Quando entravo nella “casa” della nonna (cfr il brodo di VV numero 40), la prima cosa che andavo a guardare era l’anta della credenza dove di solito la nonna riponeva il pane, in un cestino di vimini coperto da un tovagliolo. Un pane bianco, uno sciocco, quello senza sale con la crosta dorata, in uso in Toscana e dintorni.

Cercavo il pane raffermo, quello del giorno prima, che aveva cambiato odore, dove l’alcool dei lieviti cotti lasciava il posto all’aroma di farina bagnata. Era il profumo del ritorno. E allora ne staccavo un pezzo e lo mangiavo con un poco di olio e sale, e, a volte, quando la nonna non guardava, avevo imparato dal nonno a metterci una grattata di pepe.
Era la merenda del pomeriggio d’estate, magari con uno schizzo di aceto per distrarci dal piccante del pepe o, quando era tempo, con una strofinata di pomodoro maturo e una foglia di basilico a pezzetti. Altre volte, in mancanza di basilico, si andava nei campi vicini a tirar via qualche foglia di menta.
Ma anche in una insalatiera di quelle grandi, quando ne restava un po’ di più, specie dopo un pranzo di famiglia, bagnato con acqua e aceto, con dentro pomodori, sedano, erbe, cipolla a spicchi, cetrioli a fette, peperoni a striscioline e un trito di aglio e alici, e tutto quello che ti ci garba dentro, per una panzanella. Fatta magari oggi per domani, che prende più sapore.
Quello raffermo era anche il pane per la cena più povera che io ricordi. Bastava mettere in un tegamino una foglia di alloro e uno spicchio d’aglio nell’acqua, portare a bollore, immergere il pane tagliato a barchette, salare, pepare, un filo d’olio ed ecco la pappa con l’olio. Povero come un frate cappuccino cacciato dal convento, ma profumato come una bottega di fiori e sapone.
E infine bagnato e mescolato con uova e farina, un pizzico di noce moscata, lavorata con le mani dentro una zuppiera fino a farne un impasto molle e un po’ viscido, che mia zia scappava perché gli sembrava la gelatina di Blob, che buttata a cucchiaiate nell’acqua bollente diventa gnocco di farina.
Oppure secco, ma proprio secco duro, da succhiare sul sedile per fermare il mal di macchina lungo i 50 chilometri di tornanti della Colla di Casaglia, strada obbligata per raggiungere il pane raffermo della nonna.
Alla prossima.
Articolo di Fabrizio Samorè
Sposato, quattro figli che vanno, che tornano, che si perdono ormai nel mondo. Camperista ogni volta che si può. Una famiglia di cucinieri a vario livello e in vari luoghi del mondo, una passione per la buona tavola che non ha mai voluto trasformare in “mestiere”. Dirigente sindacale, mescolato con le battaglie sui diritti delle donne fin dalla pubertà.