Esterno, campo lungo, carrellata sul Palazzo Ducale e sulla Cattedrale – che permettono di riconoscere il centro storico di Ferrara –, quindi sui portici di Piazza Municipio, spostandosi, in progressivo avvicinamento, fino al muretto del Castello Estense, alla lapide che ricorda «Qui caduti per la libertà» i nomi di undici uomini e indica la data «15 dicembre 1943». Qui si soffermano tre persone, una famiglia: padre, madre, figlio ragazzino; parlano francese, l’ultimo nome («Villani avv. Attilio») è quello del nonno paterno del giovanissimo. «Erano undici, riversi, in tre mucchi separati, lungo la spalletta della Fossa del Castello, lungo il tratto di marciapiede esattamente opposto al caffè della Borsa e alla farmacia Barilari […] (di lontano, non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti, buttati là, al sole, nella neve fradicia)»: così Giorgio Bassani nel racconto Una notte del 43 (1955), da cui il film di Florestano Vancini La lunga notte del ’43 (1960), dal quale la sequenza è tratta.

La famiglia si siede al tavolino esterno di un caffè sotto i portici, è avvicinata da un uomo anziano e corpulento, il volto gioviale di Gino Cervi: «Ma lei, scusi, non è il figlio dell’avvocato Villani?», rivolto a un insofferente Gabriele Ferzetti. La conversazione tra i due è improntata a cortesia formale da parte di Franco Villani (Ferzetti), a ostentata cordialità da parte di Carlo Aretusi (Cervi). «Mah, era una specie di gerarca fascista – risponde poi Villani alla moglie – Ho saputo che durante la Repubblica di Salò, quando noi abbandonammo Ferrara, divenne non so cosa, una figura importante. Anzi, adesso che mi ricordo lo chiamavano ‘Sciagura’. […] ‘Sciagura’, sì, così lo chiamavano a Ferrara, ça serait comme en dire ‘Calamity’ en anglais, en français c’est ‘Malheur’, c’est comme ça… Un poveraccio, non credo che abbia mai fatto niente di male…»
Niente di male? Si sono appena incontrati, dopo oltre dieci anni, il figlio di una delle vittime e il mandante dell’eccidio, la cui responsabilità (nelle finzioni letteraria e cinematografica ma anche nella realtà storica) non è mai stata accertata, o forse non si è voluta accertare, e se anche lo fosse stata, probabilmente non si sarebbe tradotta in pena ed espiazione proporzionata alla colpa.

Il 22 giugno 1946 è infatti promulgata la cosiddetta “Amnistia Togliatti”, che lo storico Mimmo Franzinelli (autore di un ponderoso e documentatissimo volume a riguardo) definisce «colpo di spugna sui crimini fascisti»; amnistia che interrompe i procedimenti giudiziari nei confronti di criminali fascisti e imputati di «reati di collaborazione con i tedeschi».
Nell’aprile 1945, per giudicare i crimini fascisti erano state istituite Corti d’assise straordinarie presso ogni sede di tribunale; nell’ottobre dello stesso anno i procedimenti sono trasferiti alle sezioni speciali di Corte d’assise, articolazione delle medesime Corti; dal gennaio 1948, un anno e mezzo dopo l’amnistia, la competenza passa alle Corti d’assise ordinarie. «Avverso le decisioni delle Corti straordinarie – spiega Franzinelli – era previsto solo il ricorso alla Corte di Cassazione, la quale poteva annullare la sentenza con l’eventuale rinvio a nuovo processo oppure applicare l’amnistia, con conseguente estinzione del reato. Dal 1951, col riordinamento delle Corti d’assise, si introdusse anche il secondo grado di giurisdizione di merito, attribuito alla Corte d’assise d’appello».
Come è possibile? Come è possibile, per esempio, che Rodolfo Graziani- massacratore di patrioti libici, etiopi e italiani – sia condannato per collaborazionismo a diciannove anni di carcere e ne sconti poco più di cinque? Perché, a differenza di quanto accade in Germania, e in Giappone, in Italia non si celebra un processo contro gli alti esponenti del fascismo sopravvissuti alla guerra?
Eppure, il precedente di Norimberga (il processo è celebrato tra il 20 novembre 1945 e il 1° ottobre 1946) potrebbe fare giurisprudenza: anche il fascismo si è reso colpevole di crimini contro l’umanità, ovvero «l’uccisione, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione o ogni altro atto disumano commesso contro qualsiasi popolazione civile prima e durante la guerra». E i crimini contro l’umanità non sono soggetti a prescrizione; le sentenze di condanna (a Norimberga dieci gerarchi sono condannati alla pena capitale) sono emesse a nome dell’umanità intera.
