Quando si chiede di associare ad una data il corrispondente avvenimento storico, sono in molti a non sapere, a balbettare, a rivolgere gli occhi al cielo in cerca di un’illuminazione divina, ma ce n’è una che pochi sbagliano e che forse quasi tutti conoscono: 1492 = scoperta dell’America, Colombo, caravelle e il finanziamento della regina Isabella di Castiglia. Quell’anno è rimasto nella memoria collettiva per un avvenimento epocale, ma non fu l’unico che ebbe la Spagna come protagonista.

Il 31 marzo 1492 la regina Isabella di Castiglia e il re Ferdinando d’Aragona, il cui matrimonio aveva unito le corone dei due più grandi regni cristiani della Penisola Iberica, firmarono un editto che decretava l’espulsione di tutti gli ebrei osservanti, cioè non convertiti al cristianesimo. L’ordine perentorio era che entro il 31 luglio dello stesso anno questo gruppo consistente di spagnoli lasciasse il Paese senza portare con sé né oro né monete coniate. Le stesse misure vennero estese ai territori aragonesi in Sicilia, dove era presente una florida comunità ebraica di circa 25.000 individui, e in Sardegna. Il motivo della radicalità di questi provvedimenti, e di quelli che successivamente interessarono le comunità non cristiane, va ricercata sia nel contesto storico-politico in cui vennero approvati, sia nell’ossessione per la purezza del sangue che si era andata diffondendo nel territorio spagnolo.
Per comprenderne appieno i risvolti, è necessario fare un passo indietro e ricordare come il XIV secolo fu uno dei periodi più drammatici per la popolazione ebraica d’Europa: nel 1347-1348 venne accusata di aver avvelenato i pozzi e di aver provocato l’epidemia di peste nera che aveva decimato i popoli europei; nella seconda metà del secolo fu oggetto di persecuzioni che si concentrarono soprattutto in area spagnola dove era ospitata una delle comunità più numerose e fiorenti. I più gravi e consistenti tumulti scoppiarono intorno al 1390 e provocarono circa 4000 morti solo a Siviglia a seguito della predicazione antiebraica di Ferrando Martinez d’Ecija, confessore del re di Castiglia. Da lì le persecuzioni si estesero in tutti i territori spagnoli cristiani raggiungendo addirittura le Baleari: coloro che rifiutavano di essere battezzati/e, venivano sistematicamente uccisi/e. A seguire un predicatore errante, Vincenzo Ferrer, dal 1409 al 1415 percorse la Castiglia, l’Aragona e la Catalogna e, pur non mostrando segni di un acceso antiebraismo, persuase le folle con l’idea che fosse imminente il Giudizio Universale: alla sua partenza si verificavano puntualmente ritorsioni contro le famiglie ebree. La preoccupazione principale di Ferrer e, in generale, dei predicatori spagnoli dell’epoca era quella di convincere la popolazione ebraica alla conversione, e pare che l’azione di Ferrer ne abbia provocate 35000, ma anche e soprattutto di impedire i contatti tra i convertiti e quelli che avevano mantenuto la propria fede. Proprio per perseguire questo, Ferrer riuscì a far approvare uno statuto nel 1412, lo statuto di Valladolid, che prevedeva l’obbligo per le persone ebree di risiedere in un quartiere separato, chiuso da una cinta muraria dotata di un unico ingresso che veniva chiuso e sorvegliato di notte. Di fatto si trattava di un ghetto anche se la parola non è di origine spagnola, ma veneziana: nel 1516 infatti il Maggior Consiglio della Serenissima varò una serie di disposizioni che prevedevano che gli/le ebrei/e della Repubblica risiedessero in un’isola che era stata la sede di una fonderia che produceva armi da fuoco. Il termine ghetto deriverebbe quindi, secondo una delle possibili ricostruzioni etimologiche, dal veneziano gèto o gètto con cui veniva soprannominato dagli abitanti di Venezia quel luogo. Il suono occlusivo velare, la g dura di ghetto, sarebbe dovuta agli ebrei aschenaziti, cioè provenienti dalla Germania, che erano soliti pronunciare in quel modo la parola.
