L’agile volume di Eric Gobetti E allora le foibe?, uscito nel 2020 per Laterza nella collana Fact Checking, dichiara nel risvolto di copertina di rivolgersi «a chi non sa niente della storia delle foibe e dell’esodo o a chi pensa di sapere già tutto, pur non avendo mai avuto l’opportunità di studiare realmente questo tema» ed è innanzi tutto un’esemplare lezione di metodo storico.
Il libro nasce dall’urgenza di impedire che il Giorno del ricordo diventi una data memoriale fascista e de-costruisce la versione “ufficiale” della narrazione politico-mediatica dominante, significativamente divergente dai risultati della ricerca storica. L’ampia bibliografia ragionata che chiude l’opera comprende lavori sia di studiosi mainstream — sovente critici nei confronti della Resistenza jugoslava e dell’ideologia comunista e dunque inclini a privilegiare il punto di vista delle vittime — sia di una generazione più giovane di storiche e storici, dichiaratamente antifascisti e schierati a difesa della Costituzione, più attenti al contesto complessivo di violenza in cui si inserisce il fenomeno.
Tutte le ricerche citate concordano sui dati numerici, la dinamica degli avvenimenti e le responsabilità, e contraddicono la verità “ufficiale” politico-mediatica, ma non certo storica. A chiosa della sua breve introduzione alla bibliografia, lo studioso osserva che «i volumi qui citati possono essere considerati tutti — compreso il mio — “negazionisti”. Perché negano il falso storico» (p.11o), confutando l’infamante accusa di negazionismo che colpisce chi, come lui, fa ricerca storica sulle foibe, discostandosi dalla “verità ufficiale”.

Nel 2004 l’allora ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, parla di un milione di vittime delle foibe e nel 2018 il giornalista Paolo Mieli, nel corso di una trasmissione di Raistoria, le quantifica in decine o forse addirittura centinaia di migliaia. Al di là di queste evidenti esagerazioni — che peraltro mancano di rispetto alle vittime, negando il valore intrinseco di ogni sofferenza individuale — vanno imponendosi delle “cifre ufficiali”: 10.000 morti/e nelle foibe, senza alcuna distinzione tra le vittime del 1943 e del 1945, e 350.000 esuli italiani/e. Metterle in discussione comporta, per chi lo fa, l’accusa di “negazionismo” o “riduzionismo”, ma sono cifre molto superiori al vero e «non possono essere accettate onestamente dagli studiosi». (p. 74)
Probabilmente non si riuscirà a determinare esattamente il numero delle persone uccise e delle/dei profughi, anche a causa della complessità del contesto. Non è facile distinguere le vittime e neppure è corretto considerarle tutte italiane, ci sono molte persone con identità miste e variabili e numerosi sono i cognomi più o meno forzatamente italianizzati.
Rispetto alle uccisioni del 1943 e del 1945 sorge un problema ulteriore; poiché si calcolano abitualmente le vittime sulla base del numero delle persone scomparse, si rischia di inserire persone sopravvissute che hanno fatto perdere le proprie tracce oppure uccise in differenti situazioni o da altri persecutori. Conteggiare tutte/i gli scomparsi come vittime delle foibe porta dunque a una stima in eccesso. Tra il 1943 e il 1945 le autorità naziste riesumano i corpi di chi è stato ucciso o uccisa dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943: 217 salme, la metà di militari tedeschi e italiani. Risulta però scomparso più o meno lo stesso numero di persone, che porta a un totale di 400-500 persone e dunque le foibe istriane non sono certo un’eccezione nel panorama europeo di fucilazioni di militari prigionieri o epurazioni sommarie sulla base di presunte appartenenze politiche.
Oltre al contesto europeo, va tenuto presente quello locale: durante l’occupazione militare del 1941-1943 gli italiani fucilano migliaia di partigiani/e e di civili, ne internano circa 100.000, di cui 5000 muoiono di stenti nei campi di concentramento, mentre il rastrellamento dei tedeschi nell’ottobre del 1943 fa circa 2500 vittime, molte civili. Nel quadro di ritorsioni reciproche, comuni a tutto il continente europeo, le forze partigiane compiono centinaia di uccisioni, occupanti italiani e tedeschi migliaia. Per le vittime del 1945 il calcolo risulta ancora più difficile perché esistono al momento solo ricerche parziali: nel dopoguerra le autorità alleate del Territorio libero di Trieste riesumano 464 corpi (circa la metà militari), dalle province di Trieste, Fiume e Gorizia risultano scomparse circa 2300 persone e bisognerebbe sommare le vittime in Dalmazia e Istria, stimate in qualche centinaio. Studiose e studiosi concordano su una cifra dalle 3000 alle 4000 vittime. Anche per queste uccisioni si impone la necessità di aprirsi al contesto europeo — e all’altissimo livello di violenza raggiunto nelle fasi finali della guerra: in Piemonte per esempio sono uccisi più presunti fascisti che sul confine orientale, più di 2000 solamente in provincia di Torino — e locale, con l’uccisione in pochi mesi di circa 5000 partigiani e simpatizzanti alla Risiera di San Sabba, a Trieste. In conclusione, secondo gli esiti della ricerca storica, le vittime oscillano tra le 3400 e le 4500 unità, meno della metà della cifra “ufficiale”. Non è uno scarto da poco.
