Editoriale. Un segnale di discontinuità

Carissime lettrici e carissimi lettori,
due donne per salvare il mondo dalla guerra. Perché le donne sono contro la guerra, molto più degli uomini. Loro, i maschi, fin da piccoli sono spesso abituati a immaginarsi soldati, a giocare alla guerra, a fingere conflitti con le armi giocattolo, evocatrici di quelle vere che impareranno o imporranno loro di usare. Le donne amano di meno la guerra, anzi la subiscono e la soffrono con le violenze, il dolore, gli stupri, terribili ancora di più.
Sarà forse per questo che due donne, Ginevra Bompiani e Barbara Alberti, l’una editrice, l’altra scrittrice, hanno deciso di leggere, durante una trasmissione televisiva, il messaggio di grande provocazione a nome della costituenda Assemblea per la Pace. Le due intellettualihanno lanciato l’appello, nominato Uno sciopero mondiale contro la guerra, un invito che in una manciata di giorni ha ricevuto oltre 11.000 adesioni (https://www.assembleaperlapace.org/Home.html) e le cui prime firmatarie sono proprio Alberti e Bompiani: «Ci rivolgiamo a chi ha milioni di contatti con il mondo, a un movimento, una rete, un hacker che abbia a cuore la nostra sopravvivenza e la disfatta di chi la sta mettendo in pericolo. Chi è nato durante la Seconda guerra mondiale è cresciuto pensando mai più. Mai più una guerra. Cinquanta milioni di morti sembravano aver fatto rinsavire il mondo. Da allora guerra e genocidi non sono mai finiti. Gli ultimi li abbiamo sotto gli occhi: l’avanzata inarrestabile della Nato; l’invasione russa dell’Ucraina; l’atroce attacco di Hamas e la risposta inumana di Israele; il martirio infinito delle genti di Gaza. Stragi, stragi, stragi. Quando vedo la gente mitragliata mentre va a prendere la farina penso che loro siamo noi. Non in senso evangelico, ma storico. Nessuno ci vuole salvi. Tutti ci vogliono armati. C’è una fame di guerra che somiglia ai prodromi della Prima guerra mondiale e annuncia la terza, e veramente ultima. Ho paura». Nel discorso televisivo di un giovedì sera, alla prima lettrice, Ginevra Bompiani, segue la lettura di Alberti: «Abbiamo tutti paura. Ma crediamo che armandoci ci difenderemo. No, armandoci ci consegneremo alla guerra, al nemico, alla morte. Abbiamo un sogno. Che qualcuno che abbia i mezzi di comunicazione adeguati a svegliare la terra, dichiari uno sciopero mondiale contro la guerra. Per un giorno incrociamo le braccia. Per un giorno non si produce e non si consuma. Se anche il 20 per cento aderisse, anche solo per qualche ora, produciamo un danno economico come dieci guerre. Così il mondo si accorgerà che esistiamo: noi che vogliamo la pace, perché la pace è vita. Certo, ogni sciopero ha un costo. Ma niente costa come la guerra. Come questa guerra. L’ultima». Le cifre dettate da queste parole parlano, e parlano chiaro, mettendoci di fronte alla realtà. 
