In questi mesi di pandemia non mi sono mai sentita di scrivere qualcosa sul Covid-19 perché ci siamo troppo dentro e le emozioni sono pericolosamente intense, anche le parole fanno fatica a tradurre la realtà ed essere feconde di vita. Credo, fermamente, nel potere terapeutico del tempo se non altro per far sedimentare il grande caos che ci circonda e che viene, di proposito, fomentato. Tuttavia, sono altrettanto convinta che chiunque abbia la possibilità di comunicare, qualsiasi cosa faccia nella sua vita, con più di una persona abbia il dovere civico dell’impegno e di mettere ciò che sa fare a servizio di una causa nobile, ora più che mai. Per questa ragione ho deciso di scrivere questo articolo utilizzando «memoria e prospettiva», come canta Niccolò Fabi nella splendida A prescindere da me.
Qualche giorno fa, guardando delle foto, mi sono imbattuta nell’ultima fotografia scattata a scuola con la mia classe. Era una luminosissima giornata di novembre 2019, una di quelle giornate siciliane scintillanti ancora in grado di farti assaporare la spensieratezza della primavera.
Ho provato dolore.
Con gli alunni (era una classe tutta maschile) stavamo piantando un melograno, dedicato alla memoria di Graziella Giuffrida, partigiana catanese, per il nostro progetto Il giardino delle giuste e dei giusti. Eravamo contenti, allegri e sorridenti del tutto ignari di quanto il nostro mondo, da lì a poco, sarebbe cambiato. Radicalmente. Da allora, sostanzialmente, la scuola è muta. La scuola è un luogo fisico di relazioni insostituibili, la didattica a distanza è un surrogato che ci sta permettendo di non sfilacciare un tessuto di umanità che deve essere coltivato e sostenuto. Tutte e tutti noi ci siamo adeguati rispettando le regole, quelle stesse regole che da febbraio a marzo sembravano un orizzonte civico condiviso e che poi, durante l’estate, sono state vilipese, ignorate e derise come se il virus fosse scomparso. Esattamente come le operatrici e gli operatori sanitari passati da eroi ed eroine alla gogna, dalle mediche ai medici in camice nelle corsie a quelli nelle trasmissioni televisive. Così mi sono chiesta se ci fosse una via di mezzo per raccontare un pezzettino di questo mondo che restituisse giustizia e verità al prezioso lavoro delle persone che operano in ambito sanitario.
Ho sempre pensato che la figura dell’eroe è una pericolosissima arma a doppio taglio: deresponsabilizza ciascuno/a di noi a tirarsi su le maniche perché tanto c’è l’eroe, quello che è più bravo di me; sminuisce il valore quotidiano della persona perché quando l’eroe cade dal suo piedistallo anche l’uomo o la donna, frutto di quella idealizzazione, viene cestinato e avanti un altro.
Di questo e di tanto altro ho parlato con tre dottoresse molto diverse l’una dall’altra per età e per esperienza lavorativa con l’obiettivo di descrivere una normalità e una competenza sempre necessarie in un lavoro così delicato. Tutte loro hanno rifiutato l’etichetta dell’eroina perché, come dice Maricia Roccaro, «eleva il medico a eseguire compiti non suoi. Il medico deve fare il medico e non si può tirare indietro. Lavorando con le emergenze ho fatto molte cose e non mi sento un’eroina. Ho fatto solo il mio dovere. Il senso civico riguarda tutte le persone a prescindere dal ruolo». La dottoressa Roccaro, nefrologa, lavora con un contratto diretto stipulato con il commissario ad acta presso l’Asp di Catania, in base alle esigenze si è occupata dei tamponi ma non solo. Nella città etnea dirige la Medicaltec, un centro per le persone dializzate Covid con l’obiettivo di decongestionare gli ospedali poiché non dobbiamo mai dimenticare che esistono altre malattie. La dottoressa porta avanti anche due importantissimi progetti che fanno capo alla Rete Civica (supporto tra le amministrazioni locali e le Asp per i bisogni della cittadinanza) e l’associazione da lei fondata Humanity, per dare risposte concrete a tutte le persone in quarantena che non hanno nessuno che materialmente porti loro la spesa. Infatti, non esiste solo una emergenza sanitaria, ma anche una emergenza sociale e per quest’ultima nessuno/a può dire di non essere responsabile per gli atteggiamenti che assume.