I calcoli sull’esodo sono ancora più imprecisi, perché non tocca solo questa regione e non riguarda esclusivamente la popolazione italiana; chi abita nell’area di confine molto spesso ha un’identità mista, senza contare l’italianizzazione forzata dei nomi imposta dal regime fascista e la forte immigrazione dal resto d’Italia, sempre durante il Ventennio. Durante il quindicennio 1941-1956 espatriano dai territori passati alla Jugoslavia circa 300.000 persone, di cui 190.000 italiane “autoctone” — basta parlare italiano e avere un cognome italianizzato per rientrare nella categoria — 60.000 italiani/e immigrate durante il fascismo e 50.000 tra croati/e, sloveni/e e altre minoranze. Dopo l’annessione di questi stessi territori all’Italia, alla fine della Prima guerra mondiale, espatriano nel periodo tra le due guerre circa 100.000 persone. E questo è il primo termine di paragone; bisogna poi considerare l’esodo nel quadro degli enormi spostamenti di popolazioni in Europa indotti dal cambiamento dei confini alla fine della Seconda guerra mondiale, il cui caso più macroscopico è l’espulsione forzata dei cittadini e delle cittadine di lingua tedesca dall’Est e dal Sudest del continente, tra i dieci e i dodici milioni di persone, un ordine di grandezza corrispondente a cinquanta volte l’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia. In Italia nello stesso arco di tempo si verificano fenomeni analoghi, del tutto dimenticati: l’allontanamento alla fine della guerra di decine di migliaia di italiani/e dalle ex colonie africane, dalla Grecia, dalla Francia e dalla Tunisia — circa 200.000 persone da questa colonia francese in Nordafrica, per lo più contadini e pescatori, residenti da generazioni — il ritorno di chi è stata/o deportato in Germania (se è sopravvissuto), le decine di migliaia di vittime sotto i bombardamenti alleati, gli 800.000 internati militari in Germania. Come la popolazione dell’esodo istriano-dalmata sono vittime del fallimento del fascismo e delle sconfitte militari italiane, ma le loro vicende sono rimosse, mentre per il confine orientale «si sceglie di usare politicamente un fenomeno storico (modificandone le cifre e il significato)» (p. 87) a fini manipolatori e propagandistici.
Tuttavia, in questo quadro estremamente complesso, le cifre non sono tutto il problema. Gobetti prende per mano chi legge e demistifica una serie di stereotipi storicamente infondati attraverso ragionamenti di una logica stringente. «Le foibe, la repressione alla fine della guerra, l’esodo dalle regioni di confine sono fenomeni storici distinti» (p. 3), correttamente leggibili solo se inseriti in un contesto europeo. Il “confine orientale” non è una barriera, è un territorio, che, peraltro, non è italiano “da sempre”, bensì un’area di confine tra mondo germanico, slavo e latino, caratterizzato da un’identità meticcia, e, nonostante la prevalenza dell’italiano come lingua d’uso, gli italiani e le italiane non esistevano prima dell’invenzione dell’idea di nazione, solo con l’annessione all’Italia dopo la Prima guerra mondiale comincia l’italianizzazione forzata da parte dello Stato italiano e fascista.
