Tra finzione e realtà: Francesco e Laura, storia di un incontro

Se, come dice Silvano Agosti: «ogni incontro è portatore di mistero», quello tra Francesco e Laura lo è ancora di più perché, nonostante i fiumi di inchiostro che sono stati versati, ancora oggi non sappiamo se sia realmente accaduto o sia frutto della fervida fantasia di un poeta che su quell’incontro si è giocato buona parte della sua produzione letteraria.
Sì perché lui è certamente esistito, è una delle colonne portanti della nostra letteratura italiana, una di quelle Tre Corone toscane che ci hanno donato uno dei nostri pezzi forti: la lingua italiana, lui è Francesco Petrarca. Nato nel 1304 ad Arezzo a causa dell’esilio, allora molto di moda per colpire i Guelfi Bianchi di cui il padre notaio era seguace, visse un’infanzia itinerante prima in Toscana e poi in Provenza, in particolare ad Avignone e dintorni, dove risiedeva allora la corte pontificia di Clemente V in piena “cattività avignonese” appunto. I primi studi del giovane Francesco avvennero ai piedi del Monte Ventoso, locus amoenus che sarebbe diventato un protagonista della sua poesia, insieme a Convenevole da Prato, esule e notaio come il padre. Seguirono poi gli studi giuridici prima a Montpellier e infine a Bologna, ma la morte del padre lo costrinse a rientrare ad Avignone dove trascorse alcuni anni conducendo una vita spensierata tra avventure galanti e l’ambiente mondano della corte papale che mostrava di apprezzare molto la sua cultura e i suoi modi affabili e brillanti.

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Davanti alla chiesa di Santa Chiara, parte di un antico convento di clarisse, nei pressi delle antiche mura di Avignone, all’alba del 6 aprile 1327, all’età di 23 anni, un giovane e un po’ scapestrato aspirante poeta incontrò la sua musa, Laura.

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Se sia vero oppure no, io dico sempre alle/ai mie/miei studenti che non lo so, certo è che nel terzo sonetto del Canzoniere, opera consacrata a quest’amore, Petrarca descrive minuziosamente i dettagli dell’incontro: «Era il giorno ch’al sol si scoloraro/per la pietà del suo factore i rai», era il giorno della Passione di Cristo e i raggi del sole impallidirono per il profondo sentimento di compassione provato nei confronti del suo Creatore che stava vedendo morire suo figlio. Senza sospettare nulla, Francesco baldanzoso percorre il solito tragitto che lo conduce alla corte papale, ma ecco che: «Trovommi Amor del tutto disarmato/et aperta la via per gli occhi al core». Improvvisamente l’Amore, quello con la A maiuscola, quello che capita raramente e ti coglie impreparato/a, lo ferisce con una freccia, come dirà nell’ultima terzina del sonetto, e rende gli occhi dei varchi dai quali sarebbero uscite molte lacrime. Petrarca dichiara subito di essere stato colpito mentre era disarmato, Laura, invece, è protetta, è difesa dalla sua onestà; di lei non conosciamo i sentimenti provati nei confronti del poeta, come del resto sappiamo poco o nulla della sua identità: pudore di un Petrarca premuroso nei confronti della donna che ama oppure abile costruttore di un’identità fittizia? Laura c’è oppure è un’idea?
Sull’esistenza di Laura, come sulla veridicità dell’incontro, tutto è incerto e si naviga tra molteplici ipotesi: un gruppo di studiosi sostiene che Laura non sia mai esistita storicamente. È un’invenzione letteraria necessaria per consacrare la poesia d’amore di Petrarca e ciò sarebbe testimoniato anche dalla scelta del nome che richiamerebbe il laurus, pianta sacra ad Apollo, dio della poesia. I più attenti ai meccanismi psichici, che si nascondono al di là dell’esperienza poetica, hanno visto in Laura l’ombra di un’altra donna, forse la madre del poeta, leggendovi le frustrazioni e le attese di un rapporto difficile. Altri ancora si dimostrano più possibilisti sull’esistenza storica della donna amata, ma ne sottolineano anche il valore simbolico. Sarebbe stata Laura de Noves, conosciuta anche con altri nomi, nata forse nel 1310 e sposa di Ugo de Sade, un marchese francese dal quale ebbe undici figli.

