengono fatte obbligatoriamente nel discorso.
Invece che regressione, possiamo dire che non c’è mai stato un progresso. I tempi sono cambiati, la linguistica è diventata negli ultimi 200 anni una scienza vera, ma questi progressi scientifici non hanno penetrato l’atteggiamento generale. Non mi riferisco a casi specifici di libri di testo o di docenti, ma faccio riferimento all’atteggiamento culturale generale che viene assorbito e che poi troviamo, appunto, in Parlamento o anche, più in generale, in intellettuali che parlano da fonti radiofoniche colte.
Il concetto di genere è qualcosa di molto, molto recente in Italia. Negli anni Ottanta c’è stato il sasso di Alma Sabatini che ha smosso le acque torbide. Poi però, venuta a mancare quasi subito, non ha potuto promuovere, dalla sua posizione politica privilegiata, il suo lavoro (era stato finanziato dal governo Craxi ed era, quindi, governativo). Dopodiché, mentre si è fatta una riflessione seria sulla declinazione femminile nelle lingue che ce l’hanno (francese, spagnolo, portoghese, tedesco, per citare quelle attorno a noi, lingue europee e lingue coloniali) in Italia, invece, le donne progressiste hanno aderito al maschile di prestigio.
Questa è la storia dell’Italia dagli anni Novanta fino a circa il Duemila. Solo di recente, sulla scorta degli enormi progressi fatti in altri paesi e anche sulla scorta di linguiste come me, come Anna Thornton, Cecilia Robustelli, per citarne alcune, si è un po’ risvegliato l’interesse. Adesso c’è un interesse diverso che, con alcuni nuovi sviluppi, ostacola il femminile.
Nuovi sviluppi riguardanti la ricerca del genere neutro?
La ricerca del genere neutrale, non neutro. Neutro, in tutte le lingue del mondo, dove c’è, fa riferimento a referenti non umani. Ci sono lingue del mondo che hanno referenti umani indifferenziati per genere, per esempio tutte le lingue scandinave o il nederlandese, senza andare tanto lontano, e non lo chiamano neutro. Il neutro fa riferimento a oggetti, a cose inanimate, non umane.
Come si pone nei confronti di queste nuove soluzioni linguistiche?
Queste sono soluzioni linguistiche nuove che vanno trattate come innovazioni. È un concetto completamente diverso dall’uso, molto tradizionale, del femminile declinato per tutte le professioni. L’uso, molto tradizionale, del genere femminile esteso a tutte le professioni è una forma di conservazione dell’italiano senza il bias di prestigio del maschile che è un bias culturale che sta modificando la lingua.
Creare in italiano un genere umano comune, non distinto per maschile o femminile, è un’innovazione drastica, molto importante. Io non sono né a favore né contro. Ci sono dei dati che mostrano che nel momento in cui utilizziamo il femminile, il bias di genere diminuisce, anzi, sparisce.
Se io dico: «la chirurga tal de tali ha fatto questa operazione ben riuscita» non ho nessun tipo di ambiguità, percepisco che è una donna. Invece, se in inglese dico «the surgeon tal de tali» ho sempre bias di genere. Ci sono studi sperimentali che lo dimostrano.
Se chiedo «Draw a Scientist», molti bambini disegnano un uomo e, anche molte bambine disegnano un uomo. Se io chiedessi «fatemi il disegno di una scienziata» scommetto, anche se non è mai stata fatta la prova, che bambini e bambine disegnerebbero una donna perché quello è il significato di scienziata. Per cui, ancora, forse nella cultura italiana serve tanto il femminile per le donne.
Non sono né a favore né contro il considerare le persone non binarie come una minoranza che non ha il diritto di cambiare la lingua, hanno tutto il diritto di usare la lingua nel modo in cui meglio la percepiscono come autorappresentazione. Ci sono però alcuni rischi che vorrei esporre a questa comunità alla ricerca di una propria rappresentazione linguistica, a dimostrazione che la rappresentazione linguistica identitaria è importantissima.
– Il formare le forme neutrali sulla base del maschile. Facendo riferimento a come funziona il cervello umano, è facile ipotizzare che la differenza tra [o] e [ə] non verrà percepita. Verrà percepito, capito, quel maschile che conosciamo molto bene e che è, tra l’altro, il nostro concetto base, il nostro concetto non marcato. Quindi, se possibile, anziché formarle sul maschile, formarle sul femminile, dato che spesso non c’è una terza via di formazione che vorrebbe dire cambiare ulteriormente la parola. Faccio l’esempio dei nomi in -tore: se dico lavoratorə penso a lavoratore, non penso a lavoratrice. Potrebbe essere lavoratricə. Sulla base dei pochi studi che ho fatto sulle manifestazioni di questa sperimentazione, molte parole sono basate sul maschile e questo non migliora nessuna delle condizioni che vogliono essere migliorate. A quel punto si potrebbe usare il maschile anche per le donne.
