Media e diversità. Babadook, tra horror e maternità

Se è vero che i prodotti artistici e culturali sono un’occasione di proposta e discussione socioculturale, potenzialmente capaci di restituire al pubblico tematiche non convenzionali o sconosciute nel panorama mainstream, allora è altrettanto vero che il prodotto cinematografico è decisamente un ottimo pretesto per instaurare un dialogo e sollevare questioni idealmente in grado di raggiungere audience sempre più ampie. Raccontare una storia in modo esemplare e allo stesso tempo originale non è un’impresa da poco conto in un ambiente mediale colmo di voci e punti di vista; ugualmente non lo è lavorare a un lungometraggio cinematografico che sia un’occasione di intrattenimento e allo stesso tempo di discussione sociale e culturale. Rispetto all’opera d’arte visiva, sembra ancor più complicato restituire alla collettività un prodotto che sappia coniugare in modo deciso ed emblematico la dimensione ludica con quella sociale, risultando in un film che sappia coinvolgere lo spettatore in una spirale di riflessione significativa.

In questa direzione va inteso il tentativo di Jennifer Kent, attrice, sceneggiatrice e regista australiana, che nel 2014 debutta al cinema con il lungometraggio horror Babadook. In pochi anni il film sembra essersi guadagnato l’etichetta di cult, sia per l’enorme successo riscontrato che per la talentuosa regia di Kent. Babadook, prodotto da Causeway Films eSmoking Gun Productions, è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival del 2014 e immediatamente acclamato dalla critica in Europa e negli Stati Uniti. Per comprendere come questo lungometraggio affronti il tema della diversità in un modo non solo innovativo, ma soprattutto autentico e genuino, occorre analizzarlo dal punto di vista della trama e delle scelte tecniche, stilistiche e simboliche della regista.
Il film si apre con un primo piano su Amelia Vanek, interpretata da Essie Davis, profondamente scossa da un incubo apparentemente casuale e caotico. Il sonno è interrotto dalla richiesta di aiuto di suo figlio Samuel, interpretato da Noah Wieseman: la donna accorre e decide di calmare il bambino con la lettura di un libro. Inizia così l’esplorazione dell’ambiente domestico e famigliare di Amelia e Sam, e l’avanzare della pellicola ci restituisce dettagli sulle loro vite. «Il mio papà è al cimitero. Un incidente mentre portava la mamma all’ospedale per avere me» – «La tua mamma allora è molto fortunata ad avere te, no?». Questo ordinario scambio di battute tra il piccolo Sam e una sconosciuta in un supermercato ci fa scoprire che Oskar, il marito di Amelia, è tragicamente morto sei anni prima mentre i due si recavano in ospedale per far nascere loro figlio. Ma una lettura della situazione ancor più attenta e indagatrice ci fa riflettere anche sulle parole della donna sconosciuta se accompagnate dalla visione del volto di Amelia, profondamente stanco, provato e impassibilmente accigliato dall’enunciazione di quelle parole così stereotipiche e taglienti: «La tua mamma allora è molto fortunata ad avere te». La vita dei due protagonisti si caratterizza sempre di più: Amelia è un’infermiera sovraccarica di lavoro, apatica e profondamente depressa, non ha mai elaborato il trauma della perdita di suo marito e appare completamente assuefatta dalla condizione psicologica in cui si trova; Samuel risente delle emozioni estremamente negative della madre, ha comportamenti così aggressivi e violenti da venire allontanato dalla scuola, sogna mostri che vogliono fare del male a lui e sua madre, perciò giura continuamente di proteggerla.

Libro rosso Mister Babadook

L’elemento horror comincia a farsi strada quando Sam decide di voler leggere insieme a sua madre il libro pop-up Mister Babadook: un mostro in smoking e cappello con lunghe dita e unghie affilate, che bussa alla porta dei bambini per stringere amicizia. I due sono profondamente turbati dalla lettura, ma è solo l’inizio del dramma horror, poiché cominciano ad essere tormentati dalla figura mostruosa e dal suo continuo bussare alla porta. La situazione degenera rapidamente perché l’ossessione del bambino nei confronti di Mister Babadook provoca un peggioramento dei sintomi depressivi di Amelia, profondamente ferita e isolata dall’ambiente sociale circostante: mamme snob e borghesi preoccupate della loro linea e del loro tempo libero, educatori e assistenti sociali superficialmente interessati alla situazione famigliare, poliziotti che ridacchiano alla vista di una donna fisicamente e psicologicamente provata che chiede loro aiuto credendo di essere vittima di stalking e di intimidazioni. È chiaro che Mister Babadook sia un riflesso della psiche della nostra protagonista: un dolore latente a cui ci si è assuefatti pur di non affrontare il trauma della perdita; il senso di colpa di chi sopravvive ed è costretto a proseguire la propria vita, in questo caso una madre che mette da parte la propria salute mentale e fisica per dedicarsi completamente a suo figlio, colpevole di ricordarle ogni giorno il suo defunto marito. Il Babadook rappresenta il risentimento, il dolore, la consapevolezza di non essere in grado di riconciliarsi con la propria storia, lo strazio di non poter dimenticare e la gioia dolceamara di aggrapparsi al tesoro della memoria.
Amelia è una madre volenterosa di affrontare la propria vita in modo sostenibile a livello psicologico e fisico, ma la mancata elaborazione del lutto, la necessità di occuparsi al meglio di suo figlio e l’ambiente circostante estremamente superficiale e avverso la rendono un’outsider, una diversa da guardare con gli occhi della compassione e dello scherno. È una madre che non si ritiene affatto fortunata, poiché ha avuto suo figlio mentre perdeva suo marito per sempre. È una madre disposta a “lasciar entrare” Mister Babadook nella sua casa e nel suo corpo pur di proteggere suo figlio.