Il punto di vista individuale delle vittime — che percepiscono come cesura improvvisa l’8 settembre 1943 — non è accettabile come chiave interpretativa di un fenomeno storico in quanto necessariamente parziale; storicamente la prima fattura è il 1918 quando quest’area «entra a far parte di uno Stato che si identifica rigidamente con una sola nazionalità» (p.16) e il conseguente assimilazionismo, aggravato dal fascismo, lascia aperta solo la possibilità di assimilarsi o emigrare. E decine di migliaia di persone emigrano: in Austria, Germania, Ungheria, Francia, Medio Oriente, Americhe e circa 60.000 sloveni/e e croati/e nello stato jugoslavo costituitosi a est dell’Italia. Chi resta è soggetto a una serie di leggi e decreti repressivi, «una sorta di anticipazione delle leggi razziali antiebraiche» (p. 19). Dal 1941 al settembre 1943 un terzo del territorio jugoslavo è direttamente amministrato dall’esercito italiano e quasi immediatamente si sviluppa un forte movimento partigiano, sotto la guida del Partito comunista jugoslavo guidato da Tito, che si propone come campione di un sovra-nazionalismo jugoslavo, con l’obiettivo della costruzione, dopo la fine della guerra, «di uno Stato unitario, sulla base della parità dei diritti di tutti i popoli jugoslavi» (p. 21). La guerra da nazionale diviene ideologica; l’Italia occupante fa appello e ricorso al collaborazionismo delle varie forze nazionaliste locali nella lotta al “pericolo comunista” e dà inizio a una durissima repressione, incentrata sulla distruzione di case e villaggi e la creazione di campi di concentramento, in cui sono imprigionate 100.000 persone — soprattutto donne, vecchi/e e bambini/e — mentre le/gli appartenenti alla Resistenza sono fucilati sul posto. In questo contesto di atroce violenza quotidiana scattano le facili identificazioni — entrambe non corrispondenti al vero — fascismo/italianità e nemico/slavo comunista.
Un topos del discorso pubblico mainstream sulle foibe è loro assimilazione alla Shoah, in qualche modo suggerita anche dalla contiguità temporale tra Giornata della memoria (27 gennaio) e giorno del ricordo (10 febbraio). Sul piano storico il paragone non ha alcun senso perché le violenze del 1943 e del 1945 non sono un tentativo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti a un determinato popolo, tanto è vero che sono due o tre i/le bambine e/o adolescenti vittime di queste violenze e le donne rappresentano il 5%, e sono perseguite non in quanto donne, ma «per il loro ruolo, per la loro appartenenza familiare e politica o perché ritenute spie» (p. 28).
Esemplare dell’uso propagandistico della tragedia è il caso di Norma Cossetto, giovane istriana uccisa nell’ottobre 1943, cui è dedicato il film Rosso Istria (2019), co-prodotto dalla Rai. In questa pellicola, diversamente da quanto avviene nella fiction Rai Il cuore nel pozzo (2005), la violenza non colpisce chi è italiano/a, bensì fascista dichiarata. Le «vittime, gli eroi, i personaggi coi quali lo spettatore è portato a identificarsi non sono più semplici italiani, come nel 2005: sono fascisti» (p. XII). XIII). A Norma Cossetto è pure dedicato un recente graphic novel, Foiba rossa. Storia di un’italiana, pubblicato da una casa editrice vicina a Casa Pound, grazie ai finanziamenti della Regione Veneto. Tutte le opere che parlano di questa giovane insistono con particolari morbosi sullo stupro di gruppo di cui sarebbe stata vittima prima di essere uccisa; il tema della violenza sessuale è un topos nella retorica fascista e nazionalista, che vede nel corpo della donna il corpo della nazione. Lo stupro non è però suffragato da prove certe, tanto che un volume edito dalla Lega Nazionale di Trieste, sicuramente non filo-jugoslava, Foibe. Un dibattito ancora aperto (1990), in proposito parla di «incontrollate fantasie e presunte testimonianze». È invece accertato che Norma Cossetto è arrestata dai partigiani comunisti «non perché italiana, ma perché è una fascista convinta, figlia di un federale, ufficiale della milizia, e impegnata personalmente nel partito e nella diffusione del fascismo nella regione» (p.30), il che non ne giustifica certo l’omicidio, ma spiega il suo arresto.
Dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi occupano città e coste, lasciando un vuoto di potere nelle regioni interne, in cui si sviluppa una violenza diffusa, di carattere più ideologico che nazionale. Grazie anche all’adesione alla Resistenza di numerosi militari italiani, nasce la repubblica partigiana di Pisino, che ordina l’arresto di centinaia di persone, accusate di collaborazione col fascismo e l’esercito occupante. Processate sommariamente, ne vengono uccise 200 e gettate nella foiba di Pisino. Tra loro non figurano bambine/i e pochissime donne «perché ben poche donne ricoprivano incarichi importanti nel regime fascista» (p. 36). Nello stesso mese di ottobre, il rastrellamento dell’esercito tedesco, nel giro di una settimana, provoca l’uccisione di 2500 persone, fra cui molte italiane. Le autorità tedesche orchestrano una grande campagna propagandistica sulle uccisioni partigiane, che dura per mesi. Anche la massiccia partecipazione italiana alla Resistenza jugoslava — tra le 20.000 e le 30.000 persone nella primavera del 1944, lo stesso numero dei/delle resistenti in Italia alla stessa data — non consente di parlare di una pulizia etnica a danno della popolazione italiana, si tratta piuttosto del tragico fenomeno della resa dei conti nell’Europa liberata dal nazismo alla fine del conflitto. Le autorità jugoslave puniscono collaborazionisti e criminali di guerra e possibili oppositori del futuro regime, l’élite sociale e politica italiana, colpita in quanto élite e non in quanto italiana.