Mariangela Mianiti su Il Manifesto le paragona a due Cassandre che, teme, come la visionaria del mito, corrano il pericolo (terrificante oggi come allora) di non venire ascoltate: «Lo so — scrive — paragonarle a Cassandra non sembra un buon auspicio, visto che nessuno credette alle sventure che la figlia di Ecuba e Priamo prediceva e che puntualmente si avverarono. Tuttavia, oggi sappiamo benissimo quale errore fu non ascoltare Cassandra. Evocarla equivale a dire che non sarebbe una cattiva idea darle retta. Bisognerebbe ascoltarle, le donne, quando prendono parola contro la guerra — scrive ancora Mianiti e ci trova perfettamente d’accordo —. Dentro un corpo di donna, per destino biologico, non abita la distruzione, ma la possibilità di dare la vita. Certo, anche una donna può diventare un’aguzzina, purtroppo, ma se accade è per emulazione di un modello maschile, per una stortura culturale o violenta, per circostanze di un destino fatale. Anche per il maschio si potrebbero dire le stesse cose, perché nessun bambino nasce assassino, resta il fatto che questo mondo è costruito su un modello voluto da chi porta il pene e noi, portatrici di utero e vagina, ne abbiamo subito per secoli le conseguenze. Siamo nati e cresciuti dentro una macchina tecnica e sociale basata su identitarismi e ruoli, modelli dove la povertà di tanti serve a costruire la ricchezza di pochi, quindi un sistema ontologicamente ingiusto che fa della disparità la sua ossatura portante. Le guerre fanno parte di questo sistema che prima distrugge, e fa soldi vendendo armamenti, poi ricostruisce, e fa soldi con la ricostruzione. Invocare un giorno di sciopero, benché mondiale, contro tutto ciò può sembrare ingenuo, un gesto simbolico sventolato in faccia a chi usa i muscoli, la tipica fionda contro un bazooka. Eppure… eppure uno sciopero mette in campo, anzi sottrae letteralmente, e non solo simbolicamente, il corpo a qualcosa che non si condivide, per questo fa paura a chi lo subisce, lo sciopero. Praticare la sottrazione di sé è l’unica arma fisica e non violenta di chi non ha armi di distruzione. La sottrazione di sé diventa incisiva se è praticata da una moltitudine, se fa parte di un progetto collettivo e qui sta il punto critico. Quanti, nel mondo, sarebbero disposti a incrociare le braccia per un giorno contro le guerre? Per essere ancora più realistici, basterebbe chiedersi quanti sarebbero disposti a farlo in Italia. Per restare ai numeri evocati da Barbara Alberti, il venti per cento di otto miliardi, tanti siamo nel mondo, fa un miliardo e mezzo, come quasi tutta la Cina o l’India. Il venti per cento degli italiani, che ormai sono meno di 59 milioni, è circa 12 milioni, più o meno i voti presi dalla coalizione di destra-centro alle elezioni del 2022. Il venti per cento degli abitanti della Ue (447 milioni) fa quasi 90 milioni. Indovinate quali sono le organizzazioni che potrebbero raggiungere, se non superare, tali numeri per far diventare reale uno sciopero mondiale? Facebook (3 miliardi di utenti attivi), Tik Tok (1,1 miliardo), Instagram (poco più di un miliardo). Praticamente siamo nelle mani di Zuckerberg».
La guerra, il dissidio che non si scioglie con il dialogo ma con la violenza, non è cosa da donne. Lo abbiamo scritto più volte. Le donne credono fermamente che la guerra non sia la soluzione e, soprattutto, non appaia come l’unica soluzione per risolvere i conflitti. Lo pensano tante donne e da tanto tempo. Ancora prima della risoluzione dell’Onu (la 1325 del 31 ottobre 2000) quando per la prima volta è stata riconosciuta ufficialmente «la specificità del ruolo, dell’esperienza e dei bisogni delle donne in una situazione di conflitto: durante la guerra e negli auspicati processi di pace». Gli obiettivi principali della risoluzione sono riassunti in queste tre parole: Prevenzione, Partecipazione e Protezione delle donne nei contesti di conflitto, «un tentativo di affrontare le questioni su sicurezza e pace internazionali attraverso una prospettiva di genere».
Nella risoluzione 1325, quindi, non solo si evidenzia per la prima volta lo spropositato impatto dei conflitti armati sulle donne, ma se ne riconosce il potenziale nella prevenzione e nella risoluzione.
