Il paradiso all’inferno. Il sorriso e il coraggio di Padre Pino Puglisi

Nato in terra e nato al cielo nello stesso giorno e nello stesso luogo, dopo aver vissuto 56 anni di amore come instancabile dono di sé: don Giuseppe Puglisi nasceva a Palermo il 15 settembre 1937 e lì moriva il 15 settembre 1993, ucciso da un sicario della mafia. Nella parrocchia di San Gaetano a Brancaccio venne nominato parroco dal 29 settembre 1990. Brancaccio è uno dei quartieri più degradati di Palermo, in cui vicoli stretti convivono con casermoni di cemento, figli di una selvaggia speculazione edilizia. Tra le case del quartiere negli anni Ottanta si è combattuta una sanguinosa guerra tra cosche mafiose, le famiglie Bontade e Inzerillo da una parte e la famiglia Greco, alleata con i corleonesi, dall’altra: più di cento morti in due anni, una vera e propria guerra, come tutte quelle scatenate da Cosa Nostra. A Brancaccio mancano scuole, asili, biblioteche, ospedali, spazi verdi: una Eboli siciliana, abbandonata da Cristo e dal mondo. Fino a quando arriva “don Treppì”, “΄u parrinu” che Cristo ce lo porta non sotto forma di stereotipata predica ma di fatti e azioni concrete. 

La sua azione missionaria comincia in realtà molto prima: nel 1967, a trent’anni, è nominato cappellano dell’Istituto “Franklin Delano Roosevelt”, un orfanotrofio nella borgata palermitana marinara dell’Addaura che ospitava figli di carcerati, di prostitute e ragazzi e ragazze senza famiglia. Sono gli ultimi del Vangelo, i poveri della terra, i diseredati, figli e figlie di una società violenta e degradata che la cultura mafiosa contribuisce ad impoverire sempre di più. Padre Puglisi ha una dote importante per chi desidera essere a fianco degli ultimi: sa ascoltare, ha pazienza, non è arrogante, non impone mai il suo pensiero. Roberto Picone, suo collega insegnante, dirà di lui: «I ragazzi capivano subito che non voleva la folla o gli applausi. Voleva solo che ciascuno comprendesse meglio il senso della propria vita». Dopo quattro anni viene trasferito a Godrano, un paesino a pochi chilometri da Corleone, patria di Totò Riina, in cui serpeggiano antiche inimicizie tra famiglie, spesso sfociate in regolamenti sanguinari di conti. Don “Treppì” decide di ripartire dai bambini e dalle bambine, educando i giovanissimi ad essere immuni alla cultura dell’odio e preservando la loro innocenza con la cultura del dialogo e dell’amore: riesce così a riconciliare le famiglie con l’esercizio del perdono e della pace, conquistando per sempre il loro affetto e la loro fiducia a Godrano.

Nel 1978 ritorna a Palermo per insegnare religione al Liceo “Vittorio Emanuele II”: don Pino ascolta i e le giovani, li aiuta, insegna loro a seguire sogni e desideri, a cercare e trovare il senso della loro esistenza nei valori profondi dell’amore, dell’amicizia, del dono gratuito di sé agli altri anziché nell’effimero consumismo che ammalia i ragazzi e le ragazze e spesso conduce a scelte di egoistico edonismo. 

Dal maggio del 1990 svolge il suo ministero sacerdotale anche presso la “Casa Madonna dell’Accoglienza” a Boccadifalco, dell’Opera pia Cardinale Ruffini, in favore di giovani donne e ragazze-madri in difficoltà. Nel 2013 una giovane donna ospite della “Casa dell’Accoglienza” parla di don Puglisi dando testimonianza della sua opera pastorale: «Don Treppì, assistente spirituale, veniva tutte le settimane a stare con noi, allietarci un momento, incoraggiarci con costanza, e celebrare l’Eucaristia, animandola insieme a noi. […] Aveva una grande capacità di ascolto, e gli bastava guardarmi negli occhi per leggere i miei turbamenti, le mie paure, le mie perplessità. Allora mi invitava a tirar fuori tutto quello che tenevo dentro e con dolcezza mi ascoltava. La sua era una presenza discreta, ma profonda, per nulla insistente, sincera e disinteressata. Alla fine, mi diceva sempre: “Non devi aver paura perché Lui è con te e ti vuole bene e anch’io ti voglio bene!”. Con quelle semplici e umili parole aveva la capacità di infondermi una prepotente serenità, nonostante tutti i miei pensieri, tutte le mie paure, le mie ansie, i miei scoraggiamenti». 

Nominato parroco a Brancaccio nel 1990, fonda il Centro “Padre Nostro”, che diventa il punto di riferimento per giovani e famiglie del quartiere, e si adopera affinché la politica e le autorità elargiscano fondi e concessioni per dotare il quartiere di un asilo, di una scuola media e di un consultorio. 

