Uno sguardo nuovo sul 25 Aprile. Le donne della Resistenza

Benedetta Tobagi, classe 1977, scrittrice, giornalista, filosofa e storica milanese, da sempre divulgatrice di storia del terrorismo, firma per Einaudi una raccolta commentata di testimonianze potentissime e sconvolgenti di partigiane italiane. Il suo La Resistenza delle donne, appena uscito in libreria, rappresenta un carosello emozionante, vero come solo le narrazioni in prima persona possono essere, di storie che, intrecciandosi, tratteggiano un’immagine del tutto lontana da ogni retorica di ciò che è stato il volto femminile della resistenza nei mesi che vanno dal settembre del ’44 all’aprile del ’45, dal Nord al Sud del Paese.

Il testo, splendido, intenso, intervallato da innumerevoli immagini storiche anche inedite, si apre con una analisi attenta del fenomeno di massa del maternage (felice espressione coniata da Anna Bravo), che vede le donne, mentre la guerra arriva alla soglia di casa, aprire la porta all’accoglienza, della cura, della protezione anche a costo della vita. Ma se la lettrice e il lettore pensano di trovare nelle pagine successive l’immagine edulcorata e quasi mariana della donna tutta accudimento e coccole, i ritratti che si susseguono martellanti non tardano a far crollare ogni ingenuità in tal senso. La raccolta è tutta un proliferare di atti di ribellione, di battaglia, di forza, di resistenza a tutto (violenze fisiche e psicologiche, privazioni, torture, stupri) finanche di lotta armata.
Come la testimonianza di Teresa Mattei che, a soli 17 anni, nel liceo di Firenze in cui studia, lascia l’aula in cui il docente sta tessendo le lodi delle leggi razziali, asserendo «Esco, perché queste cose vergognose non le posso sentire». O Tina Anselmi, prima donna ministra della Repubblica, che di fronte all’impiccagione pubblica di 43 giovani a opera dei fascisti spiega come «questo episodio ci obbligò a dare una risposta concreta a un interrogativo che ci ponevamo da molti mesi: cosa possiamo fare? Stiamo qui e guardiamo? Potevamo assistere alla sofferenza, a ciò che avveniva intorno a noi senza fare niente?». Ed è così che la lotta per la liberazione del Paese diventa il contenitore di una infinita miriade di liberazioni personali del femminile dai limiti imposti dalla famiglia, dalla cultura, dalle condizioni sociali, dalla maledizione dell’Angelo del focolare.

Marisa Ombra dà voce a questi sentimenti «Per la prima volta prendevo decisioni importanti, assumevo responsabilità personali impensate fino a quel momento, e me le assumevo da sola (…). Questo sentimento si accompagnava a una sensazione di straordinaria libertà». E ancora «Avevamo fatto il gran salto materiale, dalla ordinata vita quotidiana in famiglia a quella spericolata e massimamente incerta della guerra. Dalla tradizione della ragazza in attesa di marito alla trasgressiva esistenza in mezzo a bande di ragazzi in guerra (…) Una sconfinata libertà stava davanti a noi e al nostro entusiasmo». Non è faccenda da poco, negli anni Quaranta, accettare la promiscuità delle bande armate. Rispetto agli uomini, le donne che entravano in brigata pagavano, a priori, un prezzo molto più alto, perché la reputazione andava a farsi benedire, in un momento in cui la sola ricchezza di una donna era la sua virtù, difesa e custodita a ogni prezzo.