Nel 1945 — in particolare a Pola, Fiume, Gorizia e Trieste — i partigiani jugoslavi arrestano circa 10.000 persone, di cui circa un migliaio sono giustiziate; il resto è deportato in campi di internamento e molti/e internate vi muoiono a causa di denutrizione ed epidemie. Le foibe sono caratteristiche fenditure del terreno carsico, tradizionalmente utilizzate per occultare o seppellire frettolosamente. Vi sono sepolte/i sia civili sia partigiani uccisi dai nazisti, sia soldati e collaborazionisti uccisi dai partigiani. È dunque improprio parlare di foibe per questa seconda ondata di violenza, dato che le vittime non vi sono gettate come nel 1943.
Il cosiddetto esodo, infine, non presenta alcuna correlazione con le violenze della fine del conflitto e parlarne come di espulsione forzata della popolazione italiana in un breve lasso di tempo è uno stereotipo privo di fondamento storico, che non aiuta a capire la complessità dei fatti. Innanzi tutto non vi è alcuna espulsione formale da parte delle autorità jugoslave e, soprattutto, si tratta di un processo migratorio di lunga durata (1941-1956). La maggioranza delle persone parte dopo la guerra, avendo peraltro la facoltà di optare se restare o emigrare, diversamente dalla popolazione tedesca forzatamente espulsa. Inoltre i trasferimenti di italiani/e avvengono nell’arco di mesi e di anni, tanto che chi abita a Pola e la lascia nel 1947 porta con sé perfino gli infissi delle case, le tombe e i mobili. La maggior parte delle/dei profughi non emigra in Italia, bensì in Argentina, Australia, Canada, Usa.
Un altro stereotipo diffuso è quello della “congiura del silenzio” sulle foibe; in realtà nell’immediato dopoguerra l’ondata di profughi dalla Jugoslavia è usata in funzione anticomunista. Nei decenni successivi Dc e Pci creano una “memoria condivisa” che poggia sui pilastri degli “italiani brava gente” e della Resistenza come lotta nazionale e popolare contro lo straniero; la memoria della fine della guerra lungo il confine orientale resta quindi confinata alla dimensione privata o di piccoli gruppi e politicamente la memoria delle foibe è monopolizzata dalla destra nazionalista e neofascista, che ne continua l’uso politico iniziato dai nazisti nel 1943-1945. Dopo il crollo della ex Jugoslavia è costituita una commissione italo-slovena di storici, attiva dal 1993 al 2000, che produce un documento sottoscritto da entrambi i Paesi, nel tentativo di costruire una “memoria condivisa”. Mentre in Slovenia i risultati di questo lavoro godono di ampia diffusione, in Italia il testo è pressoché ignorato. La politica della memoria sta cambiando; le forze politiche eredi del Pci hanno bisogno di una nuova legittimazione politica sganciata dall’ideologia e il riconoscimento ufficiale delle foibe risulta funzionale a questa strategia, come, specularmente, pure per Alleanza nazionale che ha la necessità di accreditarsi come forza di governo. In questo clima è approvata la legge 92/2004 istitutiva del Giorno del ricordo, mentre nel 1992 era stata riconosciuta monumento nazionale la “foiba” di Basovizza, che diviene sacrario nel 2007. In realtà, non è una foiba, bensì un pozzo minerario abbandonato e non vi sono prove che sia stato luogo di esecuzione, né luogo di sepoltura di vittime delle epurazioni: la maggior parte dei cadaveri riesumati appartiene a soldati tedeschi. Comoda come dislocazione in quanto si trova in Italia, la scelta di Basovizza risulta provocatoria per la memoria collettiva slovena poiché è il luogo della fucilazione nel 1930 dei primi martiri antifascisti del Tigr. Insomma, lo stato italiano decide di commemorare solo le proprie vittime, anziché andare verso un riconoscimento reciproco delle sofferenze, come è avvenuto con la Commissione storica italo-slovena. A questo proposito l’autore si domanda «Cosa direbbe il governo polacco […] se il presidente tedesco intervenisse in pubblico una volta all’anno per recriminare sulle proprie vittime del 1945 senza accennare nemmeno ai campi di sterminio?» (p. 99). Nonostante la sovraesposizione mediatica degli ultimi vent’anni, la conoscenza degli eventi resta scarsa, come dimostra per esempio l’uso di immagini improprie, quale quello della fotografia di una fucilazione, spesso usata nei volantini degli estremisti di destra, nelle commemorazioni istituzionali e perfino nella trasmissione Rai di Bruno Vespa per presentare le foibe, che in realtà mostra la fucilazione di cinque partigiani sloveni da parte di soldati italiani nel 1942.