La dottoressa T.C., specialista in endocrinologia e nelle malattie del ricambio, che lavora presso l’Asp 7 di Ragusa mi racconta di essere molto arrabbiata: «durante l’estate abbiamo voluto a tutti i costi la vacanza, aprire le regioni e bere l’aperitivo. Nei reparti vediamo com’è finita. Sono molto arrabbiata con Zangrillo perché le sue dichiarazioni sono state superficiali mentre noi sappiamo che in ogni pandemia c’è la seconda e la terza ondata. Le linee guida del Governo, e lo dico indipendentemente dal colore politico, sono state smorzate. Il mio primo comandamento laico è il rispetto per tutto quello che ci circonda, venendo meno questo principio crolla tutto. Noi tutti siamo tenuti a rispettare le regole e noi tutti dobbiamo adeguarci alle linee di gestione, altrimenti non ne veniamo fuori». Questo concetto viene ribadito anche dalla dottoressa Roccaro: «a prescindere dalle nostre idee dobbiamo allinearci alle linee guida, altrimenti diventiamo schegge impazzite. I medici che si disallineano creano confusione perché passano messaggi non veri. Cittadini e istituzioni devono molto riflettere e modificare i loro atteggiamenti per il bene comune». La dottoressa T.C. mi confida una sensazione che è pure la mia tutte le volte che faccio lezione online: «Il Covid-19 è anche una malattia della solitudine, mitiga l’empatia tra paziente e medico, perché ci possiamo vedere solo attraverso gli occhi; per me abituata a stare vicino al paziente, a toccarlo, a parlargli, a interagire con tutta me stessa, è davvero dura. Quando esco dal reparto, debbo sanificare la tuta, le mascherine e gettare via tutto, cioè debbo proprio distaccarmi. È una sensazione molto strana quella di perdere il contatto diretto con il paziente e con tutta l’umanità che c’è nella relazione con lui/lei». Già! Io guardo le mie scolaresche dal monitor ma gli occhi dal vivo… no… non è la stessa cosa.
La dottoressa V.B. è una giovane medica di 24 anni, laureata a luglio e che lavora nel Pronto Soccorso di un importante ospedale di Catania. Poteva scegliere le Usca o il ContactTraising e invece ha scelto l’emergenza: «perché è una buona opportunità per apprendere, per crescere come medica, perché è il quotidiano che ti fa smettere di essere una studente e ti trasforma in una dottoressa. Non ho mai visto i visi dei miei colleghi perché sono sempre con la mascherina. Vedo gli occhi ma non la persona. Non avrei mai immaginato di vivere una cosa tanto incredibile. Tutti gli operatori sanitari cercano di dare il massimo senza fermarsi mai, ma anche noi cittadini dobbiamo fare lo stesso. Ringrazio i miei colleghi che mi hanno accolta, che mi trattano come una loro pari, che mi mettono a disposizione la loro esperienza, che mi danno la responsabilità che mi spetta e che mi merito.» L’esperienza della dottoressa V.B. dimostra quanto il Covid-19 abbia contribuito ad accelerare un processo di svecchiamento, ma non dobbiamo dimenticare che fino a qualche mese fa queste/i giovani, probabilmente, non avrebbero avuto, dopo la laurea, grandi opportunità, sarebbero stati destinati in un lunga anticamera oppure ad andare via dopo la specializzazione. Il fenomeno dei cosiddetti “cervelli in fuga” è anche troppo noto e noi non possiamo permetterci né di perdere risorse né di dimenticarci di loro dopo la fine, speriamo, di questa emergenza. Sulla nostra pelle stiamo sperimentando il bisogno di una sanità pubblica e universale gestita con competenza e di fare tesoro delle buone pratiche nonché di ricucire le falle del sistema che il Covid-19 ha messo di fronte a tutti/e noi.
Alla fine di questo articolo ho notato, piacevolmente, quanto tre donne tanto diverse e che non si conoscono abbiano sostenuto le medesime cose. Mi fa ben sperare. Dal canto mio spero, in caso di malattia, di trovare un dottore/ssa che abbia studiato con passione e dedizione e che veda in me quella persona da aiutare, ossia la ragione delle sue notti trascorse sui libri.
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Articolo di Giovanna Nastasi

Giovanna Nastasi è nata a Carlentini, vive a Catania. Si è laureata in Pedagogia e Storia contemporanea e insegna Lettere negli istituti secondari di II grado. La sua passione è la scrittura. Ha pubblicato un romanzo, Le stanze del piacere (Algra editore).
Come sempre, brava!
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Un articolo davvero bello. Grazie, Giovanna!
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