Dunque, perché non si celebra una “Norimberga italiana”? Nel nostro Paese i crimini di guerra e contro l’umanità restano quasi impuniti: sono processati e condannati soltanto alcuni ufficiali e soldati chiamati in giudizio da corti britanniche e statunitensi per crimini contro prigionieri di guerra alleati, e un esiguo numero di militari arrestati nei Balcani e in Unione Sovietica dopo l’armistizio. Il 29 settembre 1943 l’Italia – rappresentata dal re e da Badoglio – ha sottoscritto l’impegno di consegnare alle Nazioni Unite i propri cittadini responsabili di crimini di guerra. Questo impegno, tuttavia, non viene onorato in ragione dello stato di cobelligerante riconosciuto al nostro Paese dopo la dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre 1943. Lo Stato italiano da una parte riversa le denunce di crimini di guerra sugli accusatori, dall’altra rivendica il diritto di punire i responsabili italiani di crimini di guerra presso i tribunali nazionali. Nel maggio 1946 è infatti istituita presso il Ministero della Guerra una commissione d’inchiesta per accertare le responsabilità individuali e deferire gli indiziati alla giustizia militare.
Ma non è soltanto questo. In Italia la guerra civile ha separato con nettezza «la parte del riscatto» e «la parte dei gesti perduti» (secondo la memorabile definizione di Italo Calvino), ma la nettezza si appanna in pochissimi anni, dopo che, grazie alla guerra di Resistenza, i partiti democratici hanno scritto la Costituzione, ed evapora quando avviene la rottura dell’unità antifascista in conseguenza del nuovo ordine mondiale, che riconosce all’Unione Sovietica un’ampia sfera di controllo nell’Europa orientale, mentre l’Europa occidentale rimane sotto l’influenza degli alleati, e quando alle elezioni del 18 aprile 1948 si registra la sconfitta del Fronte popolare e la vittoria della Democrazia cristiana.
La procedura di amnistia è avviata da Umberto di Savoia, divenuto re il 9 maggio 1946, a meno di un mese dal referendum istituzionale del 2 giugno; è poi ridefinita e gestita da Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e giustizia nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi, nonché segretario del Partito comunista italiano. Le ragioni della ‘pacificazione’ del Paese prevalgono su quelle della ‘giustizia’; una pacificazione che è anche conseguenza del fallimento dell’epurazione dei protagonisti, più o meno nascosti, del fascismo nella pubblica amministrazione, in primis ai vertici della magistratura: i giudici che entrano nel merito delle prime sentenze di condanna di criminali fascisti, trasformandole in improbabili proscioglimenti, sono gli stessi che pochi anni prima avevano operato nei tribunali del regime. Una pacificazione che porta malcontento e protesta nella base del partito, tra antifascisti e partigiani, nella popolazione, e che, tuttavia, come dimostra Franzinelli, è attuata da Togliatti con pragmatismo politico: lo studio delle carte dello statista prova infatti che l’allora guardasigilli è ben consapevole di quale sarà la portata delle scarcerazioni, ascrivibile all’impianto stesso dell’amnistia, non al conservatorismo di De Gasperi e neppure all’applicazione estensiva da parte della magistratura. Nei luoghi ove più dura è stata la lotta partigiana è quasi rivolta: «tanti sacrifici sangue sparso partigiani conclusasi amnistia criminali punto indignati deliberazione presa governo Cln contro volontà popolo partigiani casale invitano prendere seri provvedimenti» si legge in un telegramma inviato al governo dalla sezione Anpi di Casale Monferrato, ove la protesta si trasforma in sciopero generale con l’intervento dell’esercito e la successiva mediazione del segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio.

Non solo i fascisti non sono puniti per i reati commessi, perché l’amnistia estingue il reato (come non fosse mai stato commesso), ma risultano anche riabilitati e successivamente, grazie al Decreto Legge n. 48 del 7 febbraio 1948, reintegrati nella pubblica amministrazione, con diritto alle mensilità arretrate: un unicum nel panorama europeo – in Norvegia, Olanda, Belgio, ma anche Francia, Danimarca, Lussemburgo ben altri sono i numeri dei collaborazionisti condannati – che non fa onore all’Italia. È un’occasione perduta per segnare una discontinuità forte rispetto a corruzione e clientelismo che nel ventennio (e oltre) dominavano l’apparato statale, che non si è voluto epurare e rinnovare.
«I condannati in Corte d’Assise speciale avevano come unica possibilità d’impugnativa il ricorso in Cassazione; – scrive Franzinelli (sue anche le citazioni successive) – la Corte suprema di Cassazione doveva soltanto verificare la correttezza procedurale, ma entrò spesso nel merito e privilegiò le tesi esposte nei ricorsi. […] La Cassazione decimò le condanne e da fine giugno 1946 fece larghissimo uso dell’amnistia». L’utilizzo estensivo dell’amnistia si accompagna da una parte all’insabbiamento dei crimini di guerra nazifascisti (i 695 faldoni «archiviati provvisoriamente» nel cosiddetto «armadio della vergogna») e all’impunità per gli italiani colpevoli di crimini di guerra in Africa e nei Balcani, dall’altra alla riesumazione dei processi ai partigiani archiviati nel 1945-46, con l’effetto di derubricare a reati comuni alcune uccisioni di fascisti compiute nel primo trimestre dopo la Liberazione: «I gerarchi furono presto liberati, i tedeschi autori di eccidi rimasero indisturbati e sui nostri criminali di guerra calò un silenzio tombale, mentre centinaia di partigiani espatriarono per evitare l’arresto».