Questo evidenzia il macroscopico oblio nella memoria italiana dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e la volontà mistificatoria di raccontare le foibe capovolgendo la realtà, esemplificata anche dalla vicenda dei riconoscimenti alle/ai congiunti di chi è stato/a infoibata, attribuiti a fascisti conclamati, come il tenente colonnello Vincenzo Serrentino, fascista della prima ora, dopo l’8 settembre 1943 prefetto e capo della provincia di Zara fino alla liberazione nel 1945, condannato alla fucilazione come criminale di guerra. La vicinanza del Giorno del ricordo con la Giornata della memoria è frutto della volontà di assimilare foibe e Shoah, ma questa modalità celebrativa risulta divisiva, anziché strumento di riconciliazione nazionale, in quanto contrapposta al 25 aprile e «rischia […] di far passare i fascisti per vittime, ma anche le vittime per fascisti» (p. 105). Invece, rileggere le foibe e l’esodo nel loro contesto storico consentirebbe di liberarsi dal peso della colpa del regime fascista e attiverebbe una vera riconciliazione nazionale, basata sul ripudio del fascismo, e permetterebbe finalmente di commemorare tutte le vittime: «dai croati e sloveni forzatamente italianizzati ai partigiani torturati e fucilati, dai civili internati nei campi fascisti agli innocenti uccisi nelle foibe, fino alle centinaia di migliaia di persone costrette a lasciare la propria terra d’origine al termine di una guerra d’aggressione assurda e spietata» (p. 106).
Fin dal suo apparire il libro ha suscitato l’interesse di gruppi di estrema destra che hanno gratificato l’autore di intimidazioni, minacce e insulti mediatici, costringendolo a parlare in sale presidiate da forze dell’ordine. La sua ricezione sulla stampa, viceversa, è generalmente positiva, con l’eccezione dell’articolo provocatoriamente intitolato E allora i lager?, apparso sull’Huffington Post il 28 gennaio 2021 a firma di Mauro Suttora, giornalista con una lunga carriera nel gruppo Rcs, nonché autore di Mussolini segreto. Diari 1932-1938» (2009) basato sui diari di Claretta Petacci. Suttora evoca fin dal titolo l’associazione foibe/Shoah e attacca senza però decostruirlo l’impianto generale del lavoro di Gobetti, evidenziandone pretese sviste: «Le cose precipitarono quando Mussolini annesse per due anni un terzo della Slovenia (non della Jugoslavia, come scrive Gobetti)». In realtà, lo storico parla di «un’ampia fascia di territorio lungo la costa dalmata, che da Fiume e Lubiana arriva fino al Montenegro, al Kosovo e al confine con l’Albania» (p. 20), fascia che geograficamente non fa certo parte solo della Slovenia. L’obiezione è dunque inconsistente, come le altre mosse da Suttora, il quale né argomenta, né indica le fonti dei dati che riporta, e conclude: «Risparmiamo quindi le foibe da queste anacronistiche risse fra fascisti e comunisti», derubricando il lavoro storico a rissa ideologica. Eric Gobetti, al contrario, nella sua intervista al Piccolo di Trieste del 18 gennaio 2021, spiega in modo limpido che «Il lavoro della ricerca storica va praticato in forma separata dalla politica, ed è quello che cerco di fare con questo libro, ritornando ai dati su cui gli studiosi concordano ed evitando le strumentalizzazioni, che passano anche attraverso l’uso di immagini di barbarie non confermate dalle fonti».
Il volume raggiunge lo scopo che si prefigge e ne sarebbe auspicabile la lettura a scuola, per fare finalmente storia e non propaganda.
***
Articolo di Claudia Speziali
Nata a Brescia, si è laureata con lode in Storia contemporanea all’Università di Bologna e ha studiato Translation Studies all’Università di Canberra (Australia). Ha insegnato lingua e letteratura italiana, storia, filosofia nella scuola superiore, lingua e cultura italiana alle Università di Canberra e di Heidelberg; attualmente insegna lettere in un liceo artistico a Brescia.