Inquadrare in sintesi un secolo come il XIX è arduo se non impossibile.
Fermo restando che ogni periodo precedente a esso è portatore di cambiamenti e ribaltamenti nella storia (basti pensare alle tante rivoluzioni: la rivoluzione del Neolitico, l’anno Mille, la rivoluzione scientifica, le rivoluzioni francese e americana, la prima rivoluzione industriale), è indubbio che, a partire già dalla fine del Settecento, il secolo che si apre con la crisi dell’Illuminismo e l’incoronazione di Napoleone sia stato uno snodo fondamentale per il cammino dell’umanità verso la contemporaneità.
È un secolo diviso a metà, con una prima parte in cui si prepara il terreno ai cambiamenti ineluttabili che, nella seconda parte, traghetteranno l’Europa verso il Novecento.

In ambito letterario e artistico, la ricchezza di questo arco temporale è veramente straordinaria. Nel 1802 viene pubblicata l’edizione completa del romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, romanzo epistolare in cui – al di là del significato storico-politico – leggiamo di una struggente storia d’amore tra due giovani che, pur amandosi, non possono realizzare il loro desiderio di stare insieme, perché a Teresa il destino è già stato scritto: deve sposare il ricco e aristocratico Odoardo e a questo programma già predefinito la ragazza sacrifica la sua felicità e le sue personali volontà, né tantomeno Jacopo può offrirle una valida alternativa. Dunque, i rapporti tra generi sono rappresentati con lo schema ormai tramandato da secoli: c’è una coppia che vorrebbe realizzare il suo sogno d’amore, ma le convenzioni sociali non lo permettono. Inutile sottolineare che tali convenzioni ingabbiano essenzialmente la condizione della donna, che in moltissimi casi non è libera ancora di sposare chi desidera.

Con il Romanticismo assistiamo a una svolta nei costumi e negli schemi stereotipati delle relazioni. Per i romantici, infatti, l’amore è un sentimento assoluto, totalizzante, che esula dalle convenzioni sociali, e ciò è valido anche per le donne, che partecipano al circolo di Jena manifestando libertà ed emancipazione nelle scelte e nei comportamenti privati e pubblici.

Già Schlegel scrive a fine Settecento il saggio Su Diotima e il romanzo Lucinde, nei quali le donne protagoniste rivendicano il loro diritto ad autodeterminarsi attraverso il piacere dei sensi e la passione amorosa. In realtà, a fronte di una presenza attiva di donne nel panorama culturale di questo secolo (si pensi anche solo alla fervente presenza di Madame de Staël), la rappresentazione delle “donne di carta”, nella letteratura, resta legato all’immagine che abbiamo seguito lungo i secoli fino a questo momento (si legga l’esauriente sintesi della condizione della donna nell’Ottocento nell’articolo di Florindo Di Monaco sul numero 177 di vitaminevaganti).
Non si può prescindere, in questa ottica, da una rilettura del più grande classico ottocentesco della nostra letteratura italiana, I Promessi sposi. Da insegnante, sono convinta che la presenza di questa opera nel canone letterario e scolastico sia assolutamente necessaria e dissento con correnti di pensiero didattico e pedagogista che ne auspicano l’elusione. Il grande romanzo manzoniano permette, ancora oggi, di attivare nelle giovani generazioni una serie di riflessioni molto interessanti, seppur con la dovuta mediazione didattica tra un’opera lontana nel tempo e nella lingua e il contemporaneo pubblico adolescenziale scolastico. Quella che, però, deve – a mio avviso – necessariamente essere attivata è una rilettura che mostri ciò che suggeriva il prof. Pietro Cataldi (Università per stranieri di Siena) nel suo intervento intitolato Cambiare prospettiva: le donne della letteratura, in occasione del convegno di studi dal titolo Scrittrici italiane dal Novecento a oggi, realizzato dall’Associazione Zefiro di Monza, in collaborazione e con il patrocinio del Collegio Ghislieri di Pavia, tenutosi il 12 e 13 maggio 2022: partendo dalla considerazione che si debba aggiornare e ampliare il cosiddetto canone letterario, Cataldi ha affermato quanto sia assolutamente necessario operare un cambio di prospettiva per coloro che insegnano letteratura (aggiungerei a scuola quanto all’università), ovvero mettere in rilievo quanto il modello patriarcale abbia provocato ferite enormi nelle nostre società, che continuano a sanguinare ancora oggi. È necessario, dunque, un consapevole riconoscimento della violenza patriarcale perpetrata in moltissime opere letterarie. La vicenda dei Promessi sposi ne è l’esempio: cosa è se non la storia di uno stupro mancato ai danni di una povera e umile ragazza del popolo, priva di strumenti adeguati per potersi difendere? Manzoni stesso sottolinea l’atteggiamento violento e l’uso dello stupro ai danni delle donne come strumento di sottomissione da parte dei soldati spagnoli nel Seicento: «Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre». Il narratore milanese usa, però, lo strumento dell’ironia – un po’ come Ariosto nell’Orlando furioso: ci chiediamo se sia una situazione da fotografare ancora oggi con (amaro) riso o con una riflessione più profonda su come i conquistatori, maschi e spesso bianchi, adoperano sistematicamente gli stupri di guerra come mezzo per sfregiare, ferire, sottomettere, annientare una popolazione, colpendola sempre nella sua parte femminile (a tal proposito, si consiglia come approfondimento la lettura del libro di Michela Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45), Einaudi, Torino 2021).
Lo stesso personaggio di Lucia è riflesso di un modo di percepire la donna come figura compita, premurosa, devota verso la famiglia, irremovibile nella sua religiosità naturale. Sia chiaro: non è un male essere e rappresentare tutto ciò, ma è fuorviante presentarlo – nella storia come nella letteratura – come l’unica via possibile (e completa) per la realizzazione del proprio sé femminile e per l’ottenimento di quella particolare aura di protezione con la quale la Provvidenza manzoniana mette sotto la sua ala le fanciulle come Lucia Mondella.

Non se la passa altrettanto meglio l’Ermengarda dell’Adelchi, tragedia dai profondi significati, sempre attuali, come si deve a un classico di definizione calviniana: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (da Italiani, vi esorto ai classici di Italo Calvino, L’Espresso, 28 giugno 1981).
La giovane sposa di Carlo futuro Magno viene spietatamente ripudiata dal re dei Franchi per calcolo di opportunità politica, ma, nonostante l’umiliazione subita, si lascia morire in preda al dolore lancinante che prova per essere ancora sentimentalmente legata al suo sposo: «Sgombra, o gentil, dall’ansia/mente i terrestri ardori;/leva all’Eterno un candido/pensier d’offerta, e muori:/fuor della vita è il termine/del lungo tuo martir». Insomma, il messaggio è: dimentica la passione amorosa, non tormentarti più di tanto, e muori serena, perché il paradiso è la degna meta delle tue sofferenze. Magra consolazione, direi!
(Tutti i corsivi nelle citazioni dei testi sono dell’autrice dell’articolo).
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.