Lo stanno facendo, dopo oltre venti anni ancora tante donne, spesso coinvolte direttamente nei conflitti che oggi spaventano il mondo. Due donne, Robi Damelin e Lasyla al- Sheikh, una israeliana e l’altra palestinese, hanno dato voce a questa volontà di pace in ottica di genere, appellandosi come appartenenti alle Mothers for Peace, come un tempo le madri che si riunivano nella Plaza de Mayo per dimostrare all’universo il loro dolore e la loro rabbia contro la dittatura argentina che aveva nascosto/ucciso i loro figli e le loro figlie. Le due donne, oggi, l’israeliana e la palestinese, con il loro movimento vogliono dirci il valore del proprio comune impegno civile: «Noi ci impegniamo per una vita di nonviolenza e riconciliazione — dicono entrambe a nome di tante consorelle dell’una e dell’altra parte — , noi promettiamo di ascoltare con empatia e comprensione il prossimo anche quando non saremo d’accordo, noi crediamo nel potere di un dialogo onesto, noi aspiriamo a una carta universale di riconciliazione e dei diritti umani per tutti». Un quotidiano, L’Avvenire, su questo tema, esteso a tutti i conflitti odierni e partendo dal documento del 2000, ha creato una petizione rivolta al Parlamento europeo con un titolo significativo: Più donne nei processi di pace. «Noi chiediamo – spiega Antonella Mariani durante un podcast organizzato dal quotidiano in cui lavora — che le istituzioni europee e tutti gli Stati membri promuovano la partecipazione femminile laddove si discute di transizione, dopo una guerra, o dopo processi di transizione verso la democrazia, oppure anche nella pianificazione di interventi umanitari, di trattative di mediazione. Chiediamo di assumere una prospettiva di genere, quindi di non pensare solo a confini e territori, ma alle vittime dei conflitti che ovviamente non sono solo donne, ma sono in generale le categorie più vulnerabili, quindi le minoranze e i gruppi discriminati. Con la nostra petizione chiediamo anche di incoraggiare le esperienze di diplomazia dal basso, quelle cioè che ricuciono le ferite delle comunità locali. Pensiamo alla guerra nell’ex Jugoslavia o in tanti paesi africani che sono afflitti da conflitti interetnici. Grazie all’impegno pacificatore di singole persone la storia recente ci insegna che in questi contesti le donne sono le vere protagoniste. Chiediamo al Parlamento europeo di rilanciare tutti questi processi e di riconoscere e incoraggiare il protagonismo femminile nella costruzione della pace… negli anni molte donne sono entrate nelle trattative molto importanti, in processi di pace importanti come nel nord Irlanda, nelle Coree, oppure nelle Filippine però comunque i risultati non sono ancora del tutto soddisfacenti. Basti pensare che tra il 1992 e il 2019, sono delle statistiche ufficiali, le donne hanno rappresentato in media solo il 13% dei negoziatori, il 6% dei mediatori e il 6% di firmatari di accordi nei principali processi di pace. Questa è una differenza, è una situazione che riflette una disuguaglianza di genere che riguarda un po’ tutti i settori della vita sociale e della vita politica del nostro pianeta. Ma è una situazione che non possiamo più accettare perché le donne hanno un ruolo fondamentale da giocare, hanno una sensibilità particolare, hanno affinate tecniche di leadership e sono coinvolte in tante situazioni nelle comunità locali. Abbiamo incontrato nella nostra inchiesta donne che nelle comunità locali devastate dalle guerre riescono a parlare con i carnefici e con le vittime insieme proprio disponendo di questa sensibilità e di queste capacità di mediazione particolari. Non ci sono più scuse davvero per tenere lontane le donne dai tavoli di trattativa».
L’idea di questa petizione — continua a spiegare Lucia Capuzzi, inviata del quotidiano per l’America latina — nasce appunto da questa evidenza empirica perché le donne hanno questa sensibilità particolare. Sono state le madres de Plaza de Mayo a protestare. In Africa sono le donne a ricucire le ferite liberiane. In Colombia è stata fondamentale la partecipazione delle donne perché si arrivasse all’accordo di pace. Siamo convinte che le donne proprio perché a lungo nella Storia sono state emarginate dai luoghi di potere e hanno subito un’oppressione che è un po’ il paradigma di tutte le altre forme di oppressione, hanno nel loro dna storico, di esperienza sociologica, maturato l’idea di non far parte di un paradigma bellico guerrafondaio, ma da essere ai margini del sistema. Possono avere una visione complessiva, sono quelle che, come tutte le minoranze, subiscono gli effetti della guerra. Da qui appunto l’idea che possano essere quelle che hanno fatto della capacità di resistere ai margini una chiave di accesso. Possano usare questa loro capacità specifica proprio per riparare le ferite dei conflitti ma non solo». Le donne a loro spese hanno imparato cosa vuol dire l’esclusione e, soprattutto, la sofferenza. Succede alle donne, lo abbiamo visto, con i numeri a livello mondiale, la volta scorsa. Ma il crimine è orrendo se la vittima ha appena tredici anni. Come è successo a Shanon, una ragazzina francese stuprata da tre ragazzi non tanto più grandi di lei (dai 17 ai 19 anni) morta dopo venti giorni di agonia per le ferite riportate. Morire di finto amore è soffrire, patire la violenza di una passione forsennata e tutta carnale. Anche questa una guerra di certi maschi giocata sul corpo femminile.