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Lo stesso Francesco Petrarca tentò di dirimere la questione, a mio avviso complicandola ulteriormente e volontariamente, con una lettera all’amico Giacomo Colonna che sosteneva che Laura non ci fosse. Petrarca rispose con una lettera che, sia nella stesura che nei toni, tradisce le reali intenzioni del poeta: innanzitutto venne rimaneggiata dopo vent’anni con un inasprimento dei contenuti, poi si nota un’energica protesta del poeta che, con toni duri e a tratti piuttosto scontrosi, si difende dall’accusa della falsa identità della donna. Insomma la sensazione è quella che Petrarca voglia convincerci, ma perché no anche convincersi, della reale esistenza di Laura. Un piccolo stralcio della lettera può esserci d’aiuto: «Che cosa dici? Che ho inventato il bel nome di Laura per poter parlare di lei e perché per causa sua tutti parlassero di me […] di quella Laura vivente, da cui sembrerei attratto, tutto sarebbe finto: finte le poesie, finti i sospiri […] Credimi, nessuno può fingere a lungo: affaticarsi senza scopo per sembrar pazzo è la più grande delle pazzie». La questione non è dimostrabile per cui ad ognuno di noi, lettori postmoderni, la responsabilità di decidere se Petrarca mentisse sapendo più o meno consapevolmente di farlo o dicesse la verità. La magia della poesia credo non stia nella ricerca di una verità spesso non verificabile, ma nel suo potere di rendere ideale, ma al tempo stesso reale un incontro, un personaggio, un luogo, insomma nella sua capacità di penetrare la realtà con occhi nuovi alla ricerca di qualcosa che sta al di là dello specchio.
Il Canzoniere è l’opera che ha consacrato l’amore per Laura e ci ha consegnato una tradizione lirica che per secoli condizionerà il nostro modo di fare poesia anche se il suo autore aveva puntato su altre opere per diventare grande, voleva esserlo con la sua produzione latina, ma alla fine il volgare ebbe la meglio e si dovette rassegnare. Due le sezioni che compongono la raccolta di liriche: in vita e in morte di Laura che morì lo stesso giorno e mese dell’incontro con il poeta, e questa è una coincidenza molto sospetta, il 6 aprile 1348, colpita da quell’epidemia di peste che sarà raccontata dettagliatamente nella cornice dell’opera di un intimo amico di Petrarca, Giovanni Boccaccio, nel suo Decameron.

