«Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: “Viva! Viva!”. Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: “Eia, eia, eia!”. E gli altri allora di rimando: “Alalà!”.
Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette.

“Eia, eia, eia, alalà!” gridavano come dei forsennati e tutt’attorno c’era sempre più gente. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere. Evka si avvinghiava a Branko perché nella grande casa, oltre alle fiamme, si vedevano anche delle figure umane alle finestre, e una di esse era appena salita sul davanzale guizzando accanto alla lingua rossastra che lambiva la finestra. Evka rabbrividì e anche Branko si strinse a lei».
Sopra le teste dei due bimbi, che da casa corrono in strada, «volavano le scintille», intorno a loro l’aria era divenuta «color porpora», mentre il sole «liquefacendosi sanguinava nel crepuscolo». Boris Pahor, grande triestino, interprete della cultura slovena e al contempo dell’anima multiculturale della città di frontiera (parla la lingua italiana perfettamente), così nel racconto Il rogo nel porto descrive l’incendio del Narodni Dom, la Casa della cultura slovena, per mano dei fascisti, il 13 luglio 1920, attraverso lo sguardo di due bambini, fratello e sorella: «sapevano che bruciava la Casa della cultura e che non era giusto che i cattivi fascisti l’avessero incendiata, ma non si spiegavano perché i soldati fossero usciti dalla caserma in piazza Oberdan se ora se ne restavano lì a guardare».

Il Narodni dom (Casa nazionale) apre nell’agosto 1904: secondo lo studioso Milan Pahor, è «il simbolo della rinascita nazionale, politica, economica e culturale degli sloveni di Trieste»; posto nel quartiere teresiano, nel cuore economico della città (in piazza Caserma 2, ora via Fabio Filzi 14), la sua costruzione è affidata al prestigioso architetto Max Fabiani, esponente di spicco dell’Art Nouveau, che lo concepisce come spazio polifunzionale di straordinaria modernità e, in ragione delle numerose attività previste, di notevole complessità.

«Il Narodni dom – si legge in www.narodnidom.eu/it/, progetto multimediale che presenta un’iconografia ampia e documentata – ospita concerti, rappresentazioni teatrali, esibizioni ginniche, manifestazioni culturali, comizi politici, conferenze. È sede di una banca, due ristoranti, un albergo (l’Hotel Balkan), un caffè, una tipografia, una palestra, appartamenti privati e uffici, tutte attività con cui i suoi ideatori e finanziatori intendono garantirne l’indipendenza economica e lo sviluppo». Il piano terra, l’ammezzato e il primo piano sono destinati ad attività sociali, mondane, culturali e sportive; i piani superiori ospitano camere d’albergo, uffici e appartamenti.
Nel breve periodo di apertura (dal 1904 al 1920), l’edificio ospita «più di 600 spettacoli teatrali, 134 tra concerti, operette e altri eventi musicali, 95 manifestazioni politiche, 84 conferenze, 69 celebrazioni e commemorazioni varie. Vi hanno sede, tra le altre, la Società di mutuo soccorso, con due ambulatori; il Club alpino sloveno (Slovensko planinsko društvo); la Società politica Concordia e Unità (Edinost); l’orchestra del Centro musicale sloveno (Glasbena matica); la Società filodrammatica (precorritrice dello Slovensko stalno gledališče – Teatro Stabile Sloveno); la Società ginnica Sokol.

