L’Italiano per migranti

Su richiesta di alcune persone migranti abbiamo avviato dei corsi individuali in una sala studio del centro storico. Come molte altre fornite da istituzioni o da parrocchie, anche questa non è una struttura scolastica vera e propria, ma semplicemente una grande stanza, dove trovano posto qualche scaffale con libri di vario genere, spesso procurati da chi insegna, alcune scrivanie e qualche sedia.
Il mattino è il momento migliore della giornata per la maggior parte delle donne giovani con bambini in età scolare: approfittando della loro assenza, si organizzano per staccare dalle faccende di casa per qualche ora, occuparsi di se stesse e della propria istruzione.
Per chi insegna lavorare in un rapporto individuale, o al massimo con due studenti, riveste un valore particolare: si riesce a creare un rapporto molto stretto, in cui la lingua, quale che sia e in qualsiasi forma la si usi, si fa strumento di confidenze che in un gruppo allargato non si esprimerebbero. Gradualmente dunque, attraverso l’italiano, si tesse un rapporto personale dove talvolta è proprio la lingua stessa a mettere in evidenza aspetti personali dimenticati o trascurati e diventare, in breve tempo, un veicolo sempre più familiare attraverso il quale esprimere esigenze dettagliate, circostanze particolari, eventi trascurati, problemi esistenziali; chi parla perciò si sente protagonista e, forte di questa nuova consapevolezza, prova a narrare la propria storia.

M. ha 37 anni e proviene da un piccolo paese agricolo del sud del Marocco; essendo donna, non è andata mai a scuola e quando è stato il momento adatto la famiglia ha incaricato il fratello, già migrante in Italia, di trovarle un marito. Così 18 anni fa è arrivata in una città del nord per sposare, secondo il rituale della sua religione, uno sconosciuto. Il matrimonio non è stato felice: l’uomo beveva e la picchiava, anche dopo la nascita della bambina che adesso è una ragazza di 15 anni. La famiglia è intervenuta e, rispettando le proprie regole, ha aiutato M. a divorziare ma, non potendo sopportare la vergogna di riportarla al paese con una figlia, le ha trovato un nuovo marito. Impresa non semplice, perché M., reduce da un primo matrimonio, era solo una “seconda scelta”; neppure questa volta, perciò, la giovane donna ha potuto esprimere il suo parere: è stata affidata a un uomo molto più anziano, al quale ha dato un figlio che adesso ha 5 anni. L’uomo, che proviene dalla stessa località del Marocco, è probabilmente apparso alla famiglia come l’unico pretendente possibile: ha accettato di sposare M., è gentile ed educato anche se, pur vivendo in Italia da molti anni, non si è mai integrato del tutto e si destreggia nella quotidianità vivendo di piccoli commerci e lavoretti artigianali; dalle allusioni di M. è però ben lontano da ciò che, se pure confusamente, lei sente di desiderare per sé. M. perciò è una donna inquieta e insoddisfatta, che ha difficoltà a riconoscere i propri desideri quando li percepisce in conflitto con i suoi “doveri” di moglie e di madre; perciò è ben lontana dall’operare delle scelte personali e si limita a immaginare per sé un futuro più autonomo.

Da una parte, in tutti questi anni di permanenza in Italia è riuscita a imparare la lingua abbastanza per gestire la quotidianità; dall’altra, vorrebbe di più per sé stessa: innanzitutto imparare a scrivere, poi trovare un lavoro e infine prendere la patente. La stimolano sicuramente l’esistenza della figlia, ormai adolescente, che frequenta il primo anno di scuola superiore ed è ben decisa a diventare “dottora”; e il figlio piccolo, che cresce rapidamente e che lei vorrebbe seguire al meglio nel percorso scolastico. M. infatti avverte chiaramente la responsabilità della gestione di rapporti con insegnanti, medici, uffici pubblici dove deve sbrigare da sola pratiche spesso complesse; poiché però si percepisce sempre marginale, estranea alla cultura italiana, il suo atteggiamento diventa spesso ostile e sospettoso, teme di non sapersi tutelare ponendo le domande giuste per ricevere le risposte che vorrebbe, se non addirittura di essere ingannata da impiegati e professionisti negligenti. Al di là delle sue ansie però ciò che soprattutto sembra desiderare è una maggiore autonomia, l’affrancamento da tutte quelle figure cui è costretta ad appoggiarsi a causa del suo analfabetismo e che, secondo lei, invece di sostenerla, spesso si interpongono fra lei e la realizzazione dei suoi progetti.

Durante i nostri primi incontri è stato necessario vincere il suo imbarazzo di apprendente adulta: M. continuava a scusarsi per il fatto di essere ancora incapace a scrivere e molto lenta a leggere, nonostante i numerosi anni trascorsi in Italia; non riusciva a giustificare questa “colpevole” mancanza. Inoltre, era quasi impossibile abbinarla ad altre studenti, perché si vergognava di qualsiasi confronto e rifiutava la loro compagnia, anche, o forse soprattutto, perché provenivano dal suo stesso ambiente culturale.
Sono ormai sei mesi che ci frequentiamo e M. procede molto lentamente, scrivendo ancora solo in stampatello maiuscolo, mentre altre e altri studenti, più scolarizzati, hanno chiesto di passare al corsivo; M. sconta la mancanza totale di scolarizzazione e continua a confondere alcune lettere, come capita a chi proviene dall’arabo: le vocali e e i, le consonanti b e p. Non l’aiuta il fatto di essere immersa in un contesto arabofono, sia in casa con la famiglia che nel palazzo, abitato solo da nordafricani. Soprattutto però non l’aiutano l’insicurezza e la sensazione di imparare troppo lentamente, che si riflettono nella sua incertezza di poter realizzare i suoi progetti, ancora troppo vaghi.

Io però la vedo migliorare e lodo i suoi progressi: dal modo di impugnare la matita, che non solca più il foglio ma è diventata leggera; alla scomparsa del cartellone con le lettere, che ricorda quasi tutte; inoltre, si ripete da sola le parole con le doppie consonanti, che nei primi mesi non sentiva affatto; a casa, supera l’imbarazzo sia verso il figlio, che si stupisce a vederla scrivere, sia nei confronti della figlia, cui ha imparato a chiedere aiuto e consigli per i “compiti”. Forti di questi progressi, abbiamo deciso insieme che è giunto il momento di separarci: M. ha accettato di frequentare un corso istituzionale presso un Cpia, superando l’angoscia di trovarsi in classe con altre/i e dover sopportare il confronto. Il corso comincerà a settembre, le permetterà di ottenere un certificato che attesti le sue abilità e, se vorrà, di continuare a studiare e qualificarsi per un mestiere. Abbiamo fatto insieme l’iscrizione on-line, ma è stata lei a inserire tutti i suoi dati, seguendo il procedimento in maniera autonoma e senza esitazioni sul piccolo schermo del mio tablet, finché l’arrivo della mail di conferma al suo indirizzo di posta elettronica le ha dimostrato che l’operazione era andata a buon fine e che era proprio lei la destinataria, e la protagonista, di questa operazione complicata.
Prima di andarsene però ha chiesto conferma di poter proseguire ancora i nostri incontri durante l’estate, per arrivare più sicura al test d’ingresso della scuola, e di poter tornare anche dopo l’inizio delle lezioni, per superare le prime difficoltà o semplicemente raccontare la sua nuova esperienza in una vera scuola.

***

Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.

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