Nella resistenza, tuttavia, le ragazze si scoprono intelligenti, piene di risorse e capaci di farsi valere e forse questo vale il prezzo delle dicerie che inevitabilmente si diffondono sulle donne partigiane combattenti. Se è vero che lavare, rammendare e cucinare sono funzioni di logistica fondamentali per le brigate partigiane, lo è altrettanto che le donne si prestano anche ad altri incarichi, ben meno tradizionali. Come Olema Righi, nome di battaglia Wanda, icona armata della resistenza modenese o Ida D’Este, staffetta veneziana che impara ben presto come sfuggire ai controlli, fingendosi incinta o abbondando col rossetto.
In quel momento, infatti, incarnare i soliti stereotipi della madre casta o della femme fatale è una rivincita sul fascismo, un modo per rivoltargli contro le gabbie in cui la propaganda ha chiuso le donne. Geniale, no? E chi, se non le donne, poteva arrivare a utilizzare la miopia maschile, frutto dello smisurato orgoglio patriarcale, come strumento di battaglia e di liberazione? Stupendo il racconto della vecchia contadina delle Langhe che, visti arrivare i tedeschi, si china nella stalla a fare la pipì sulla paglia, proprio dove ha nascosto le armi dei partigiani. L’imbarazzo del triplo tabù violato (nudità; bisogni corporali delle donne e anzianità), spinge i soldati ad andarsene senza perquisizione. Non sempre, però, le cose vanno così bene. Ida D’este, Cesarina Carletti e altre pochissime coraggiose, conducono chi legge nella stanza delle torture, là dove vengono spaccate alle resistenti tutti i denti a bastonate, dove si legano cavi elettrici alle caviglie e ai polsi, dove spaccano la testa a legnate, o iniettano sostanze per la sterilizzazione chimica.
Moltissime sono le donne che, dopo aver subito stupri o violenze di ogni genere, appena la guerra finisce manifestano i sintomi di gravi depressioni o esaurimenti nervosi (come allora venivano chiamati). Alcune delle intervistate semplicemente non vogliono parlare delle brutalità subite; altrettante riportano lo stesso vissuto di “uscita” dal proprio corpo, quasi di ascesi, smaterializzazione, unica estrema arma di difesa contro un male troppo grande per essere sopportato con strumenti umani. Ma ci sono anche alcune donne tanto coraggiose, come la bellissima Cleonice Tommassetti, da morire al grido di «W l’Italia!», la patria stuprata che ha un nome di donna.

Nonostante il ruolo fondamentale delle partigiane nella lotta per la liberazione, quando la guerra finisce, alle donne viene chiesto di fare il solito passo indietro. A Torino viene chiesto loro di non sfilare (una cosa contro la quale Elsa Oliva si scaglierà con determinazione e rabbia); a Milano le fanno marciare con la fascia da infermiere, un ruolo socialmente più accettabile. E, in effetti, sono tante le donne disposte ad adeguarsi, a tornare nell’ombra di quel perbenismo che le vuole tutte casa e famiglia, per paura di vedersi rendere la vita impossibile. Il fascismo è morto, ma il patriarcato è ancora ben vivo e vegeto! Così per una Lenuccia Cerasuolo che si fa appuntare al petto la medaglia al valor militare, molte altre si ritraggono in un cantuccio, senza chiedere alcun riconoscimento del proprio contributo alla guerra partigiana. Pensano, tante di loro, di non aver fatto nulla di speciale, di essere state irrilevanti, tanto più che vantarsi di cose ritenute non femminili non sta bene. Si sa che la femmina deve essere mansueta, modesta, umile, portata al sacrificio e al dono di sé. Diciannove sono le donne decorate con la medaglia d’oro per il loro contributo alla resistenza; di queste, quattro sono ancora viventi. Per fortuna, poche tra le poche, alcune hanno continuato la propria guerra di liberazione nei partiti, nei sindacati, nelle amministrazioni pubbliche, a livello locale o nazionale. Tra esse, suonano straordinarie le parole di Lidia Menapace che, rifiutato il grado di sottotenente e il relativo riconoscimento economico, spiega come lei non abbia fatto la guerra come militare e come resti una convinta pacifista. Finita la guerra, insomma, le donne partigiane spariscono dalla narrazione collettiva, chi per scelta chi perché l’imperitura cultura fallocentrica vuole così. «Andavamo bene solo per rischiare la vita! Per il resto, niente!» commenta sarcastica Maria Rustichelli. Forse è anche per questo che alcune partigiane arrivano a invidiare i compagni e le compagne morte, che non hanno dovuto assistere allo strazio dei propri sogni infranti. La strada della liberazione femminile, in effetti, è ancora in salita, benché moltissimo, dagli anni Settanta in poi, sia stato fatto. La resistenza delle donne è un libro che restituisce senso e radici a chi desidera costruire questa strada, non più in sella alla tipica bicicletta delle staffette partigiane, ma con lo stesso determinato sorriso. 

Benedetta Tobagi
La resistenza delle donne
Einaudi, Torino, 2022
pp. 354.

***

Articolo di Chiara Baldini

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Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

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