» (www.narodnidom.eu/it/).
È proprio il quotidiano “Edinost”, il 29 ottobre 1904, a puntualizzare con prudente consapevolezza perché la Casa nazionale non sia stata inaugurata con la cerimonia solenne che ci aspetterebbe per una sede tanto prestigiosa: «Da qualche tempo a questa parte, gli sloveni di Trieste si attengono alla saggia politica di evitare festeggiamenti chiassosi che portavano spesso a scontri con l’elemento italiano, ma si limitano alla soddisfazione di testimoniare, con l’apertura stessa del Narodni dom, la propria presenza a Trieste». Al contrario, risultano di inquietante minaccia le parole del giornalista Virginio Gayda nel libro Italia d’oltre confine – Le province italiane d’Austria (edito nel 1914): «Il centro di tutto il movimento sloveno di Trieste è il Narodni dom (Casa nazionale). È come un quartiere generale, un secondo Municipio autonomo, impiantato a Trieste per la esigua minoranza slava, la sede di tutte le Associazioni, il punto di partenza di tutte le agitazioni, il punto di raccordo di tutti gli altri Narodni dom, sparsi per la Venezia Giulia, nelle regioni insidiate o conquistate dagli slavi. […] Occupa un intero palazzo a tre piani, che fronteggia una piazza, nel cuore di Trieste. Gli sloveni l’hanno voluto lì, perché tutti i forestieri lo vedessero» (entrambe le citazioni si devono a Milan Pahor).
Non sorprende, dunque, che il fascismo scelga come obiettivo da colpire e distruggere questo luogo simbolico e bellissimo (come testimoniano le foto d’epoca): a partire dalla fondazione dei fasci di combattimento, il 23 marzo 1919, Benito Mussolini ha connotato il suo movimento come aggressivo, violento, nazionalista; il 12 settembre dello stesso anno ha avuto inizio l’occupazione di Fiume da parte dei legionari di Gabriele D’Annunzio, che si concluderà con l’intervento dell’esercito italiano e la resa dell’inventore della «vittoria mutilata» il 31 dicembre 1920. L’incendio del Narodni Dom assume dunque ulteriore significato nel quadro di una politica di liquidazione (anche fisica) delle minoranze nella città di Trieste (annessa all’Italia al termine della Grande guerra, pochi mesi prima) e nel territorio della Venezia Giulia, ove si incontrano comunità parlanti lingue diverse – italiano, sloveno, croato, tedesco, istrorumeno (in via di estinzione) – e ove si erigono luoghi di culto per molteplici religioni – ebraica, cristiano cattolica, serbo ortodossa, greco ortodossa, luterana, calvinista, islamica… Non a caso, il 18 settembre dell’annus horribilis 1938, il duce sceglierà proprio Trieste e piazza Unità per annunciare la promulgazione delle leggi antiebraiche: occorre che il popolo italiano acquisisca «una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime». E delle inferiorità: degli slavi (sloveni e croati) rispetto agli italiani. È lo stesso principio di catalogazione che comporta l’istituzione di una gerarchia: quando questa è in essere, risulta quasi naturale procedere con la discriminazione culturale, la persecuzione dei diritti e delle vite, l’eliminazione fisica.

Il rogo nel porto segna dunque l’inizio della politica fascista, dichiaratamente razzista, nei confronti delle comunità slovena e croata residenti nel territorio; è l’evento fondante della vita di Boris Pahor, come lui stesso ha dichiarato alla ‘mia’ classe quinta di quell’anno, alla Kulturni Dom di Prosek Kontovel, il 26 marzo 2014, già centenario. Nel 1920 lo scrittore ha infatti sette anni, la sorella Evelina quattro: Branko ed Evka, i piccoli protagonisti di Il rogo nel porto, in chiusura del racconto sognano la Francia, il paese ove l’amico Saško raggiungerà il padre, perché «mica dobbiamo permettere ai fascisti di pestarci». E i fascisti “pestano” davvero, e per oltre vent’anni, oltre vent’anni di violenze e ingiustizie che è impossibile dimenticare. L’aggressività del fascismo di confine colpisce coloro che parlano una lingua diversa, sprezzantemente definiti «allogeni»; la sera del 13 luglio 1920, considerata la Kristallnacht triestina, all’incendio del Narodni Dom (appiccato alle 18.45 circa), seguono altri venti episodi di violenza squadrista (puntualmente elencati da Milan Pahor), dei quali diciannove certamente ascrivibili allo stesso gruppo di camicie nere (nessuna delle quali è fermata o tratta in arresto); le leggi introdotte a partire dal 1925 prevedono il cambiamento dei toponimi, nonché dei nomi di famiglia e di battesimo, il divieto di utilizzare una lingua diversa dall’italiano nelle scuole, negli atti pubblici, nelle omelie; il 6 aprile 1941, senza dichiarazione di guerra, l’Italia aggredisce la Jugoslavia; seguono l’occupazione militare feroce e l’internamento delle popolazioni civili in un articolato sistema di campi di detenzione e l’incorporamento di Trieste, delle province di Udine, Gorizia, Fiume e Lubiana alla zona d’operazioni del Litorale Adriatico, istituita dalla Germania nazista dal settembre 1943, con la costruzione dell’Haftpolizei Lager della risiera di San Sabba, campo di transito ma anche di sterminio, ove sono uccisi soprattutto resistenti italiani, sloveni e croati e ove funziona un impianto crematorio.