Poi c’è chi oltraggia la mente e dà sentenza di incapacità al pensiero femminile che si fa arte. Viaggiando qua e là, tra social e blog, mi sono imbattuta in una notizia quantomeno fastidiosa, oltre che falsa. Un critico (sono d’accordo: non facciamogli pubblicità!) di una rivista letteraria online scrive solerte: «la differenza tra autori e autrici è in ciò, che i primi frequentano più generi …mentre le seconde si sono ancorate a uno solo: appunto ilromance». Il suddetto signore insomma crede nella versatilità della mente dello scrittore, che sia Shakespeare, Dostoevskij o Tomasi da Lampedusa, Verga o Moravia e all’unidirezionalità della creatività femminile rivolta unicamente ai romanzi stile Liala. Le donne scrivono di sentimenti, compongono romanzetti d’amore (il romance è un genere di romanzo d’amore a lieto fine). Ma dove sarebbe il male? Importante non credo sia la trama, ma la capacità di scrittura: «È consolante vedere per l’ennesima volta riproporre il vecchio stereotipo per cui le donne scrivono di sentimenti, e la loro è e rimane letteratura femminile e minore perché in sostanza scrivono romanzetti d’amore, mentre i maschi affrontano i generi seri e producono narrativa non di genere, maschia e per questo universale. 
È consolante che per dare sostanza alla sua tesi, il giornalista definisca romance tutta una serie di romanzi che romance non sono, anche se in essi ci sono storie d’amore. Ma l’amore è il grande tema di tre quarti della letteratura, e ad usare questo metodo l’Iliade stessa sarebbe stata definita un romance se l’avesse composta una donna. 
È consolante sapere che pure adesso che scaliamo le classifiche e ci siamo guadagnate un posto, per i critici vecchio stampo noi donne siamo al massimo delle Liale o delle Barbare Cartland con più fortuna, mentre i maschi sono scrittori seri. 
Non fosse che, verrebbe da ricordare al tizio, la prima poesia giunta a noi l’ha composta una donna, Enheduanna sacerdotessa della dea Ishtar, (che per inciso è Afrodite) per ringraziare la dea di averle fatto sconfiggere i suoi nemici. E non era un romance, era il primo inno sacro della storia, lode per altro a una dea della guerra e protettrice delle arti». A scriverlo, con tutta l’ironia che l’occasione richiede è Galatea Vaglio, nel suo Blog Pillole di Storia e riportato nella pagina Contro la violenza di genere. Insomma le donne nell’arte non devono esserci e neppure nominate. Alda Merini, Agatha Christie, Elsa Morante (alla quale qui perdoniamo il fatto che voleva essere definita scrittore), Anna Achmatova, Marina Cvetaeva (che però erano poete, ma parlavano certo d’amore!) Grazia Deledda, che seppure tra poche, ha vinto un premio Nobel per la letteratura (contestato da Luigi Pirandello, il quale, però, proprio l’anno dopo fu anche lui tra i “cani e porci” come definì chi aveva avuto il premio vinto dalla scrittrice sarda). E dove mettere Jane Austen, Mary Shelley, Virginia Woolf, via via fino a Valeria Parrella, Dacia Maraini, Goliarda Sapienza? Forse Michela Murgia sarebbe stata contenta di interpellare il critico in questione mimando, stavolta lei, il titolo di un suo scritto (arrabbiata contro un maschio che lo aveva ingiunto a lei): Stai zitto, ma solo come un bonario consiglio per non fare brutta figura, che le brutte figure, oggi, abbondano persino da parte di Ministri della Cultura!
Allora ci solleva la notizia provocatoria che viene dall’università di Trento dove si è deciso di provare a declinare tutto al femminile sovraesteso, quello che si è fatto sempre con il maschile comprensivo delle donne e dei ruoli e professioni che ricoprono. Così dopo la scelta unanime del Consiglio di amministrazione dell’università il rettore (anzi la rettrice) Deflorian ha detto: «Come uomo mi sono sentito escluso, ma mi ha fatto molto riflettere il fatto sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Il nostro è un segnale di discontinuità».