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Bussa a decine e decine di porte, sale e scende mille scale nei palazzi del potere, percorre centinaia di volte i corridoi che portano alle stanze degli amministratori. Nessun aiuto gli viene concesso. Significativo è a tal proposito un passo del romanzo di Alessandro D’Avenia intitolato Ciò che inferno non è, ispirato alla storia di don Pino Puglisi – che fu professore dello scrittore al “Vittorio Emanuele II” per alcune supplenze: «Don Pino risale dalla piazza dei Quattro Canti di Città verso monte. […] Sta tornando dall’ennesima battaglia inutile combattuta nei corridoi della burocrazia, dove ogni sfida si perde, per stanchezza e disincanto. Non la faranno mai questa scuola media a Brancaccio, né gli daranno mai gli scantinati del palazzone di via Hazon per avviare, lì, almeno un’ipotesi di scuola. Sono locali del comune, abusivamente occupati per attività illecite. Assomigliano ai gironi dell’inferno dantesco, con tanto di indirizzo e codice di avviamento postale. Un inferno polifunzionale: magazzino d’armi e droga, bisca per duelli tra cani e scommesse, alcova di acerba carne prostituita. Ma i permessi non arrivano. I permessi per la normalità non arrivano mai. Non si arrenderà, don Pino, continuerà a insistere, dovesse lasciarsi le nocche delle dita a furia di bussare alle porte da cui escono i permessi. […] Don Pino sa perché dicono no, sa chi dice no, ma insiste, come la goccia sulla roccia. Un giorno va lui a presentare la richiesta, un giorno va qualcuno del comitato intercondominiale, un giorno un amico, un giorno… Goccia dopo goccia, la pietra si spacca: “Disse la goccia alla roccia, dammi il tempo che ti percio” gli ripeteva sua madre quando voleva insegnargli la pazienza che lui non aveva». 

Don “Treppì” non si arrende, con la fede e la pazienza che ha imparato ad esercitare nella vita non desiste dai suoi propositi: il Centro “Padre Nostro” nasce per tamponare alla mancanza di soluzioni per Brancaccio e le sue miserie da parte delle istituzioni: «A volte si pensa che la mafia sia la violenza del pizzo, gli omicidi, le bombe. Ma don Pino lo sa che la vera violenza è l’assenza di una scuola media in un quartiere di quasi diecimila anime». L’ingresso disadorno e semplice del centro sociale è abbellito da due sole fotografie che ritraggono due uomini giusti del nostro tempo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Il suo sacerdozio non consiste in prediche dal pulpito e discorsi moraleggianti, come quelli di tanti preti che vivono la loro vocazione dimenticando l’essenza della loro missione, basata sul comandamento evangelico Ama il prossimo tuo come te stesso. Padre Puglisi propone ai bambini e alle bambine del quartiere il gioco piuttosto che il furto, il sostegno scolastico anziché la pistola. È credibile perché è coerente, perché assume su di sé i loro problemi e si rende, nei fatti, un loro compagno di strada, presente nel momento del bisogno. Don Puglisi sale sull’ambone della parrocchia per redarguire senza timore i mafiosi, gli “uomini d’onore”: «Con che faccia vi presentate qui, in questo quartiere, con i problemi che ci sono, e che nessuno di voi aiuta a risolvere?», e ancora: «Chi usa la violenza non è un uomo, è un animale». L’apostolato di don Pino è concreto, fatto di azioni che attirano ogni giorno giovani, bambine e bambini, sottraendoli al degrado della strada e, dunque, all’adescamento da parte dei mafiosi e della loro cultura dell’odio e della violenza. Don Pino sottrae manovalanza alla fabbrica di morte di Cosa Nostra e sull’altare del sacrificio di Cristo porta tutto: la sofferenza delle persone, i diritti negati, l’offesa subita dai cittadini e dalle cittadine, gli attentati mafiosi. Il prete comincia a dare fastidio, va richiamato all’ordine: minacce, intimidazioni, avvertimenti, ma don Puglisi non abbassa la testa e non si arrende. Non si è mai arreso, non ha mai smesso di operare il bene e di sorridere alla vita. Anche la sera del suo cinquantaseiesimo compleanno sorride, quando di ritorno a casa sua, mentre si accinge ad aprire il portone, gli si avvicinano due uomini, Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, killer di Cosa Nostra. Dopo l’arresto Grigoli diventerà collaboratore di giustizia e racconterà: «[…] ebbi il tempo di notare che lo Spatuzza si avvicinò, gli mise la mano nella mano per prendergli il borsello. E gli disse piano: “Padre, questa è una rapina”. Lui si girò, lo guardò, sorrise – una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte – e disse: Me l’aspettavo. Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca». 