Dunque, «in un paio d’anni tornarono liberi capi dello squadrismo, segretari del Partito nazionale fascista, ministri del regime, persecutori degli ebrei, presidenti e giudici del Tribunale speciale, capi politici e comandanti militari della Rsi, criminali di guerra più o meno efferati».
Esemplare, anche se poco noto, il caso dell’eccidio di cascina Punte Alte, in comune di Caselle Landi, nel Lodigiano, recentemente ricostruito con rigore metodologico e passione civile dallo storico Ercole Ongaro.

Il 1° aprile 1945 militi della Brigata Nera avevano ucciso il giovanissimo partigiano Silvano Campagnoli (avrebbe compiuto diciotto anni otto giorni dopo), il padre Pietro, la madre Teresa Berselli (gravida di otto mesi), il fratello Lino (non ancora sedicenne), il fittabile Gino Losi. La sentenza del processo celebrato dalla Corte d’Assise straordinaria di Lodi, emessa il 5 novembre 1945, condanna alla fucilazione Alessandro Midali, Sante Attilio Magnozzi e Mario Ravazzoli, gli esecutori più efferati; a venticinque anni di detenzione, in ragione della giovane età (rispettivamente diciotto e diciassette anni), Giordano Bruno Tidor e Luciano Zanotti; a pene minori altri quattordici imputati. La sentenza è confermata dalla Corte d’Assise straordinaria di Pavia, il 5 dicembre 1946.
Midali è scarcerato nel 1954, dopo nove anni, cinque mesi e dodici giorni di detenzione; Magnozzi, risultato irreperibile e pertanto non presente ai processi, nonostante la latitanza beneficia di una serie di riduzioni della pena, amnistie e indulti e non sconta un solo giorno di carcere (la condanna decade nel 1966); così Ravazzoli (l’ordine di carcerazione è revocato nel 1959); Tidor resta detenuto per cinque anni e otto mesi (fino al 1951); Zanotti (responsabile della morte di Teresa Campagnoli, sulla quale aveva infierito con il calcio del fucile, fino a spaccarlo), che dopo una detenzione di circa sei mesi si era reso irreperibile durante il trasferimento da un carcere a un altro, usufruisce lui pure di un’amnistia (nel 1959). E le vittime? Nota Ercole Ongaro: «Dinanzi ad Albertina Corradi [vedova di Gino Losi] ed ai suoi cinque orfani, come dinanzi ai sei orfani dei Campagnoli, si aprì un periodo irto di difficoltà. La tragedia che li aveva colpiti, anche se essi non erano stati testimoni diretti delle violenze e delle uccisioni, procurò loro una ferita non rimarginabile, che segnò le loro vite, che gravò sui loro giorni».
Due volte vittime. Per loro, per le vittime (ma anche per noi, che avremmo voluto e che vorremmo un’altra Italia), l’amnistia Togliatti non è «una misura di clemenza», ma un’ingiustizia: riconoscere un crimine come tale (e non cancellarlo) è doveroso, non per odio o per vendetta, ma perché il passato non può guarire senza giustizia. «Per questa Italia – scrive David Bidussa – i conti non si pagano mai».
In copertina. Ferrara, spalletta della fossa del Castello Estense: la lapide che ricorda le vittime dell’eccidio del 15 novembre 1943
Articolo di Laura Coci
Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
Ho studiato a livello universitario fascismo e post fazcismo, riconsegna delle armi da parte dei partigiani. Pacificazione priorità rispetto GIUSTIZIA. Gravissimo errore che ha “riconsegnato” le leve locali del potere ad ex fascisti diventati con il salto della quaglia, antifascisti, neanche dell’ultima ora. (sic) Solo a livello locale si conoscevano i delinquenti fascisti, che andavano giudicati… Secondo me passati per le armi, alias giustiziati come il loro Duce. Non averlo fatto, ci sta costando ancora oggi, con rigurgiti di nostalgici, e mancata applicazione “legge Scelba” sul divieto di propagandare fascismo ed altro. Non sono mai stato concorde con ricerca revisionistica di Pansa.
"Mi piace""Mi piace"
Completamente d’accordo. Con una Norimberga italiana ci sarebbero stati meno magistrati e pubblici ufficiali fascisti nelle nostre istituzioni negli anni 50 60 e 70 e probabilmente meno Salviniani e Meloniani oggi
"Mi piace""Mi piace"