Scena della vasca

L’ultimo atto del film raggiunge picchi altissimi di cinematografia: il Babadook si è ormai impossessato della casa e del corpo di Amelia, e lo ha fatto gradualmente, in silenzio, giorno dopo giorno e un sintomo alla volta, finché non ha completamente investito corpo e psiche della donna. Nonostante gli scatti d’ira, l’insonnia, il malessere generale, la protagonista è perseguitata dal pensiero di assassinare suo figlio, a dimostrazione che, persino nel momento più tragico e buio della sua depressione, la sua unica volontà è quella di tenere al sicuro Sam. Il carattere realista e di presagio della pellicola si avverte soprattutto dalle scelte stilistiche di Kent: nessun jumpscare, nessun rumore improvviso o musica frastornante, persino le vere sembianze del mostro non vengono mai mostrate nella loro interezza. Percepiamo il Babadook così come lo percepiscono Amelia e Sam, una presenza inquietante e minacciosa, che ti tende la mano per poi afferrarti con veemenza e impadronirsi di te, un fantasma del passato impercettibile e trascurabile finché non è ormai troppo tardi per correre ai ripari. Non resta che affrontarlo, affrontare le proprie paure e il proprio passato, accettare con consapevolezza di meritare una vita nuova, serena, all’altezza della propria famiglia e della propria memoria. Nel climax finale Amelia ha una visione di suo marito, e comprendiamo finalmente quale incubo la turbava all’inizio del film, l’immagine di suo marito appena prima di morire tragicamente, mentre la rassicurava a proposito dell’imminente parto. La protagonista compie la sua scelta: abbandona il ricordo insanguinato e crudele di suo marito per abbracciare la giovinezza e l’amore di suo figlio, sconfiggendo così il Babadook. 
La sequenza finale merita particolare attenzione. Amelia e Sam sembrano sereni, e in un colloquio con gli assistenti sociali si ripropone un dialogo già familiare: «Mio marito è morto nel giorno in cui Sam è nato» – «Un incidente mentre portava la mamma all’ospedale per avere me» – «Sam è proprio come suo padre. Dice sempre quello che pensa». I due protagonisti sembrano a loro agio nell’enunciare un dolore che fino a poco prima stava per divorarli. Amelia sembra aver accettato la perdita, e il dialogo mostra anche un cambio di prospettiva fondamentale nel percorso verso la guarigione: la donna non sembra colpevolizzare o demonizzare suo figlio, ma ha raggiunto un equilibrio emotivo tale da riuscire a parlare del tragico passato senza esserne perseguitata. E la conferma di tale accettazione e consapevolezza viene in ultimo dimostrata da una simbologia tanto commovente quanto inquietante: il Babadook vive nel seminterrato e i due protagonisti se ne prendono cura, lasciando intendere che così sarà per sempre. Tale punto di vista è ciò che ha reso la pellicola di Kent unica nel suo genere: il mostro è stato domato, non sconfitto; il passato è stato affrontato, non cancellato; la depressione è stata accettata, non sottovalutata. 

Scena dell’abbraccio finale

La storia di Amelia è la storia di una madre costretta a rifugiarsi in se stessa pur di non soccombere alle violenze del mondo reale. Una madre dilaniata dal senso di colpa: piangere la morte del marito disturbando gli equilibri famigliari o dedicarsi completamente al figlio fingendo di stare bene? Adeguarsi alle norme sociali che la vogliono sorridente, ma remissiva, forte, ma addolorata, mamma e lavoratrice a tempo pieno, oppure rifugiarsi nelle mura domestiche sino a scomparire nell’abisso della depressione trascinando con sé il bambino innocente? Babadook e la sua regista Jennifer Kent ci dimostrano che leggere la realtà secondo categorizzazioni dicotomiche ed essenzialistiche non è mai una scelta naturale, bensì dettata dai rapporti di potere che investono l’arena della socializzazione e travolgono quanti e quante siano alla deriva nell’oceano dell’omologazione. Che la maternità possa avere innumerevoli facce e dimensioni è un dato di fatto, fortunatamente sempre più incluso e proposto dalle narrazioni mediali informative e d’intrattenimento; la peculiarità di Babadooksta nella scelta di raccontare le vicende più intime e macabre della vita di una madre che lotta contro il pregiudizio, il sessismo, l’essenzialismo e gli stereotipi, i veri mostri della nostra realtà. 

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Articolo di Giacomo di Benedetto

Laureato in Lingue, Culture, Letterature, Traduzione e attualmente iscritto a Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Si sta specializzando in linguaggi espansivi e narrazioni decisive per la ridefinizione dei ruoli socioculturali all’interno dell’arena di genere, comprensiva di tutte le diversità sottorappresentate dal sistema mediale.

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