Carissime lettrici e carissimi lettori,
era il 25 giugno, un sabato estivo, forse già molto caldo, dell’anno domini 1678. Tutto questo succedeva a Padova. Una giovane donna della nobiltà patavina, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, diventava la prima donna al mondo a conseguire una laurea. Elena era nata, a Padova, nel 1646 e aveva trentadue anni quando entrò nel «sacello della beatissima Vergine Maria» per discutere la sua tesi. «Fin da piccola — così come viene descritta dalla sua università — aveva mostrato un’inclinazione per lo studio, che la madre non aveva ostacolato e il padre decisamente incoraggiato. Superati i trent’anni, è nota ormai per la sua profonda conoscenza del greco, delle scienze, della filosofia e della teologia». Tra i suoi maestri c’era Carlo Rinaldini, «che aveva servito due papi, insegnato a Pisa, reso edotto Cosimo III, Granduca di Toscana, e scritto un libro, Philosophia rationalis, atque entità naturalis, che lo ha reso oltremodo degno di salire sulla prestigiosa cattedra patavina».
Elena Lucrezia tratta di due tesi di Aristotele, che, a Padova, in quel sabato di giugno di circa mezzo millennio fa, discute in maniera così magistrale da meritare per acclamazione il titolo di “magistra et doctrix in philosophia”. È la prima volta che questo titolo viene assegnato a una donna nella storia delle università europee: «Le furono pertanto consegnate le insegne del suo grado, del tutto simili a quelle dei colleghi maschi: il libro, simbolo della dottrina; l’anello per rappresentare le nozze con la scienza; il manto di ermellino, a indicare la dignità dottorale, e la corona d’alloro, contrassegno del trionfo. Dell’evento si parlò a lungo a Padova, a Venezia e in tutto il continente. E conviene ricostruirlo più in dettaglio, perché dovranno passare molti e molti decenni perché si possa ripetere. E dovranno passare quasi due secoli perché la laurea di una donna diventi un fatto normale».
Oggi, nel 2023, tra novembre e dicembre, in un autunno quasi normale, nonostante le brutte notizie sui cambiamenti climatici, un’altra donna, più giovane di un decennio rispetto alla sua illustre antenata, ha il suo giorno di laurea segnato nell’elenco degli appuntamenti accademici dell’ateneo della città veneta, che è stato tra i primi ad eleggere come rettrice una donna, la professoressa Daniela Mapelli. Giulia Cecchettin doveva essere chiamata a discutere la sua tesi, in Ingegneria biomedica, il 16 novembre, un giovedì, quando la sedia nell’aula universitaria è rimasta vuota, quando la sorella Elena insieme alla famiglia ha riempito il cancello di casa con il colore rosso dedicato all’occasione, quando si sperava fosse almeno ancora viva. Oggi si aspetta dall’ateneo e dalla famiglia la data perché questa donna, erede di Elena Lucrezia Cornaro, sia proclamata, comunque dottoressa! «Per lei la laurea in Ingegneria biomedica, è laurea a tutti gli effetti, non postuma o ad honorem», ci tiene a precisare la rettrice dell’ateneo di Padova.
Non bisogna passare oltre. Dopo le luci spente sul fatto di cronaca, la tragedia della storia di questa ragazza, che ha dimostrato di essere forte ed empatica (tanto da morirne) non deve essere dimenticata. Sì, più delle altre. Ma guardando a tutte le donne, quelle dell’oggi e del futuro e a tutte quelle consorelle già vittime delle violenze del mondo patriarcale a causa del quale hanno versato sangue, ma anche si è fatta violenza maschile, violenze psicologiche, economiche, verbali, di silenzio, di pressione, spesso davanti ai figli e alle figlie che rimangono di fatto orfani/e e vittime di una sofferenza non meritata, che subiscono.
La storia di figli e figlie coraggiose come le tre sorelline di dodici, dieci e otto anni che qualche giorno fa, dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, hanno sventolato un foglio dalla finestra di casa con la scritta Help, aiuto! Così hanno salvato la loro mamma!
Il rosso dei fiocchi di laurea dedicati a Giulia è diventato il colore del suo sangue versato realmente, rincorsa, braccata, da un uomo, giovanissimo come lei, che non poteva ammettere la scelta di libertà e di indipendenza di una donna che aveva voglia di vivere. Perciò l’ha fatta morire.