– In aggiunta, in inglese c’è la possibilità di scegliere quale usare tra i pronomi, he, she o they. In italiano loro assomiglia tanto a they, è l’unico pronome che non ha una diversa declinazione di genere. Questa cosa, per esempio, di usare il pronome ‘loro’ singolare per persone che non si identificano in ‘lui’ e in ‘lei’, non è mai stata proposta e non capisco perché. I pronomi sono importanti e usare un pronome esistente è meglio che usare un pronome di nuova formazione perché i pronomi sono parole funzionali che, di solito, non sottostanno a nuove formazioni.
– La terza cosa, a cui bisogna fare attenzione, è usare questi mezzi in modo coerente. Usarli, cioè, non una volta, in un punto, e poi più nella pagina. La coerenza è fondamentale perché la lingua è un sistema, non basta usare una schwa qui e là. Bisogna usarla in modo assolutamente coerente. Capisco che bisogna usarlo, si inizia a usarlo nello scritto proprio perché, essendo forma nuova, non siamo madrelingua di quella forma, la stiamo imparando e le forme si acquisiscono con l’uso.
– Quarto punto: utilizzarlo anche nell’orale perché fino a quando non esiste anche nell’orale non verrà mai trasmesso alle nuove generazioni che acquisiscono la lingua dall’orale. Di recente sono stata a un Festival della lingua italiana a Firenze dove tutti parlavano del linguaggio inclusivo, ho sentito tante persone che sono a favore ma poi non lo usano parlando. E lo capisco perché al momento non esiste, quindi, non possiamo pensare di usarlo. Io, linguista, non militante in questo senso, non posso pensare di usare qualche cosa che ancora non esiste. Quando esisterà potremo studiarlo e analizzarlo.
Possiamo trarre l’aspetto positivo: problemi che, in passato, non ci eravamo neppure mai posti adesso vengono discussi e articolati. Questi sviluppi ne sono la dimostrazione.
Questa è la visione positiva. Quello che è importante è che non si risolva come una diatriba sterile tra femministe vecchie e femministe nuove. La società civile è molto sensibile al mantenimento dell’italiano come strumento identitario. Secondo me è questa la leva giusta che va usata a favore del femminile contro il maschile come genere di prestigio. Se invece basiamo tutto sull’uso del femminile o sull’uso della schwa rischiamo di spostare l’argomento a una questione di nicchia, non ancora risolta e facciamo un balzo indietro di trent’anni.
Si può utilizzare il plurale femminile inclusivo?
Il plurale femminile inclusivo è una innovazione, meno costosa dal punto di vista dell’innovazione di una schwa o di una declinazione nuova. Secondo me si può usare, sempre sapendo che è un’innovazione. Quando noi comunichiamo facciamo degli statement, delle dichiarazioni politiche. Anche Ambra Angiolini quando ha fatto quella dichiarazione, in realtà ha fatto una dichiarazione politica: «io sono da quella parte, non da quell’altra». Io stessa uso, spesso, il femminile come genere non marcato negli articoli scientifici, magari lo metto in nota se scrivo in italiano, ovviamente. Per esempio, nell’articolo Inclusività della lingua italiana, nella lingua italiana: come e perché. Fondamenti teorici e proposte operative (https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n48/05_Giusti.pdf), uso il femminile. Questo perché spesso, nel generico e nell’impersonale, includiamo noi stesse. É uno statement politico che dipende dal tipo di comunicazione che vogliamo fare. Se lo faccio io in prima persona, posso dire dove sono inclusa e metto il femminile plurale, tenetelo presente e, una volta tanto, chi è uomo si senta incluso. Di contro, nelle istruzioni di un frigorifero non lo metterei, a meno che non sia una marca che si chiama “Frigorifera”. Con la lingua si può giocare quanto si vuole, perciò se, per esempio, su Vitamine vaganti voglio usarlo, visto che si tratta dell’associazione di Toponomastica femminile, visto che probabilmente le socie sono in numero superiore ai soci, si può dire: «la politica di ogni articolo, oppure, addirittura dell’intera testata, è questa».
Dato che la comunicazione è uno scambio, come interpreta quelle situazioni in cui una persona usa il maschile e l’altra il femminile per riferirsi allo stesso oggetto del discorso? Può verificarsi un’imposizione dell’uso di una forma sull’altra? Come si può mediare?
In questi casi, come quando si va da un’avvocata, e l’avvocata stessa si definisce avvocato, ognuna/o usa la propria politica comunicativa. Le si può spiegare le proprie ragioni. Dipende anche dal contesto, non c’è nessuna soluzione valida al 100% per tutti i contesti, perché la lingua è fatta così. La lingua interagisce con la nostra identità culturale, con la nostra identità personale, con le nostre convinzioni politiche, comunicative, e poi ha una sua struttura. L’importante, e questo è quello che cerco di fare io con il Mooc, è di rendere coscienti le persone di qual è la struttura della lingua italiana e, poi, di aiutarle a rispondere a queste obiezioni, come quelle di Ambra Angiolini, che non sono basate su fatti linguistici ma frutto di una riflessione linguistica di pancia e non di scienza.
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Articolo di Michela Di Caro

Originaria di Matera, vivo a Firenze da 15 anni. Studente, femminista, docente di sostegno di Scuola secondaria di II grado, sono fisioterapista libera professionista e mamma di tre piccole donne.