Un mese dopo l’uccisione di don Pino per le strade di Brancaccio sfila un corteo di gente che, scossa dall’ennesima tragedia di sangue, vuole gridare alla città il suo “no” alla cultura della paura, della sottomissione all’ignoranza, della violenza, della disonestà, della morte: “L’Italia è nostra, non di Cosa Nostra”, “Padre Puglisi è vivo, padre Puglisi siamo noi”, “Avete ucciso un prete, non le sue idee”. Tra gli striscioni marciano Rita Borsellino e il sindaco Leoluca Orlando insieme a tanti uomini e tante donne che hanno fame e sete di giustizia. Il suo sacrificio, come il seme del Vangelo che gettato nel terreno muore e porta frutto, ha prodotto la continuazione delle sue battaglie con alcune grandi vittorie: una scuola media, una biblioteca e una palestra a Brancaccio. 

Padre Pino Puglisi non si è mai dichiarato prete antimafia, non ha fondato associazioni apertamente antimafia: ha incarnato lui stesso l’antimafia, facendosi carico dei problemi del quartiere e della sua gente e promuovendo tutte le azioni concrete di cittadinanza attiva e responsabile in contrasto alla cultura della malavita, senza nascondersi mai dietro alibi e scuse, con la forza interiore della sua fede, che non agiva mai come una dottrina da imporre in crociate ideologiche, ma che metteva in pratica con l’esempio della sua vita e con l’amore che ha donato a tutte e tutti coloro che gli erano intorno. 

Il 7 dicembre 2001 sono stati condannati all’ergastolo i responsabili dell’assassinio di don Puglisi: i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss di Brancaccio legati alla famiglia di Leoluca Bagarella e mandanti dell’omicidio; Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone, tutti componenti del commando; Salvatore Grigoli, esecutore materiale.   

Il 25 maggio del 2013 don Pino è stato riconosciuto dalla Chiesa Universale “Beato”, martire in odium fidei, testimone cristiano contro la criminalità mafiosa fino all’estremo dell’esempio di Cristo che si immola in croce per la redenzione dell’umanità. La sua parrocchia era diventata un covo di legalità, il suo operato sacerdotale è andato verso le periferie dell’esistenza umana e da lì non si è mosso anche di fronte alle minacce e alle intimidazioni. Era consapevole del pericolo che correva, ma aveva deciso di vivere la sua vocazione di vita con coerenza, da fedele servitore del Vangelo e umile testimone di Cristo e di quel messaggio universale di amore e speranza che può salvare il mondo dall’odio, dalla malvagità e dalla disperazione. 

La società, le istituzioni, la scuola, hanno l’obbligo di conoscere l’opera di don Puglisi e di tutti gli eroi ed eroine del contrasto alla cultura mafiosa, perché oggi più che mai è fondamentale gettare nel terreno dell’umanità i semi di valori come l’onestà, la dedizione al lavoro e al sacrificio, la bontà e l’amore verso il prossimo, la solidarietà e il rispetto verso gli esseri umani e verso tutte le creature e la nostra casa comune che è la Madre Terra. Non c’è bisogno di andare molto lontano: possiamo farlo tutti e tutte, sul posto di lavoro, con i nostri figli e le nostre figlie, con i nostri e le nostre studenti, con il vicinato, nei luoghi che abitiamo e frequentiamo. Don “Treppì” diceva: «Le nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno. Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci. È soltanto un segno per fornire altri modelli, soprattutto ai giovani. Lo facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto». Non abbiamo paura di parlare di mafia, di ‘ndrangheta, di camorra, di cultura del male, nelle scuole, nelle piazze, nelle case, non tiriamoci indietro di fronte alla denuncia, al contrasto di ogni atteggiamento che lede la dignità delle donne e degli uomini, alla cattiveria e alla sopraffazione dei diritti universali degli esseri umani. Facciamo nostre le parole di don Pino Puglisi: «È importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma se ci si ferma a questo livello, sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti». 

Alessandro D’Avenia, nel suo romanzo sopracitato, immagina un dialogo molto profondo e veritiero tra il protagonista adolescente della storia e don Pino. Federico chiede a “Treppì” come fa a non scoraggiarsi mai ed egli risponde: «Io ho Gesù con me, sempre, e poi cerco di fare come un giardiniere. Provo a trattare tutti come il grano. Solo se tratti il grano da grano diventa pane. L’elemosina non basta, ci vuole l’amore. […] Se nasci all’inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esista altro. Per questo bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore. Ecco perché sono necessari un asilo e una scuola media. Non ci vuole la forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia. Non hai idea di cosa si può fare con queste tre cose». 

Ci servono testa, cuore e braccia per cambiare il mondo e ci serve dare speranza. A chi?

«A chi testimoniare la speranza?
A chi ha rabbia nei confronti della società che vede;
a chi è pieno di paure e di ansia;
a chi è impaziente perché ciò che desidera tarda a realizzarsi;
a chi è sfiduciato per le sue cadute.
Si deve dare la speranza a chiunque chieda segni di amore». 

Per saperne di più:

  • Pier Giorgio Viberti, Gli uomini del disonore, Edisco, Torino 2012
  • Alessandro D’Avenia, Ciò che inferno non è, Mondadori, Milano 2014
  • www.beatopadrepinopuglisi.it 

 

Articolo di Valeria Pilone

Pilone 400x400.jpgGià collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.

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