Però la storia triste di Giulia deve diventare uno spartiacque. Un punto di uno sforzo verso il non-ritorno soprattutto per le giovani generazioni, maschi e femmine. Non deve più ripetersi, si deve intervenire come splendidamente ha detto in chiesa davanti alla bara bianca della figlia, il padre. «Un uomo con un mestiere qualunque, il padre di una cittadina qualunque chiusa in una bara bianca ha pronunciato ieri (martedì 5 dicembre n.d.r.) parole che hanno colpito il Paese e consegnato alla sua storia una data importante di consapevolezza. Oggi giornali e talk tv grondano elogi sperticati, purtroppo in clamoroso ritardo: quelle parole da gran tempo non avreste dovuto pronunciarle voi?» Se lo è domandato sulla sua pagina social, la professoressa Graziella Priulla, sociologa, attivista e insegnante per oltre quaranta anni all’università di Catania, esposta alle emozioni dei ragazzi e delle ragazze dell’età di Giulia e anche attenta alle reazioni dei Media e della politica sulle problematiche legate alla violenza sulle donne. Si è domandata perché nulla si muova, mentre un uomo, fino ad oggi sconosciuto alla maggior parte delle persone che ora hanno negli occhi il suo viso e nelle orecchie le sue parole straziate da un dolore immenso, parla e ci insegna a guardare con speranza al futuro, invece di rimanere schiacciato dalla rabbia. Così ha parlato Gino Cecchettin, uomo e padre sublime e dolce: «Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne, e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza, anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto.
A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale. È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente, a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all’esperienza di chi è più anziano di loro. La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche. Abbiamo bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto.
La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli.
Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza. La prevenzione della violenza di genere inizia nelle famiglie, ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti. Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere.
Perché da questo tipo di violenza, che è solo apparentemente personale e insensata, si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti. Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo. Ma in questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può, anzi deve, essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne». Sono queste le parole di un educatore, vero. Facciamone tesoro.
Durante un’intervista televisiva il direttore Maurizio Molinari ha detto: «La battaglia degli afroamericani contro la segregazione negli Stati Uniti ci insegna che la mobilitazione delle vittime è fondamentale per creare e tutelare nuovi diritti. È fondamentale — prosegue Molinari — identificare chi viola i diritti, le persone che abusano delle donne devono essere identificate, devono essere punite, devono avere un nome. Per fare questo serve la collaborazione delle vittime, una dinamica che ha a che vedere con la risposta che una democrazia, una società libera può dare al rafforzamento dei diritti di tutti. Solamente creando un’atmosfera che consente alle vittime di alzare la voce e di puntare il dito contro chi commette l’abuso alla violenza può risolvere. A quel punto si crea un ambiente, un habitat all’interno del quale l’intera società diventa più forte».
Questa è l’epoca della comunicazione e degli incontri virtuali e è proprio da lì che si comincia a sperimentare la violenza, atteggiandosi a leoni e leonesse da tastiera: «La prima tipologia di reato che commettono i e le giovanissime è il bullismo cibernetico, cioè usare gli strumenti digitali per aggredire. Si comincia aggredendo il proprio amico, il proprio compagno di classe, il vicino di banco con delle offese. Poi parte un’escalation di violenza che è basata su un’idea del tempo istantaneo. La cosa scioccante è questa dimensione del tempo istantanea, figlia della cultura digitale che porta ad aggredire il prossimo. Per rompere questo serve portare nello spazio digitale lo stato di diritto ed è una sfida formidabile».
Benedetta Pilato, campionessa del nuoto azzurro, della stessa età di Giulia Cecchettin, ha commentato anche lei, a margine di una gara: « Non posso vivere in un mondo in cui noi donne dobbiamo essere ogni giorno coraggiose in quello che facciamo. Non voglio ritenermi fortunata se nella mia vita incontro una persona per bene perché quella dovrebbe essere la quotidianità, la normalità».
Se facessimo un riassunto della nostra storia di donne? Se iniziassimo a tessere, grande attività femminile nel tempo, il nostro racconto familiare e pubblico con il filo della Storia che dal passato ci conduce verso il futuro? L’ho trovato fatto per tutte e tutti (perché no?) noi. A tesserlo la professoressa Graziella Priulla che ringrazio e pongo come “consolazione” di questo mio lavoro che parla alle donne.
La lunga strada.
«Mia madre non ha potuto studiare, io sì.
Mia madre non era autonoma economicamente, io sì.
Mia madre non ha potuto divorziare, io sì.
Mia madre non conosceva metodi contraccettivi, io sì.
Mia madre sarebbe andata in carcere se avesse tradito il marito, io no.
In casa di mia madre esisteva il capofamiglia, nella mia no.
Mia madre ha conosciuto limitazioni e umiliazioni che a me non sono toccate, anche per la fortuna di aver trovato prima il suo sostegno, poi un compagno degno di questo nome.
Moltissime donne le subiscono ancora nel chiuso delle case, nel silenzio dei contesti di vita, nell’impossibilità di vie d’uscita.
