«Di colui che vide ogni cosa». La Saga di Gilgameš

«[Enkidu, l’amico mio, il mulo imbizzarrito], l’asino selvatico
delle montagne, il leopardo della steppa,
- [noi, dopo esserci incontrati, abbiamo sca]lato assieme la montagna,
[abbiamo catturato il To]ro Celeste e lo abbiamo ucciso,
abbiamo abbattuto Hubaba], che abitava nella Foresta dei Cedri,
noi abbiamo ucciso i leoni [nei passi di monta]gna;
[l’amico mio che io amo sopra ogni cosa, che ha co]ndiviso
con me ogni sorta di avventure,
E[nkidu che io amo sopra ogni cosa, che ha co]ndiviso
con me ogni sorta di avventure,
[ha seguito il destino dell’umanità].
Per sei giorni e sette notti io ho pianto su di lui,
[né ho permesso che fosse sep]pellito,
[fino a che un verme non è uscito fuori dalle sue n]arici.
[Io ho avuto paura della morte],
ho cominciato a trema[re e ho vagato nella ste]ppa».

Con queste parole rivolte a Utanapištim, umano divenuto immortale per dono degli dei, Gilgameš, «trasfigurato dal dolore, traccia il proprio mito» (Giulio Giorello).La Saga di Gilgameš è il poema epico-eroico più antico dell’umanità: a partire dal 2000 avanti Cristo, per oltre millecinquecento anni, questo testo straordinario e profetico è stato tramandato e rielaborato in Mesopotamia (ove è nata la scrittura, la più stupenda delle invenzioni) e nell’intero Medio Oriente, da Sumeri, Assiri, Babilonesi, Ittiti, Siriani, Palestinesi e altri popoli ancora, alla luce di canoni profondamente differenti. L’epopea è dunque anteriore ai grandi testi della tradizione indiana e ai poemi omerici, in particolare l’Odissea, redatta probabilmente verso la fine dell’VIII secolo avanti Cristo, alla quale si apparenta per la scelta di un protagonista «bello di fama e di sventura».

Hormudz Rassam (1826-1910), ritratto in studio dal fotografo Philiph Henry Delamotte (Londra, 1854 circa).

A differenza dei poemi omerici, però, la Saga non informa di sé la cultura occidentale: l’epopea cosiddetta classica (qui considerata) è composta presumibilmente intorno al XII secolo avanti Cristo ed è scoperta soltanto nell’autunno 1853 da Hormuzd Rassam, archeologo di Mosul naturalizzato inglese, durante una campagna di scavi nell’antica città assira di Nineveh, che riporta alla luce la Biblioteca reale di Assurbanipal, in parte e non senza difficoltà trasportata al British Museum di Londra.

George Smith (1840-1876).

Si deve tuttavia allo studioso George Smith la prima decifrazione di un frammento della Saga, «il racconto caldeo del Diluvio» universale, contenuto nella tavola XI: è il 1872 e la notizia è comunicata il 3 dicembre, durante un’assemblea della Società Archeologica Biblica alla quale assiste il primo ministro britannico William Gladstone. Nei mesi e negli anni successivi, fino alla morte avvenuta nel 1876, Smith impiega le proprie forze e competenze nella ricomposizione e nella traduzione delle dodici tavole della Saga, partecipando anche a nuove campagne di scavi, le cui vicende, complesse e controverse, sono ricostruite con rigore filologico dalla assiriologa Silvia Maria Chiodi.

La tradizione vuole che la Saga – nella versione cosiddetta ‘classica’ – sia stata redatta dallo scriba cassita Sinleqiunnini nel periodo medio-babilonese (compreso tra l’inizio del XVI e la fine dell’XI secolo avanti Cristo) e successivamente canonizzata intorno all’XI secolo avanti Cristo, pur continuando a essere create e tramandate redazioni apocrife, ascrivibili a differenti visioni dell’essere umano nella storia e nel mondo, che Gilgameš rappresenta.