Nonostante la conversione, le/i cittadine/i spagnoli che avevano abbracciato il cristianesimo furono comunque oggetto di disprezzo e discriminazione: erano chiamati/e conversos, ma anche marranos, parola la cui derivazione potrebbe essere legata al termine con cui l’antico castigliano designava il maiale oppure a quella araba mahram cioè “cosa proibita”. Entrambi i termini avevano valore spregiativo, analogo a “traditore” o anche “falso” in quanto si riteneva che la conversione non fosse sincera. Proprio a causa di ciò si verificarono a metà del ‘400 in alcune città spagnole delle vere e proprie rivolte contro i/le marranos, una delle più tristemente famose fu quella di Toledo a seguito della quale nel 1449 fu approvata un’ordinanza il cui contenuto era inequivocabile: «Dichiariamo che tutti i suddetti conversos discendenti dalla perversa razza degli Ebrei […] a causa delle eresie e degli altri summenzionati delitti, insulti, sedizioni e crimini da loro commessi fino ad oggi, devono essere considerati giuridicamente infami, inabili, inetti e indegni di ottenere uffici e benefici pubblici e privati nella suddetta città di Toledo […]».
Proprio al fine di svelare la vera natura delle conversioni, oltre a combattere le più tradizionali forme di eresia, venne istituito a Siviglia nel 1480 il Tribunale dell’Inquisizione guidato dal crudele ed inflessibile Tomás Torquemada, che oltre ad esserne il capo, era anche il confessore della regina Isabella. La fondazione di questa istituzione ecclesiastica spagnola è riconducibile a Papa Sisto IV che rispose affermativamente ad una specifica richiesta di Isabella e Ferdinando. La regina e il re dei due principali regni cristiani di Spagna si fecero, infatti, interpreti di quel processo di unificazione nazionale che stava interessando, nel corso del XV secolo, le varie monarchie feudali, che si stavano appunto trasformando in nazionali, e spinsero sull’elemento che sarebbe stato in grado di avvicinare portoghesi e spagnoli, castigliani e catalani: la comune appartenenza al cristianesimo. Non a caso i due sovrani intrapresero un’imponente campagna militare contro l’ultimo baluardo musulmano in Spagna, il Regno di Granada; l’impresa si rivelò più ardua del previsto e, pur di ottenere la resa, Isabella e Ferdinando accettarono un patto di capitolazione che avrebbe consentito ai musulmani, ma anche ai residenti ebrei di Granada, di continuare a professare la propria fede.
Venivano chiamati moriscos, termine con cui ancora oggi in Spagna ci si riferisce ai musulmani e che venne attribuito loro per la carnagione più scura come quella delle popolazioni berbere della Mauritania (i mauri traslato poi in mori), quella parte della popolazione spagnola a cui il famoso patto di capitolazione avrebbe dovuto riconoscere la libertà religiosa, ma il loro destino fu simile a quello della comunità ebraica. Nel 1499, infatti, furono anche loro obbligati a convertirsi e subirono le stesse ritorsioni discriminatorie riservate in un primo tempo agli/lle ebrei/e. Oltre all’esclusione sociale e culturale, l’azione dell’Inquisizione spagnola si esercitò impiegando gli stessi metodi utilizzati per i/le marranos: se nel nostro sistema giuridico si è innocenti fino a prova contraria, in quello inquisitoriale spagnolo si era colpevoli di una non sincera conversione fino a prova contraria e per persuadere i giudici della propria fede cristiana si dovevano sopportare inaudite torture. Per comprendere questo sistema, è utile citare quanto scrive il commentatore spagnolo Francisco Pena nel XVI secolo: «Se un innocente viene ingiustamente condannato non deve lamentarsi della sentenza della Chiesa, che si basa su una prova sufficiente, e non può giudicare quel che è segreto. Se dei falsi testimoni l’hanno fatto condannare, egli deve accettare la sentenza con la rassegnazione e rallegrarsi di morire per la verità».
La popolazione musulmana si ribellò nel 1502 a quest’ingiusto sistema segregatorio e inquisitoriale e la sommossa si estese a partire da Granada coinvolgendo altre zone della Spagna fittamente popolate di moriscos. Dopo un’implacabile repressione, venne deciso di estendere a tutta la Castiglia l’ordine di conversione e chi voleva mantenere la fede islamica fu costretto ad emigrare.