Mia madre ha vissuto in pieno patriarcato anche se non conosceva questa parola, la mia generazione lo ha nominato, con una lunga pacifica battaglia ne ha eroso le basi e le leggi ma non ancora la mentalità e la cultura.
Le nuove generazioni ci stanno provando ma si dibattono anch’esse tra i residui del passato, le contraddizioni del presente, le esigenze del futuro.
Aiutarle è l’ultimo lavoro responsabile che ci rimane da fare. Servono le parole, serve il rumore, servono le vicende esemplari, serve soprattutto l’esempio quotidiano di tutti e di tutte, nelle piccole e nelle grandi cose».
Grazie Professoressa
Buona lettura a tutte e a tutti.
«Oggi le donne viaggiano più degli uomini, le cose sono cambiate e non solo per le ragazze più giovani. Secondo l’Istat sono 1.400.000 le donne italiane che abitualmente viaggiano da sole. Ciononostante ci scontriamo ancora con numerosi pregiudizi, innumerevoli stereotipi…» Apriamo la rassegna degli articoli di questo numero con le parole dell’autrice di Ma non hai paura? in un racconto a metà tra il divertito e l’amaro, cui fa da contraltare Karibu Tanzania! con Giulia Raciti, un’altra puntata della serie tratta dal podcast di Rai Radio 3 Lovely Planet.
Nella settimana della Giornata internazionale dei diritti umani dell’Onu presentiamo la donna di Calendaria 2023, Emmanuelle Charpentier. Nobel per la chimica nel 2020, insieme alla collega Jennifer Doudna, primo team al 100% femminile nella storia del prestigioso premio.
Facciamo un salto nel passato, in epoca risorgimentale, con “La targa che non c’è” per incontrare una figura femminile coraggiosa e battagliera, che volle essere sepolta con la camicia rossa garibaldina. La ricordiamo in Via Torino n° 7. L’ultima dimora di Rose Montmasson.
Cambiamo argomento e affrontiamo il tema degli studi di genere, salutando con piacere il conferimento della laurea ad honorem in Gender Studies a un’intellettuale poliedrica. Se ne occupa l’articolo La democrazia radicale di Judith Butler che ne riporta anche una serie di opinioni sul conflitto israelo-palestinese. Ancora di genere si parla in Genere e turismo tra America latina e Africa, la terza parte della serie che riflette su questa relazione, mettendo in evidenza le tante discriminazioni nei confronti delle donne in questo settore. Indice di uguaglianza di genere. Parte terza ci ricorda che l’Italia è al tredicesimo posto nella classifica dei Paesi europei, continuando ad approfondire il Report dell’Ue.
Passiamo alle recensioni di opere teatrali e convegni. Le donne di Manzoni ci presenta un recital che si è tenuto alla Casa delle donne di Milano, composto da nove monologhi di quattro donne della vita dello scrittore e di cinque figure protagoniste delle sue opere. Di Donne e Giardineria in provincia di Pistoia leggeremo in Si parla di Women Gardeners in un bel convegno a Pescia.
I libri consigliati questa settimana sono due: Una donna ricorda recensito in Margherita Troili. Una vita per la libertà e La bambina di nome Etna, di Margherita Fiume, un libro per ragazzi e ragazze che affascinerà anche le persone adulte.
Bugie e regole è l’articolo che ci presenta il racconto, scritto a più mani, da alcuni ragazzi e ragazze della V A del Liceo Scientifico Matteo Raeli di Noto, che si è aggiudicato il “Premio per la composizione di gruppo Classi Quinte”, nella sezione Narrazioni, del X Concorso “Sulle vie della parità” di Toponomastica femminile.
L’intervista di questa settimana, per la serie Cambiamo discorso, è a Stefano Ciccone, fondatore dell’associazione Maschile Plurale. Gli uomini possono essere femministi? è un contributo interessante e profondo che può aiutarci a riflettere sul tema della violenza di genere.
Chiudiamo, come sempre, con la ricetta di questa settimana: Piadine vegane all’olio, un modo creativo per preparare in casa questo piatto sfizioso e gustoso, con ingredienti naturali per una sana alimentazione.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

Storie di donne. Di ieri e di oggi. Ma anche di uomini. Storia ma anche tanta cronaca. Ogni racconto di donna o di uomo ha un segreto. Invita a fare una pausa. E riflettere. Due soprattutto prima donna laureata, il.padre di Giulia. Questa è la magia di Giusi. Il giornalismo che non finisce con il punto finale.il giornalismo che mi piace.
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Che cos’è belle mi hai scritto . Grazie di cuore con il cuore
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