“I have a dream”: un potente antidoto alla rassegnazione dell’oggi

Ci sono sguardi di rassegnazione che una madre non vorrebbe mai vedere negli occhi del proprio figlio e sensazioni di impotenza che un genitore non dovrebbe mai provare di fronte a situazioni impossibili da spiegare, ma soprattutto da sopportare. È quello che però accade oggi in Italia, in questa “estate del razzismo”, come l’ha definita in una lettera al direttore di Repubblica Gabriella Nobile, una madre adottiva di due bambini africani, che ha fondato Madri per la pelle, un’associazione di madri adottive e non con figli/e che possono diventare oggetto di discriminazione per le loro origini e per il colore della pelle. Questa madre racconta di come la sua famiglia sia stata oggetto di insulti razzisti in una delle tante località marittime italiane in cui molte di noi stanno trascorrendo o hanno trascorso le vacanze estive, riportandoci, e cito dalla lettera, “a esperienze viste e raccontate nei film degli anni Cinquanta e Sessanta sulla condizione dei neri”.

Di fronte al dolore e alla rassegnazione del figlio di Gabriella Nobile, un ragazzo che, con gli occhi bassi, racconta alla madre di essere stato insultato in spiaggia a causa del suo colore e di non essere considerato italiano proprio per ciò, non è facile trovare le parole, quelle giuste. Forse bisognerebbe tornare indietro perché a volte, per andare avanti, bisogna farlo per riscoprire valori preziosi e irrinunciabili. Eccoci dunque a un’altra estate, quella del 1963, che venne definita grandiosa ed epica perché un movimento, nato dal basso e guidato da un pastore protestante, lanciò un’offensiva storica al sistema segregazionista americano. Alla base di questo movimento c’era la lezione gandhiana della resistenza non violenta e di un pacifismo realista teorizzato da un leader che seppe coniugare la sua profonda fede religiosa con il rifiuto di qualsiasi forma di violenza e con una forte determinazione, costantemente sostenuta da una mente aperta e dedita alla ricerca della verità.

Lui era Martin Luther King e il momento culminante della battaglia da lui condotta insieme alla popolazione nera americana fu proprio la Marcia su Washington del 28 agosto 1963, che si concluse con il famoso discorso I have a dream. Avere un sogno fu il più potente catalizzatore dell’azione politica di M. L. King e diede un contributo fondamentale alla battaglia dei neri americani  contro la profonda ingiustizia subita da loro e dallo stesso loro leader, nato e cresciuto in Georgia, uno degli Stati del Sud in cui la segregazione razziale era una realtà profondamente radicata nel tessuto sociale. Il pastore protestante, che guidava questo Movimento per i Diritti Civili, era convinto che il sistema segregazionista fosse privo di qualsiasi spiegazione razionale e fosse ingiustificabile dal punto di vista etico. Era inoltre consapevole che per abbattere le barriere delle leggi, che impedivano ai neri e alle nere statunitensi il pieno godimento dei loro diritti, fosse necessario coniugare l’unione della popolazione nera e la collaborazione con quella bianca. Perciò scelse le armi più potenti di cui disponeva per guidare il suo popolo: la predicazione e la resistenza non violenta.

Il pastore, Premio Nobel per la pace nel 1964, seppe unire al potere pervasivo della parola la proclamazione di una serie di campagne di protesta, che ebbero inizio a metà degli anni ’50, con il boicottaggio degli autobus nella città in cui lui stesso esercitava il suo mandato evangelico. Proprio lì a Montgomery si era verificato un fatto straordinario: Rosa Parks, non una fanatica, non un’attivista per i diritti dei neri, ma una persona semplice e pacata, aveva difeso la propria dignità rifiutandosi di lasciare il posto da lei occupato sull’autobus a un passeggero bianco, salito dopo di lei, che lo rivendicava sulla base del sistema segregazionista. Per questo venne arrestata e la comunità nera, guidata da M. L. King, si mobilitò, rifiutandosi per mesi di utilizzare gli autobus-ghetto e ottenendo, infine, il riconoscimento, da parte della Corte Suprema degli Usa, dell’incostituzionalità del regime segregazionista dell’Alabama in merito all’accesso agli autobus. 