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Laura rappresenta, per molti aspetti, una figura di donna nuova rispetto alla tradizione lirica precedente: è dotata di una personalità specifica, non è astratta e spirituale come le donne-angelo stilnoviste; è soggetta all’azione corruttiva del tempo, invecchia, si ammala e muore; il suo amore non è salvifico come quello di Beatrice per Dante, ma atterrisce, annienta l’amante. Questo è testimoniato nella bellissima Pace non trovo, et non ò da far guerra che è un inno all’amore come sentimento che genera contrasti e conflitti: «e temo, et spero; et ardo, et sono un ghiaccio;/ et volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra;/ et nulla stringo; et tutto il mondo abbraccio». L’amore per Laura non è spirituale, ma principalmente terreno e questo provoca in Petrarca un turbamento ancora maggiore perché lui vorrebbe liberarsi da questa passione che lo domina e lo imprigiona per poter sperare nella salvezza divina, ma non ci riesce, non può farlo perché vive in quell’ “età di mezzo”, tra Medioevo e Umanesimo, tra cielo e terra, dove non si hanno più le certezze della fede, ma non si è ancora convinti di potersi realizzare pienamente nell’ “al di qua”. Ecco dunque il senso di frustrazione che si trasforma in apatica accidia in un’altra opera petrarchesca, il Secretum, in cui l’autore si mette a nudo e mostra il suo mondo interiore lacerato e frantumato. La grandezza di Petrarca sta nell’aver tentato una ricomposizione di questa lacerazione attraverso la poesia, un’operazione ardita e rivoluzionaria: non mettere in ordine il caos interiore, ma creare un ordine metrico, sintattico, retorico per rappresentarlo con una lingua di tono medio, capace di realizzare un’armonia d’insieme in cui si abbia l’impressione di levigatezza, chiarezza, scorrevolezza, semplicità. Per dirla con Umberto Saba, un altro poeta che non a caso intitolerà la sua principale raccolta di liriche Canzoniere, «quante rose a nascondere un abisso».
E allora a noi che ascoltiamo nelle poesie di Petrarca il suono dei sospiri con cui alimentava il suo cuore nel tempo della sua prima e giovanile illusione d’amore (Canzoniere I), non resta altro che lasciarci trasportare da parole che benedicono il giorno, il mese e l’anno, la stagione, la parte del giorno, l’ora, l’istante, il bel paese e il luogo in cui lo sguardo fulmineo di Laura lo colpì legandolo a lei e provocando un dolce dolore, che è ossimoro, ma anche granitica essenza dell’amore (Canzoniere, LXI). Chiedendoci insieme a lui cosa sia questo sentimento che a volte si prova, quale ne sia la natura, se i suoi effetti siano buoni o nefasti e ancora come faccia a rendere sopportabile ogni possibile sofferenza che ci raggiunge (Canzoniere, CXXXII) e soprattutto domandandosi chi sia l’Altra, che si nega, che si compiace della sua bellezza davanti ad uno specchio e non si concede, non lascia speranza all’amato (Canzoniere, XLVI). Cosa resta quindi quando il rapporto con l’Altro/a, impossibile nelle realtà, diventa possibile solo nell’assenza? Petrarca risponde attraverso una delle tematiche, a mio giudizio, più potenti dell’opera e cioè attraverso la memoria e il ricordo dell’immagine di Laura nella famosa Erano i capei d’oro a l’aura sparsi in cui la bellezza dei capelli biondi variamente intrecciati dallo spirare del vento si lega con l’intensità di uno sguardo che si spegne progressivamente a causa dello scorrere inesorabile del tempo. Ricordare un amore però significa anche andare in pellegrinaggio sui luoghi in cui si è vissuto quell’amore come in Chiare, fresche et dolci acque, quelle del Sorga, tra Avignone e Valchiusa, dove Laura andava a rinfrescarsi per la calura e Petrarca la guardava, o la immaginava o la sognava mentre lei appoggiava con sensualità il suo fianco ad un ramo, oppure mentre ricopriva la gonna e l’affascinante seno con i fiori appena colti e a questo punto il poeta si augura di essere sepolto un giorno lungo le sponde di quel fiume nella speranza che la sua Laura possa tornarci e ricordarsi di lui piangendo sulla sua tomba. Questo andare incessante alla ricerca di conforto avviene in solitudine come in Solo et pensoso i più deserti campi in cui l’unico modo per alleviare la sofferenza per Laura sta nel meditare solitario lontano dagli sguardi indiscreti della gente, rispecchiandosi in una natura partecipe del dolore del poeta: «sì ch’io mi credo omai che monti et piagge/et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui».
Se fu reale o fittizio l’incontro tra Francesco e Laura, poco importa, quello che è certo è che generò una tempesta nel cuore del poeta che la espresse con dolci suoni e parole in grado di trasmettere uno dei messaggi più alti e immortali della poesia: quello di custodire, proteggere e tramandare il ricordo di un amore rendendolo eterno.

 

 

Articolo di Alice Vernaghi

Lh5VNEop (1)Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.

 

Un commento

  1. Bell’articolo. Personalmente ho sempre pensato che Laura sia una figura inesistente perché Petrarca, emulo di Dante, aveva bisogno della sua musa ispiratrice. Ma io sono di parte: adoro Dante e credo che sia più veritiero di Petrarca, ossessionato dall’alloro poetico e innamorato più della fama che di una donna 🙂

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