Il dibattito sulla partecipazione delle persone transgender, in modo particolare delle donne trans e iperandrogine, nelle competizioni sportive si è riacceso qualche settimana fa con la decisione del World Athletics. Attraverso le parole del suo presidente, Sebastian Coe, la Federazione internazionale dell’atletica leggera ha stabilito che «la biologia ha la meglio sul genere» e che quindi le atlete trans che hanno trascorso la pubertà in un corpo maschile non potranno più gareggiare con le donne. Questa decisione è avvenuta in controtendenza con il comportamento del Comitato olimpico internazionale (Cio). Questo ente aveva garantito la partecipazione alle Olimpiadi delle persone trans già dal 2003 e negli anni ha decisamente ammorbidito le sue posizioni eliminando, ad esempio, l’obbligo di operazione ai genitali per atleti e atlete trans e introducendo dieci linee guida (non vincolanti) basate sulla parità e l’inclusione. Tra le volontà più importanti c’è sicuramente quella di evitare assolutamente test come il controllo dei genitali (molto frequente in passato) per verificare il genere. Esortate dal Cio stesso, sono state varie le federazioni in tutto il mondo che in questi anni si sono pronunciate sul tema. In Italia, ha fatto particolarmente notizia la decisione della Federazione degli sport acquatici (Fina) che renderà possibile la partecipazione delle donne transgender solo se queste hanno iniziato la transizione prima dei dodici anni, quindi della pubertà.
Di recente i casi che hanno fatto più scalpore sono avvenuti sicuramente su scala internazionale a partire da Caster Semeneya, la campionessa di atletica leggera intersessuale a cui è stato impedito di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo perché i suoi livelli di testosterone erano troppo alti. Fortissima è pure la polarizzazione su questo tema nel contesto americano dove tra il 2021 e il 2022 molti Stati hanno legiferato per vietare alla persone transgender la partecipazione a competizioni sportive, anche solo a livello scolastico e universitario. La nuotatrice Lia Thomas, prima donna trans a vincere un titolo nazionale, ha visto la sua vittoria disconosciuta da Ron DeSantis – governatore del suo Stato ovvero la Florida – e dallo stesso Donald Trump. Entrambi si sono congratulati direttamente con la seconda arrivata, ignorando il posizionamento di Thomas.
Il filo rosso alla base di tali decisioni restrittive è l’idea che una donna trans o iperandrogina abbia un vantaggio tale nel competere contro altre donne da mettere in discussione l’equità della competizione. A questo punto però è giusto chiedersi: ma è veramente così? Gli studi scientifici che cosa ci dicono? Estromettere praticamente tutte le donne trans dalle competizioni, quindi preservare l’equità della competizione sull’inclusione e la non-discriminazione, è l’unica soluzione che abbiamo? Iniziamo col dire che la discriminazione che subiscono le persone trans o intersessuali nell’ambito sportivo, ma anche nella vita di tutti i giorni, è dovuta principalmente al sistema binario che contrappone (e gerarchizza) le categorie di maschio e di femmina secondo un’assegnazione che avviene alla nascita in base agli organi riproduttivi. Questa convenzione sociale fortemente invasiva nelle nostre società fa sì che – come descrive perfettamente Silvia Nugara – «fino ad oggi lo sport ha preferito imporre categorie convenzionali ai corpi reali facendo fuori quelli scomodi invece che elaborare le categorie sulla base dei corpi esistenti».