Allora ci sentiremo libere, come in quel condominio New Ground situato a nord di Londra: 25 appartamenti in cui vivono altrettante donne dai 58 ai 94 anni. «una sconfitta alla solitudine, un modo per fare comunità», per sentirsi sorelle!
La poesia, consolazione dell’oggi, è stata scritta da un’allora bambina. Talil Sorek, all’epoca giovane poetessa israeliana tredicenne, è diventata famosa in tutto il mondo grazie a questa poesia sul senso della fratellanza e sorellanza, scritta durante la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Forse l’ho già proposta, ma qui in questo numero dove si parla di due donne che vogliono uno sciopero planetario per fare la pace davvero ci sta molto bene.

Ho dipinto la pace

Avevo una scatola di colori
Brillanti, decisi e vivi.
Avevo una scatola di colori 
Alcuni caldi, altri molto freddi
Non avevo il rosso per il sangue dei feriti,
non avevo il nero per il pianto degli orfani 
non avevo il bianco per il volto dei morti
Ma avevo l’arancio per la gioia della vita
il verde per i germogli e i nidi,
e il celeste per i chiari cieli splendenti 
e il rosa per il sogno ed il riposo.
Mi sono seduta e ho dipinto la pace.

Buona lettura a tutte e a tutti e che laicamente la pace sia con noi.
Pace, Salam, Shalom, mir (che in russo indica anche la Madre Terra).

«Se ci facciamo dominare dalla paura restando in casa non facciamo altro che lasciare la città in mano ai soli uomini, l’unica soluzione è occupare lo spazio che ci spetta di diritto rendendolo noi stesse più sicuro». Le parole della geografa finlandese Hille Roskela aprono la rassegna degli articoli di questo numero e invitano a riprenderci lo spazio che per secoli ci è stato sottratto, come ci racconta l’autrice di Sicurezza e paura in cittàE di donne che si sono fatte largo in settori per lungo tempo dominati dagli uomini, questa settimana ne troviamo tante: L’appello di Paulina Schwarz alle donne è l’intervista alla Presidente di iDEE, l’ultima della serie “Credito alle donne”; Josephine Amann Weinlich. Un’orchestra tutta per sé ci presenta una vera pioniera in campo musicale. Se facciamo un salto nello spazio e nel tempo e ci spostiamo dalla Slovacchia a Taiwan incontreremo la storia di Qiu Miaojin, icona dei diritti delle minoranze sessuali.Da Taiwan alla Nuova Zelanda facciamo spazio alla critica delle assurdità della borghesia e della vita femminile con Katherine Mansfield, in Quaderno d’appunti. Spazio ai pensieri delle donne in un luogo insolito, che diventa un rifugio sicuro, è anche quello raccontato in Femminismo catalano. Per la serie “Racconti brevissimi di Daniela Piegai” i Fantasmi vagabondipersonaggi usciti dai libri letti da una ragazzina, prendono forma e spazio nel solaio. Posti definiti e invalicabili a tavola per bambine e bambini sono quelli che molte/i di noi hanno incontrato da piccole/i, a partire dall’asiloCe ne parla in Il pranzo è servitol’autrice del racconto della Serie “Flash-back” di questo numero. Spazio alle donne nella Toponomastica, infine, con Una pioggia di intitolazioni femminili a Lugoche racconta una bellissima esperienza di coinvolgimento della cittadinanza su questo tema. Accostiamoci alle altre serie della nostra rivista: Una certa idea di Italia. Il numero 2 di Limes. Parte Prima fa il punto sui problemi del nostro Paese, suggerendo soluzioni in parte insolite. Per “Bibliografia vagante” ci occupiamo di Sessualità. Dal Convegno di Caserta dello scorso ottobre racconteremo il tavolo che ha per titolo: I vicoli dell’illegalitàLa ricetta vegana che consigliamo è facile e dolcissima: Prussiane vegetali di pasta sfoglia.
Chiudiamo con Il Report di marzo di Toponomastica femminilericco di eventi e incontri nel mese dedicato ai diritti delle donne, con la speranza che le parole di pace condivise dalla maggior parte dei popoli del mondo riescano a prendere il sopravvento sul delirio guerrafondaio dei potenti della Terra. Possiamo farcela.
SM

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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpretiSiamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

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