Eroe armato che doma il leone; bassorilievo da Khorsabad, risalente
al periodo di Sargon II (VIII secolo a.C.), alto m 4,45, in pietra alabastrina.
(Parigi, Museo del Louvre).
In passato la figura è stata identificata con Gilgameš.

Gilgameš, per due terzi divino e per un terzo umano (è figlio della dea Ninsun), è re della città di Uruk, giovane e irrequieto: incapace di inazione, con il suo tamburo costantemente richiama alla guerra gli uomini della città, negando loro giusto riposo e intimità familiare con le proprie donne. Per placarlo, o fiaccarlo, la dea Aruru dà vita a Enkidu, «l’uomo primordiale» nato da un grumo di creta piantato nella steppa: questi, dopo l’unione con una prostituta sacra (che lo introduce alla civiltà e ne recide il legame con il mondo animale), si reca a Uruk per sfidare il re nella lotta e, forse, sostituirsi a lui. Lo scontro ha esito incerto: certo è, invece, che da questo momento Enkidu diviene una parte essenziale di Gilgameš. Insieme, i due si completano tanto da diventare inseparabili: l’alleanza diviene amicizia, lo spirito impetuoso e il coraggio che non conosce quiete trovano ragione di essere in avventure straordinarie, dall’uccisione del gigantesco mostro Hubaba, guardiano della foresta di cedri, a quella del Toro Celeste, strumento di vendetta della dea Ištar, rifiutata da Gilgameš, che con la sua furia devastatrice porta rovina a uomini e cose. Ma il destino ormai incombe su Enkidu: nel volgere di dodici giorni l’alter ego di Gilgameš è consumato da un morbo oscuro che lo porta alla morte, nella «Casa della polvere», «dalla quale chi entra non può più uscire», ove senza distinzione tutti i defunti risiedono, per sempre.

Più volte, nel corso della Saga, durante il viaggio alla ricerca del segreto dell’immortalità che riporti in vita l’amico e preservi sé stesso dalla morte, Gilgameš ne ripercorre l’agonia e il dolore per la perdita che quasi lo ha portato alla pazzia. Il cammino verso l’ombra e la notte porta il pellegrino a interrogare gli uomini-scorpione e ad attraversare le viscere del monte Mašu, a presentarsi alla taverniera Siduri e ad affrontare il traghettatore Uršanabi, fino a giungere da Utanapištim, l’immortale che vive con la sua sposa circondato dalle «acque della morte».

The Flood Tablet, l’XI tavoletta della Saga di Gilgameš
tradotta da George Smith: narra come gli dei
abbiano inviato il Diluvio
per distruggere il mondo, scegliendo di salvare
il solo Utanapištim e la sua sposa,
nonché una coppia di tutti gli animali della terra
(Londra, British Museum).