La vicenda del confine orientale è davvero “complessa”, come riconosce la Legge 92/2004, istitutiva del Giorno del Ricordo, all’articolo 1: e di questa complessità è ancora una volta testimone Boris Pahor: «È giusto – dichiara il grande scrittore nel 2010 – ricordarsi dell’esilio istriano e delle foibe, ma è ingiusto il non raccontare prima il genocidio culturale degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia».
Tra le tante, dolorosissime scene da questo genocidio, lascia sgomenti quella che ha per protagonista Lojze Bratuž, maestro di musica goriziano, vittima di una feroce aggressione fascista per aver diretto un coro in lingua slovena e costretto a bere una miscela di olio di ricino e olio minerale che lo portò alla morte, nel 1937: e «mentre era ricoverato all’ospedale tutta la regione respirava affannosamente come il suo petto […] la gente era immersa in un silenzioso cordoglio come se la morte avesse spalancato l’uscio di tutte le case slovene» (così Boris Pahor, nel memorabile racconto Fiori per un lebbroso).

Quando si spezzano le vite, si inceneriscono i libri: «a Trieste i nostri libri sono stati bruciati davanti al monumento a Giuseppe Verdi, simbolo di italianità – racconta ancora una volta Boris Pahor, parlando ai ‘miei’ ragazzi e ragazze – ho frequentato quattro anni di scuola elementare passando bruscamente dalla lingua slovena a quella italiana. Sono stato senza lingua: la lingua slovena era parlata di nascosto, era proibito parlarla anche in città». E per aver parlato sloveno, la nonna di un amico indimenticato, Giorgio Marzi, a Trieste, in piazza Unità, fu schiaffeggiata da uno squadrista. Giorgio – partigiano nelle Brigate Garibaldi e nell’Esercito popolare di Liberazione jugoslavo, a capo dell’insurrezione di Muggia, presidente dell’Anpi- Vzpi di Trieste – lo raccontò a me e ai miei figli facendoci da guida in Risiera, nel 2004: «Nello spazio di tre generazioni la mia famiglia ha cambiato tre volte cognome: da Marč (sloveno) a Marz (tedesco) a Marzi (italiano)! Sono nato nel 1925, dunque il mio nome è stato italiano: Giorgio».
Dissolvenza… 23 gennaio 2020, dal “Piccolo” di Trieste: «I capi di Stato di Italia e Slovenia hanno fissato per il 13 luglio prossimo la cerimonia di restituzione alla comunità slovena dell’ex Narodni Dom di via Filzi, ora sede della Scuola per traduttori e interpreti, l’edificio dato alle fiamme dai fascisti cento anni fa, il 13 luglio 1920. Come si apprende da un comunicato dell’ufficio del presidente sloveno Borut Pahor, la scelta è stata comunicata dal presidente Sergio Mattarella…».

Un atto di giustizia, una riparazione doverosa, un gesto di riconciliazione. Non per tutti, però: l’ur-fascismo (ovvero il fascismo eterno, secondo la definizione di Umberto Eco) parla sprezzantemente di «un supposto danno prebellico di cento anni fa».
A volte ritornano. O, forse, non se ne sono mai andati.
In copertina. La famiglia Pahor a Trieste nel 1921: da sinistra, in alto, il padre Franc, il nonno Franc, la madre Marija; pure da sinistra, in basso, i figli Evelina, Boris e Marica (in http://rfondablog.blogspot.com/2013/04/boris-pahor-1913-in-rada-premrl-pahor.html)
Articolo di Laura Coci
Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.