Guerra ai civili. La strage di Sant’Anna di Stazzema

Il giovane – un partigiano, è evidente – si inerpica di corsa su in collina, passa accanto a covoni di fieno carbonizzati, qualche lingua di fuoco che ancora crepita. La macchina da presa sposta lo sguardo su un bosco, poi su una casa contadina. Davanti alla porta corpi scomposti: un uomo e una donna con i capelli grigi, altre due donne, due bimbe: una più grande, rannicchiata accanto alla madre, l’altra un poco più piccola… Sono otto, no, dieci: ci sono altre due persone sorprese dalle raffiche, poco più distanti. La bimba più grande si muove, si stacca dalla madre, dalla famiglia uccisa, si alza, entra in casa. Prende un bicchiere, attinge da una bacinella posta nell’acquaio, beve a lunghe sorsate, respira forte tra l’una e l’altra. Poi, torna fuori, quieta, si rincantuccia accanto alla mamma e per ancora chissà quanto tempo si finge morta. La macchina da presa torna con lo sguardo al partigiano, che, ora, cammina su un crinale langarolo.

La sequenza è tratta da Una questione privata, ultimo film di Paolo e Vittorio Taviani (2018), ispirato al romanzo di Beppe Fenoglio, rispetto al quale i due maestri inseriscono episodi originali e si concedono sbandamenti inediti. Qual è quello rievocato in apertura: omaggio alla memoria delle vittime civili dei crimini di guerra compiuti dai nazifascisti tra l’autunno 1943 e la primavera 1945, al dolore muto dei salvati. Perché in quei mesi si agì, da parte di Wermacht e SS, con l’appoggio logistico di reparti della Repubblica Sociale Italiana (essenziale per l’individuazione delle vittime), una vera e propria guerra ai civili, che ebbe il suo culmine di violenza e ferocia nell’estate del ’44, quando la fine della guerra mondiale appariva ancora lontana, e, tuttavia, la Germania già era destinata alla sconfitta, perché l’Armata Rossa avanzava inarrestabile dal fronte orientale, mentre l’esercito alleato risaliva la penisola italiana, dopo lo sbarco in Sicilia e la liberazione di Roma (e lo sbarco in Normandia).

È in quella estate che si compiono esecuzioni sommarie di partigiani e stragi di civili, le più efferate: tra queste, Civitella in Val di Chiana (29 giugno), Sant’Anna di Stazzema (12 agosto), Bardine San Terenzo e Vinca (19 e 24 agosto), Monte Sole, ovvero comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno (tra il 29 settembre e il 5 ottobre); località tra Toscana ed Emilia, poste lungo la linea mobile, ormai in arretramento, della linea gotica, oltre la quale nazisti e fascisti si ritirano.

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S. Anna di Stazzema. Bimbi e bimbe giocano in piazza

Non è possibile una valutazione certa del numero di vittime degli eccidi: le stime oscillano tra le diecimila e le quindicimila persone, coerentemente con la contabilità delle ‘nuove guerre’, nelle quali il numero dei morti civili sopravanza quello dei caduti militari. Eredità, questa, delle guerre coloniali di primo Novecento, condotte con astio e ferocia contro l’intera popolazione ‘nemica’, ritenuta inferiore nella gerarchia razziale e pertanto de-umanizzata. In particolare, in quell’estate occorreva terrorizzare la gente che iniziava a sperare nella fine della guerra e sognava la pace; occorreva dimostrare che chi soltanto risiedeva in un territorio ove la resistenza era attiva (o lo era stata) andava incontro alla morte, con la sua famiglia e con il suo paese per intero; occorreva spendere quell’eccesso di violenza e di empietà che conduce a uccidere con sofferenza e con spregio della vittima, caratteristica questa dell’ur-fascismo, secondo la definizione di Umberto Eco, ovvero del fascismo eterno, per il quale non c’è potere più inebriante di quello di dare la morte, a proprio arbitrio assoluto.

La strage di Sant’Anna di Stazzema è tra i più gravi massacri di civili compiuti in Italia dalle truppe naziste nel corso della guerra, seconda soltanto a Monte Sole. All’alba del 12 agosto, il 2° Battaglione del 35° Reggimento della 16a Divisione Panzer-Grenadier “Reichsführer SS” (secondo alcuni testimoni guidato da fascisti versiliesi) circonda di Sant’Anna, sulle Alpi Apuane; la frazione di Stazzema non è un abitato compatto, ma un villaggio costituito da numerose borgate sparse di case. Gli uomini riparano nei boschi; le donne, gli anziani, le bambine, i bambini restano nelle abitazioni, confidando nella propria condizione di inermi: dalle case (poi date alle fiamme) sono fatti uscire, in buona parte riuniti nella piazza della chiesa e qui passati per le armi. Tutti, tutte. 394, secondo la puntuale ricostruzione dello studioso Paolo Pezzino nell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, che ne computa il numero distinguendo il genere e le fasce d’età, fino alla piccola Anna, ultima nata di appena venti giorni. Anche Anna era considerata ‘ribelle’, dunque da uccidere, ed è uccisa, in braccio alla mamma: i pochi salvati sfuggono per fortuna o per caso. Anzi, 395, perché l’adolescente Maria muore, in seguito alle ferite, un mese e mezzo dopo. Anna, le 43 bambine e i 35 bambini di Sant’Anna (di età inferiore ai dodici anni) non sono uccisi per rappresaglia, come a lungo ha ritenuto una parte della comunità, la cui memoria è dolorosamente divisa, ma per precisa volontà degli occupanti tedeschi nell’ambito della cosiddetta ‘lotta alle bande’ (formazioni partigiane), da cui la Versilia, le Alpi Apuane, la Lunigiana erano ‘infestate’. Gli eccidi dell’estate del ’44 si configurano dunque «come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da ‘bonificare’, a priori considerati ‘partigiani’, il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage» scrive Paolo Pezzino, che all’eccidio ha dedicato un volume esemplare per rigore e documentazione.

