È vero che le donne non sanno guidare, che le ragazze non sono portate per la matematica, che la danza classica non si addice ai maschi, che l’uomo è cacciatore?
Chiamiamo “luogo comune” una formula linguistica resa ovvia, immediata e di conseguenza autorevole dalla sua diffusione e familiarità. Il luogo comune è figlio naturale dello “stereotipo” (idea precostituita, cristallizzata e difficilmente modificabile).
Gli stereotipi si fondano su generalizzazioni arbitrarie, che fissano le somiglianze e annullano le differenze. Il loro uso è un ottimo sistema per rafforzare quanto c’è di indimostrabile ma tenacemente presente nell’opinione collettiva. Lo stereotipo non si limita a descrivere la realtà ma, descrivendola, la plasma.
Comincia subito, presentandosi come l’unico mondo possibile. È questa la sua forza.
I due generi? Uomini forti, donne deboli. Debolezza fisica equivale a “non poter fare”, debolezza intellettuale equivale a “non poter sapere”, debolezza morale equivale a “dover essere controllate”.
Infirmitas, imbecillitas, fragilitas sexus: così parlava il diritto romano fin dai secoli avanti Cristo. Noi abbiamo solo tradotto.
La misoginia si alimenta di rappresentazioni antichissime. Un topos che risale al pensiero greco è quello per cui le donne non possiedono il logos: divino, astratto e luminoso. La loro sola ragione è la metis, la concretezza intrecciata con l’astuzia e con l’inganno. Se il maschile assume la connotazione della razionalità, della capacità di astrazione, il femminile incarna l’irrazionalità, l’emotività; diventa il luogo dove viene confinato tutto ciò che ostacola il percorso dell’umanità verso la conoscenza.
Le donne, emotive, irretite nella natura, sprofondate nella soggettività e nell’irrazionalità, meritano un’estromissione dal sapere. È meglio bruciare i libri della Legge che insegnarli ad una donna, sentenziava una massima rabbinica.
Secoli e secoli dopo l’illuminato Rousseau, il fautore dell’egualitarismo, offriva le stesse indicazioni, fondate sul fatto che il marito e la prole siano il destino naturale di ogni donna, che l’attività culturale sia al di là delle sue capacità d’intendere e che una donna intellettuale sia un flagello per il marito, per i figli, per gli amici, per la servitù, per chiunque.
Nel 1801 Sylvan Maréchal, avvocato e scrittore parigino, ardente rivoluzionario, illuminista convinto, pubblicò un progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere.
L’istruzione femminile è stata una conquista ardua, come ogni diritto che abbia a che fare con l’ingresso nello spazio pubblico. Parallelo a questa rivendicazione è stato un lungo e articolato dibattito sulle attitudini delle donne allo studio.
Oggi molto è cambiato, ma la pubblicità degli integratori recita così: “Lei vuole un supporto post menopausa. Lui invece una mente sempre attiva”.
In generale, ancora oggi una donna è giudicata ottima per fare la segretaria o l’infermiera, la parrucchiera o la badante; se non fosse per Rita Levi Montalcini nemmeno riusciremmo ad immaginarcela una scienziata. “Ministra suona male”, dicono.
In Italia le donne ottengono risultati scolastici migliori dei maschi in tutte le materie – matematica compresa – ma sono solo il 23% nei corsi di laurea in ingegneria e il 38% nel complesso dei corsi di area scientifica. Su 7 persone che lavorano nel settore STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) solo una è donna. Male anche per l’ICT (informazione, comunicazione e tecnologia), dove le donne impiegate sono l’11% del totale. La profezia si autorealizza.
I valori attivi di intraprendenza, eroismo, conquista, attribuiti ai maschi e ritenuti tipici degli adulti, assumono un peso diverso dai valori di cura della persona e della quotidianità, relegati e resi invisibili in quegli interni domestici in cui le donne convivono con i bambini. Virtù passive come pazienza, sopportazione e oblatività, ritenute caratteristiche materne e quindi definite confacenti con il ruolo femminile, vengono confinate alla sfera intima.
La conseguenza è evidente. Se le caratteristiche positive degli uomini li rendono tagliati per posizioni di rilievo e gestione delle risorse, le qualità positive delle donne permettono loro di essere adeguate solo per ruoli giudicati meno rilevanti.
Il problema non sono la femminilità o la mascolinità. Sono la femminilità e la mascolinità standardizzate, ingabbiate in un sistema di valori gerarchico che svaluta tutto ciò che è femminile.
Articolo di Graziella Priulla
Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
Illustrazioni di Marika Banci
Dopo la laurea in Lettere moderne, Marika si iscrive al corso triennale di Progettazione grafica e comunicazione visiva presso l’ISIA di Urbino. Si diploma nel 2019 con una tesi di ricerca sulle riviste femministe italiane dagli anni ’70 ad oggi e la creazione di una rivista d’arte in ottica di genere dal nome “Biebuk”. Designer e illustratrice, ha dedicato alle tematiche femministe molti dei suoi ultimi progetti.