Sopravvissuto al Diluvio, che ha riempito il mare di cadaveri di uomini e donne come «larve di pesci», questo «archetipo sumerico di Noè» (Giulio Giorello) non ha alcun segreto da rivelare all’eroe, stremato dalla disperazione e dalla fatica: l’immortalità è dono degli dei, irripetibile e incomprensibile. Il destino degli esseri umani è la morte, «l’umanità è recisa come canne in un canneto»: «[il tutto assomiglia al]le libellule [che] sorvolano il fiume / – il loro sguardo si rivolge al sole, / e subito non c’è più nulla -». Ecco «l’amara verità» di Utanapishtim, la cognizione del dolore, la consapevolezza dell’essere per la morte che è destino comune dell’umanità, male accettato eppure ineludibile: i grandi dei Anunnaki «hanno stabilito morte e vita; / i giorni della morte essi non hanno contato a differenza di quelli della vita». Eppure, non è la fine, non ancora: Utanapištim dona a Gilgameš «la pianta dell’irrequietezza», ovvero della giovinezza, che il re porterà a Uruk affinché gli anziani possano cibarsene. Il dono è suggerito dalla moglie (di cui non è menzionato il nome) dell’immortale, immortale lei stessa, che insieme con la dea Ninsum assolve nell’epopea al ruolo di madre accogliente e benefica; di contro, Siduri e la dea Ištar (quest’ultima in particolare) sono riconducibili all’archetipo di La belle dame sans merci: il che non sorprende, perché la struttura del racconto, come del resto avviene per tutti i poemi epici mesopotamici, «non prevede l’intervento né un ruolo, seppur secondario, delle donne del sovrano» (così Giovanni Pettinato, studioso emerito della Saga), tanto che si è ipotizzato tra i due eroi un rapporto di natura omosessuale. È destino, però, che Gilgameš torni a Uruk senza dono alcuno: mentre il re si rinfresca nelle acque di un pozzo, silenzioso un serpente prende la pianta e, non appena la tocca, lascia dietro di sé la vecchia pelle. Ma la vicenda dell’uomo per due terzi divino e per un terzo mortale (nell’epopea classica, almeno) non si chiude nel segno del fallimento: attraverso la via del dolore e della privazione (unite alla via vera e propria del viaggio), Gilgameš acquisisce esperienza, conoscenza e saggezza, qualità proprie di un vero re. Come ben sa ogni viandante, la meta non conta, non è che un punto d’arrivo più o meno precario, conta la via, come la si percorre e con chi. Il traguardo della vita umana è la morte, verso la quale tutti corrono, senza distinzione, gli esseri umani: con dolore, dopo aver percorso «vie lontane» e aver conosciuto ogni cosa rendendosi esperto di tutto, Gilgameš  lo ha appreso, ne è divenuto consapevole. Il vero dono, dunque, è la consapevolezza del proprio essere nella storia e nel mondo, che l’eroe affida al genere umano facendo incidere «tutte le sue fatiche / su una stele di pietra», prima di morire. Perché non solo le donne e gli uomini comuni muoiono, ma anche gli eroi semidivini che visitano l’oltremondo (Gilgameš, nell’ultima parte, quasi appendice, del poema, e dopo di lui Odisseo, Enea…) e gli dei che dopo la discesa nella notte rinascono uguali eppure inconoscibili (Osiride nella cultura egizia, Crono nella mitologia greca, Gesù Cristo nella religione cristiana…). Tra questi, il protagonista del poema epico-eroico più antico dell’umanità è riconosciuto fratello nel dolore, umano, troppo umano. «Gilgameš – scrive Giovanni Pettinato –  è sì un essere divino, perché solo un dio può averla vinta sul divino Hubaba e sul Toro celeste, ma è anche un uomo, con tutte le sue sofferenze, le sue ansie, le sue ambizioni e i suoi desideri più intimi che purtroppo non si realizzeranno, ma che, appunto perché vissuti profondamente, faranno del re di Uruk il modello di ogni sovrano mesopotamico, la cui virtù massima doveva essere la saggezza. Dopo aver letto tutta la Saga, non potremo non essere d’accordo con Sinleqiunnini, il consigliere e il biografo di Gilgameš, quando lapidariamente afferma che il suo signore: in ogni cosa raggiunse la completa saggezza».

Gruppo di statuette votive dal «Tempio quadrato» di Abu, da Tell Asmar, in pietra gessosa, altezze comprese tra i 20 e i 72 centimetri (Chicago, Oriental Istitute, The University of Chicago). Le dodici figure, che risalgono al III millennio avanti Cristo (più precisamente al periodo della prima dinastia, tra 2900 e 2350 a.C.), sono state ritrovate durante una campagna di scavi statunitense nel 1933.

In copertina. Dal racconto del Diluvio: «Io, proprio io [Ištar] ho partorito le mie genti / (e ora) i miei figli riempiono il mare come larve di pesci» (XI, 122-123). Frammento dal Palazzo di Assurbanipal a Nineveh, datato tra il 648 e il 631 avanti Cristo (Città del Vaticano, Museo Gregoriano Egizio).

Articolo di Laura Coci

y6Q-f3bL.jpegFino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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