Seguirono altre battaglie: dall’occupazione delle tavole calde da parte degli studenti neri di Atlanta, alle intense attività di protesta in due roccaforti del Ku Kux Klan come Albany e Birmingham e che si conclusero con la Marcia su Washington.

Il 28 agosto 1963, una folla di 250.000 persone, bianche e nere, credenti e atee, provenienti da tutti gli Stati dell’Unione, era compostamente posizionata davanti al Lincoln Memorial dimostrando al mondo come la pacatezza e la gentilezza nei modi, unite alla fermezza e alla determinazione degli intenti, possano essere non solo un potente antidoto nei confronti dell’insulto e della violenza verbale e fisica, ma anche ciò che trasforma una semplice rivolta in una rivoluzione. 

 

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L’appassionata orazione, recitata da M. L. King a conclusione del raduno, dimostra come sia possibile coniugare combattività e moderazione per cambiare non solo le istituzioni, ma anche le persone. Chiamando in causa Il Capitano di Whitman, quell’Abramo Lincoln che 100 anni prima aveva firmato il Proclama dell’Emancipazione con cui veniva abolita la schiavitù, King nel suo discorso utilizzava il termine paralisi per descrivere la condizione della popolazione oppressa dalla segregazione e dalla discriminazione razziale. Continuava poi facendo ricorso all’immagine del debito che la popolazione nera con quell’imponente raduno veniva a riscuotere perché la Costituzione, firmata nel giorno dell’Indipendenza, era una cambiale che prometteva a tutti i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Non era stato così e, con le proteste e quella marcia, i neri reclamavano ciò che spettava loro. M. L. King sottolineava l’emergenza di ottenere subito le promesse democratiche contenute nel testo costituzionale per il bene di tutte/i dal momento che, secondo lui, non ci sarebbero state tranquillità e serenità per il popolo americano fino a quando non fossero stati riconosciuti a tutti i diritti di cittadinanza. In totale accordo con i principi della non violenza, il pastore sottolineava poi il rifiuto radicale dell’odio e della violenza e la necessità dell’alleanza con la popolazione bianca.

La convinzione che un cambiamento ci sarebbe stato, che la sofferenza patita sarebbe stata redentrice e che crogiolarsi nella disperazione non avrebbe risolto nulla, precede la parte più coinvolgente e illuminante del discorso: il momento in cui M. L. King associa la lotta per la parità dei neri a un sogno profondamente radicato a quello americano. Il suo I have a dream si fonda infatti sull’assunto che l’uguaglianza e la fratellanza sono i valori che una società, se si definisce democratica, deve in modo assoluto e inderogabile garantire a tutti. 

Nella nostra era, quella “del post” per dirla alla Stajano, dove si agitano “nazionalismi, localismi e nuove forme di razzismo” che si nutrono della delusione, dell’incertezza e dell’insicurezza e seminano odio e rancore utilizzando le armi dell’insulto e della violenza, le parole di M. L. King aprono una breccia nei muri che si stanno alzando e nei porti che si stanno chiudendo, quando andrebbero invece costruiti ponti.

Se Bertold Brecht affermava che è “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, credo che sia invece fortunata quella che riesce ancora a generare sognatori appassionati, moderati e determinati come King che ebbe, fra l’altro, un grande dono: la capacità di proiettare l’io nel tu e creare un noi forte, pervasivo, vincente. 

E se è vero che i sogni sono desideri con le ali, quello di M. L. King volò molto in alto, anche quando venne messo a tacere con un colpo di fucile alla testa; ma come tutte le macchine volanti anche il suo sogno necessita di un’accurata manutenzione a cui tutti noi, sognatori postmoderni e non, siamo chiamati.

Articolo di Alice Vergnaghi

Lh5VNEop (1)Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.

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