Quando nell’altro (donna, omosessuale, ebreo, migrante, rom…) non si è disposti a riconoscere la comune umanità, si uccidono senza remora anche gli inermi (anzi, parafrasando Primo Levi, gli appartenenti a una umanità minore, i ‘sottouomini’, le vite che disturbano): Anna di 20 giorni e Maria di 16 anni, Amalia e Cesare, che di anni ne avevano rispettivamente 85 e 86.

La 16a Divisione Panzer-Grenadier era comandata dal generale Max Simon, un nazista criminale, e contava su ufficiali e sottufficiali altrettanto ideologizzati, che si erano formati alla mistica delle SS nei campi di sterminio del Reich e nelle operazioni di liquidazione delle comunità ebraiche nella Polonia occupata. Uccidevano perciò con noncuranza, e senza fatica: perché era facile rastrellare gli abitanti, disarmati, di casolari e di piccoli centri rurali o montani.

Ma non si muore mai abbastanza: Anna e Maria, Amalia e Cesare, e con loro altri 391 esseri umani, sono uccisi due, tre volte: dalle ragioni della ‘grande’ politica, perché l’Italia del dopoguerra è ormai alleata della Germania nell’Alleanza atlantica, e dalle ragioni del silenzio e della rimozione delle comunità, intimamente ostili a fare i conti con il passato, con le connivenze e le complicità. Nessuna Norimberga italiana, dunque, ma ‘archiviazione provvisoria’ di 695 fascicoli contenenti gli atti delle indagini svolte dagli organi di polizia italiani e dalle commissioni d’inchiesta angloamericane (con i nomi degli autori delle stragi), in un armadio con le ante rivolte al muro, posto in uno sgabuzzino al pianterreno di Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, a Roma. L’armadio della vergogna, dissepolto nell’estate 1994, in concomitanza con l’istruttoria per il processo al criminale nazista Erich Priebke, estradato dall’Argentina. A distanza di quasi cinquant’anni dai fatti, i fascicoli sono inviati alle Procure militari competenti. In particolare, alla Procura militare di La Spezia – competente per Emilia Romagna e Toscana – ne sono inviati 214. Dal 1995 al 30 giugno 2008 (data di cessazione di ogni attività dell’ufficio a causa della sua soppressione), grazie alla determinazione del Procuratore militare della Repubblica Marco De Paolis, la Procura spezzina istruisce complessivamente oltre 430 procedimenti di indagine; e dal 2003 al 2008 celebra 12 processi per crimini di guerra contro cittadini tedeschi e austriaci, già appartenenti alle SS o alla Wehrmacht. Tra questi, il processo per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, di cui sono inconfutabilmente riconosciuti responsabili dieci tra ufficiali e sottufficiali della 16a Divisione Waffen-SS (Max Simon è già stato dichiarato colpevole da una corte militare inglese a Padova, che lo ha condannato a morte il 26 giugno 1947; la sentenza è poi commutata nella detenzione, scontata in Germania fino al 1954, anno in cui il generale riceve la grazia). Tutti e dieci sono condannati all’ergastolo con sentenza 22 giugno 2005, n. 45, del Tribunale militare di La Spezia, confermata dalla Corte militare di appello di Roma con sentenza 21 novembre 2006, n. 65, e dalla Corte di Cassazione con sentenza 6-8 novembre 2007, n. 1362. Nessuno di questi uomini – che, dismessa l’uniforme, nella Repubblica Federale Tedesca hanno condotto esistenze ordinarie, talvolta anonime – ha mai scontato alcuna pena, neppure simbolica, per le proprie responsabilità nell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema. Una azione terroristica lontana ormai 75 anni, che ha causato la morte di 394 (395) innocenti: de-umanizzati, vite non degne, nemici da sopprimere nella visione del suprematismo razzista, che ancora rappresenta una tentazione per troppi.

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S. Anna di Stazzema, Intitolazione alla più giovane delle vittime, foto di Maria Pia Ercolini

Articolo di Laura Coci

y6Q-f3bL.jpegFino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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