«Noi chiamiamo contro natura ciò che avviene contro la consuetudine».
Michel de Montaigne, 1582
Ciò che è maggioritario viene spesso presentato come “buono” perché “naturale”: è una soluzione difensiva che serve a esorcizzare la paura di ciò che non conosciamo, a rafforzare confini identitari evidentemente malfermi tracciando distinzioni nette tra “noi” e “loro”.
L’operazione di presentare come “naturale” ciò che ha una genesi culturale porta a ritenere automatici, ineluttabili, necessari modelli che altrimenti sarebbero suscettibili di una messa in discussione. Significa presupporre un ordine che sarebbe immutabile e insindacabile o per volere divino o per forza ontologica. È la tentazione di cercare — per ridurre la complessità della vita — rassicurazioni univoche.
Questo vizio di ragionamento (lo studiavamo al ginnasio) è noto da secoli sotto il nome di fallacia naturalistica. Ha sempre avuto molto successo perché è semplice, sbrigativo. È pericoloso perché può spingere a derive eugenetiche.
La natura parla per differenze fluide, per creature cangianti, per ibridazioni, per adattamenti al contesto; la cultura umana ha costruito artificiali dicotomie, principi antitetici, polarizzazioni ossificate.
Oggi tutto questo potrebbe risuonare come retaggio di un passato ormai superato: lungi dall’apparire come lo specchio fedele dei “fatti”, la scienza stessa viene ora descritta come impresa collettiva che opera attraverso l’elaborazione e la condivisione di paradigmi e orientamenti dotati di storicità.
Eppure la dicotomia funziona sempre, pare ancora un’innegabile ovvietà. Sono tanti i campanelli d’allarme, non pochi gli esempi di un’umanità che ricorre alla “natura” per definire, disciplinare i corpi con leggi predeterminate e insindacabili, con relazioni fisse e stabili. Stabilire ciò che è “naturale” e ciò che non lo è rimane per molte persone l’argomentazione ultima per stabilire ciò che va ritenuto accettabile.
La proposta di considerare i dati chiamati “naturali” come costrutti culturali (quindi in certa misura variabili e revocabili) suscita resistenze, dubbi, perplessità. Si attivano meccanismi riparatori volti a richiamare l’ordine e la gerarchia ogni volta che si tenta di smascherarne il carattere relativo.
All’interno dello spazio pubblico definito dal linguaggio bipolare delle contrapposizioni alcuni soggetti sviluppano caratteristiche necessarie per rientrare nella categoria degli individui “normali” mentre altri, classificati come irregolari e diversi, “contro natura”, sono patologizzati, inferiorizzati, marginalizzati o addirittura esclusi, perseguitati. La parzialità su cui il discorso si fonda viene negata da una pressione omologatrice e una linea netta si erge a separare la presunta normalità dalla presunta devianza.
Di fronte a queste pretese verità assolute, così congeniali all’ordine costituito, ogni volta che si genera un cambiamento si genera una resistenza. Si dice che la diversità è una ricchezza perché questo si impone come politicamente corretto, ma tale la si considera solo fino a quando non ingenera il timore di una possibile, per quanto confusa, minaccia.
In sintesi ci sarebbero modi precisi, dati e definiti una volta per tutte perché “naturali”, di essere uomini e donne e di rapportarsi; tutto il resto sarebbe corruzione ideologica.
Queste teorie sembrano ignorare che la natura stessa — lo dice la messe dei dati forniti dalle scienze biologiche — presenta una varietà di situazioni, di possibilità e di scambi per gli esseri viventi. Non vedono che è un’operazione culturale (si pensi alle “razze”) quella che fornisce omogeneità e invarianza a individui variabili. Trascurano il fatto che la creatura umana è la più “innaturale” che esista, e proprio per questo è la più straordinaria di tutte. Tacciono sul fatto che lo sviluppo psicologico, relazionale e sociale dell’individuo non solo si intreccia con quello biologico ma incide su di esso.
È così che nei secoli si sono costruite le rappresentazioni: correlando ai corpi viventi e al loro mosaico di differenze piaceri e doveri, ruoli e aspettative, vincoli e opportunità, prescrizioni e sistemi di vigilanza. Fernand Braudel sosteneva che tali rappresentazioni sono prigioni di lunga durata, soggette a un mutamento lentissimo.
Nemmeno le vittime, con la loro assunzione inconsapevole, vedono le prigioni come tali. Scriveva Foucault (La volontà di sapere):
«Non servono armi, violenza fisica, costrizioni materiali. Basta uno sguardo. Uno sguardo che ispeziona, uno sguardo che ciascun individuo, sentendolo pesare su di sé, finirà per interiorizzare al punto di essere l’osservatore di sé stesso: così ciascuno eserciterà questa sorveglianza su di sé e contro di sé».
C’è un interesse evidente, da parte di chi detiene il potere e si arroga il compito di trasmettere o imporre modelli di umanità, a farne realtà definite e autonome da tramandare inalterabili nel tempo perché siano assorbite in ogni modello pedagogico.
Per secoli si è fatto ricorso al determinismo biologico per giustificare i privilegi: basti pensare alle giustificazioni del “razzismo scientifico” e alla sua rinnovata odierna popolarità nella destra reazionaria e suprematista.
Nel 1869 il dottor Bushnell, un teologo protestante del Connecticut, scriveva un trattato dal titolo emblematico: Il voto alle donne: la rivoluzione che va contro natura. Oggi si ricorre ad argomenti non dissimili quando si parla di un “modello oggettivo” che prevederebbe una vocazione “naturale” delle donne a una maternità oblativa, che detterebbe regole “naturali” che le vorrebbero orientate alle emozioni e ai sentimenti. Dalla capacità biologica di partorire vengono fatte discendere, deterministicamente, le doti tradizionali attribuite alle femmine. Comodo espediente per scaricare su di loro tutto l’onere di un lavoro di cura invisibile e gratuito che altrimenti sarebbe responsabilità collettiva, per escluderle dal contratto sociale e dalla vita pubblica.
La migliore risposta agli argomenti che si basano su questo paradigma è stata data già più di un secolo e mezzo fa da un uomo, John Stuart Mill, che nello scritto Sulla natura ricordava che «l’essere conforme alla natura non ha alcuna connessione col giusto o l’ingiusto. Non si può mai introdurre in modo appropriato l’idea della conformità alla natura in alcuna discussione etica».
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Articolo di Graziella Priulla
Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.