Scavando più a fondo e cercando di superare una visione semplicistica e semplificata dell’esperienza transgender nello sport ci sono vari elementi da prendere in considerazione. Come ci spiega molto bene Il Post in Cose spiegate bene. Questioni di un certo genere il problema principale ruota intorno al fatto che «ad oggi ci sono poche ricerche sulle atlete e gli atleti trans, di qualsiasi livello: il loro numero non è ancora sufficiente per creare un vero e proprio campione statistico dal quale trarre conclusioni». Anche per questo, ad esempio, il Comitato olimpico ha ricordato, tra le linee guida, l’importanza di ricorrere a dati scientifici. In termini generali, comunque, esistono pareri contrastanti rispetto alla questione del vantaggio di cui gioverebbero le donne trans nelle gare femminili. L’impatto delle terapie ormonali sui corpi delle atlete trans non è stato studiato in maniera così dettagliata da poter considerare in che misura i vantaggi dati dal testosterone, la massa muscolare o l’emoglobina rimangano o si attenuino col passare del tempo. Inoltre, Joanna Harper, medica sportiva che ha dedicato tantissimo tempo a questo tema, suggerisce, in maniera molto netta, che i regolamenti dovrebbero guardare sport per sport basandosi principalmente sulla ricerca e l’analisi dei dati. In modo assai interessante, in una recente intervista, lei parla di «concorrenza significativa» dicendo che di fatto nella pratica sportiva alcuni vantaggi sono già permessi: «per esempio, nel baseball, la configurazione a diamante offre molti vantaggi ai giocatori mancini rispetto ai giocatori destrimani. Eppure, questo è un vantaggio che permettiamo. D’altra parte, non permettiamo ai pugili pesi massimi di salire sul ring con i pugili pesi mosca. Ed ecco la differenza importante. Possiamo avere una competizione leale tra giocatori di baseball mancini e giocatori di baseball destrimani, nonostante i vantaggi. In effetti, molti direbbero che la combinazione di mancini e destrorsi è uno dei fattori più importanti nel baseball. Ma non c’è competizione leale tra pugili grandi e pugili piccoli, il pugile grande vince ogni volta».
In linea generale comunque, quando si tratta il tema delle donne transgender e iperandrogine nel mondo sportivo, si deve prima di tutto liberare il campo da proclami di carattere transfobico che tendono a suggerire che esisterebbe un rischio che le donne trans assumano il controllo dello sport femminile. La maggior parte di coloro che dichiarano, attraverso l’emarginazione delle atlete trans, di voler salvare lo sport femminile non ha mai cercato neanche lontanamente di far qualcosa per risolvere i problemi che le sportive già incontrano da sempre: divario salariale di genere, limitata copertura mediatica, sessualizzazione dei corpi e così via. Succede molto spesso, inoltre, che se interpellati, coloro che sostengono queste posizioni non hanno quasi mai dati ed esempi a supporto ma condannano a prescindere la loro presenza.
In conclusione, comunque, è importante ricordare che insieme alle linee guida del Cio ci sono altri elementi positivi che lavorano a favore dell’inclusione delle persone trans, non binarie o intersessuali nello sport. La Uisp ha attivato già dal 2017 un percorso chiamato Alias che consente di tesserarsi utilizzando l’identità di elezione, senza dover attendere il cambio ufficiale dei documenti – molto spesso un iter giudiziario lungo e faticoso. In Germania, invece, la Federazione calcistica nazionale ha deciso che tra dilettanti e giovani, le persone non cisgender potranno decidere liberamente se giocare in una squadra maschile o femminile e cambiare in qualsiasi momento. Infine, ritornando nel nostro Paese, l’ammissione di Valentina Petrillo – velocista ipovedente – come prima atleta transgender in una gara ufficiale tra donne, pur non avendo ancora ratificato i documenti, è una iniezione di fiducia e di speranza verso un cambio di approccio e narrazione, come ci ricorda lei stessa: «mi auguro che la mia scelta ora possa essere d’aiuto per abbattere certi preconcetti e dare lustro alla nostra categoria: io sono una persona pulita che fa sport, ma spesso l’immagine delle persone trans è collegata a situazioni poco edificanti». È bene, quindi, che ognuna/o di noi inizi a recitare la propria parte per garantire un diritto come quello allo sport, che è soprattutto veicolo fondamentale di felicità, socialità e autostima.
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Articolo di Camilla Valerio

Sono nata a Bolzano, ma vivo a Salerno e amo giocare a basket da ben 19 anni. Ho conseguito una laurea specialistica in Global Studies presso l’Università Karl-Franzens di Graz con una tesi che poi è diventata anche un libro: The Normalization of Far-right Populism. Narratives on Migration by the Italian Minister of the Interior between 2017 and 2018. Scrivo per diverse testate e ho iniziato ad interessarmi al femminismo quando ho capito che tante delle cose che mi facevano arrabbiare avevano un nome, ovvero “patriarcato”. Frequento il Master in Studi e Politiche di genere presso l’Università di Roma Tre.