La stessa sorte toccò alla comunità musulmana aragonese che nel 1525/26, a seguito di una serie di brutali imposizioni compiute dai cattolici, si dovette adeguare o all’abiura o all’emigrazione. Per quanti scelsero la strada della conversione però la situazione non migliorò dal momento che, avendo conservato numerose abitudini e tradizioni arabe che andavano dall’uso della lingua a quello dei costumi tipici moreschi fra cui l’uso del velo per le donne, furono oggetto di provvedimenti, emanati a partire dal 1566, che vietavano loro il mantenimento di questi usi e costumi. Ancora una volta i moriscos granatini si opposero fermamente dando vita ad una guerra contro l’autorità regia che raggiunse punte di estrema violenza e venne domata nel 1570 con la dispersione e la deportazione dei ribelli in alcune zone della Spagna. Nel giro di pochi anni in queste aree si ricostituirono comunità musulmane ricche e fiorenti in virtù sia delle abilità in alcuni settori fra cui il commercio e l’artigianato, sia per l’elevato tasso di crescita demografica. Ancora una volta giudicata pericolosa dalle autorità spagnole, alla comunità musulmana di Spagna toccò una sorte simile a quella ebraica: tra il 1609 e il 1614 venne espulsa. I dati della diaspora di ebrei/e e poi di musulmani/e ci aiutano a riflettere sulla portata del fenomeno che riguardò prima la Spagna, ma che poi interessò anche il Portogallo. Dopo i decreti del 1492 la comunità ebraica si divise in due gruppi: 150.000 persone emigrarono, mentre 50.000 si convertirono subendo poi varie forme di discriminazione; i/le moriscos espulsi/e all’inizio del XVI secolo furono circa 300.000 su una popolazione di circa otto milioni di abitanti.
L’intransigenza e la radicalità con cui vennero discriminate e perseguitate le comunità ebraiche e musulmane in Spagna sono legate alla convinzione, all’epoca molto radicata, che non si poteva accettare l’esistenza di sudditi che professassero una religione diversa da quella della famiglia regnante e il panorama negli altri Stati europei non era molto diverso. A ciò si aggiunse l’ossessione nei confronti dell’accertamento della limpieza de sangre mediante statuti che potessero verificare la discendenza e che furono lo strumento di una vera e propria discriminazione razziale: non si era cristiani, ebrei o musulmani per un atto di fede, ma in base al “sangue” e chiunque avesse avuto una discendenza “impura” veniva discriminato attraverso il divieto d’accesso alle più prestigiose università spagnole, alle cariche pubbliche, agli ordini religiosi di francescani, domenicani e gesuiti per poi infine essere espulso. Con l’affermazione di questo principio si neutralizzava uno degli ingredienti decisivi che avevano reso la civiltà iberica una della più fiorenti in epoca medievale: la pacifica e proficua convivenza tra fedi e culture diverse. I notevoli livelli di sviluppo raggiunti tra i secoli XII e XIII sono testimoniati anche dall’opera di poeti e filosofi del calibro degli ebrei Solomon Ibn Gabirol, famoso soprattutto per il tentativo di capovolgimento del rapporto tra materia e spirito con l’attribuzione alla prima di capacità generative riconosciute solo allo spirito, e Mosé Maimonide, filosofo, ma anche rabbino che scrisse opere fondamentali per la letteratura rabbinica; come pure il musulmano Averroè, grande ammiratore di Aristotele e desideroso di restituirlo senza le deformazioni operate dai pensatori precedenti. Non dobbiamo dimenticare poi l’intraprendenza e le abilità tecniche che le comunità ebraiche e musulmane avevano da sempre dimostrato in settori chiave dell’economia locale quali la canalizzazione delle acque, l’irrigazione, la coltivazione e la lavorazione del baco da seta, nonché il commercio e l’artigianato che furono progressivamente sempre più disprezzati in quanto mestieri indegni perché praticati da non cristiani.
La Spagna che finanziò i grandi viaggi, primo fra tutti quello di Cristoforo Colombo, che costruì il primo grande impero extraeuropeo e visse quello che è stato definito il Siglo de Oro, sacrificò la propria capacità produttiva in nome della purezza del sangue, eresse muri invece di costruire ponti di conoscenze e culture condivise cedendo al principio primo di ogni razzismo, in cui non conta mai quello che davvero una persona fa o pensa, ma ciò che essa è in quanto appartenente ad un gruppo, e condannandosi ad una lenta, ma inesorabile decadenza.
In copertina: Paolo Uccello, Martirio dei colpevoli ebrei
Articolo di Alice Vergnaghi
Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.
Un bell’articolo, una corretta ricostruzione storica non dalla parte dei vincitori. Grazie!
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