Tracce femminili lungo le vie di Brescia. Il Teatro 19

Frutto dell’incontro fra tre amiche che provengono da esperienze in parte differenti, ma condividono l’idea di un teatro di ascolto e di relazione, è il Teatro19, di cui sono direttrici artistiche le bresciane Valeria Battaini, Francesca Mainetti e Roberta Moneta.

Valeria Battaini (in foto), nata il 6 dicembre 1977, comincia la sua formazione teatrale a Brescia per poi diplomarsi a Venezia al corso di perfezionamento per attori professionisti del Teatro stabile del Veneto “Carlo Goldoni” e a Modena al corso di formazione superiore per attori di prosa di Ert (Emilia Romagna teatro). Segue inoltre numerosi stage formativi e affianca all’attività di attrice e regista quella di formatrice.

Valeria Battaini

Francesca Mainetti (in foto), nata il 25 marzo 1971, si forma al Ctb (Centro teatrale bresciano) cominciando come allieva attrice nel 1991 e lavorando con i registi Nanni Garella e Sandro Sequi. Dal 1993 collabora stabilmente con la Fondazione sipario Toscana di Cascina, sia come attrice, sia come formatrice. Negli stessi anni lavora presso il Centro di ricerca teatrale di Pontedera e fonda con Paola Bea la compagnia Infanzia feroce, dedicata alla ricerca fisica e vocale. Dal 2010 collabora con l’unità operativa di psichiatria degli Spedali Civili di Brescia, occupandosi del rapporto tra teatro e salute mentale. Tra i suoi lavori cinematografici più interessanti è il film L’aria del lago di Alberto Rondalli, uscito nelle sale nel 2008.

Francesca Mainetti

Roberta Moneta (in foto), nata il 23 settembre 1971, si diploma attrice di prosa alla Scuola di teatro di Bologna, diretta da Alessandra Galante Garrone e debutta come professionista nel 1992 in Un Pinocchio Cuordilegno, diretto da Paolo Meduri e prodotto dal Ctb (Centro teatrale bresciano). Dal 1994 al 1998 lavora alla Fondazione sipario Toscana  per cui interpreta Caino e Abele nell’isola della guerra e Ragazzi terribili — e dal 1999 al 2002 collabora con Teatro Inverso, come formatrice, attrice e regista. Cofondatrice e condirettrice di Teatro 19, ha scritto e diretto numerosi spettacoli — Ooops… sono un mago, Chiudi gli occhi, Cade il cielo, La lunga strada a Pierpulcino, Il vestito nuovo della signora Italia, Voglio vivere così  atto unico per una costituzione a prova a prova di bambino, L’angolino più buio del buio — ha diretto alcuni spettacoli di Gianluca De Col — Amami, basta un click!, Acquo… lina, Vedere la società mi cambia spesso d’umore — ed è stata interprete di Minuscoli miracoli, Il segreto della quinta luna, L’angolino più buio del buio, Una voce dalle rose, La guerra silenziosa del Natale. Dal 2001 è anche giornalista radiofonica e della carta stampata.

Roberta Moneta

Le incontro via zoom per cercare di capire di più il senso e le modalità del loro lavoro, un’avventura condivisa cominciata nel 2004.

La mia prima domanda è: «Perché Teatro 19? Qual è l’origine del nome?»
Roberta: «19 è l’età. A diciannove anni si può essere tutto ciò che si vuole. È un teatro della possibilità».
Valeria: «È energia in potenza, un teatro senza muri».

Chiedo: «Che significa concretamente senza muri?»
Valeria: «Un teatro diffuso, periferico, strettamente legato alla contemporaneità e spesso rappresentato in luoghi della quotidianità. Il nostro interesse per il periferico nasce dal suo essere un luogo/non luogo in cui si annida l’umanità, che per il teatro è molto interessante».
Francesca: «Senza muri, anche nel senso di non limitarsi da sé. Abbiamo una sede fisica che però non è una sede teatrale vera e propria. La nostra compagnia porta i propri spettacoli fuori dal teatro, inizialmente in biblioteche e scuole. In Voglio vivere così  atto unico per una costituzione a prova a prova di bambino, per esempio, arrivavo in classe in bicicletta. Nelle sale delle circoscrizioni, invece, abbiamo fatto laboratori teatrali, che poi diventavano spettacoli».
Valeria: «Il nostro è un teatro in ascolto della gente della città. Costruiamo drammaturgie in ascolto dei luoghi e dei non luoghi e di chi li abita, facciamo un “teatro fuori luogo” che si svolge per esempio alla torre Cimabue di San Polo (è un quartiere periferico progettato da Leonardo Benevolo, costituito da case a schiere e torri, altissimi condomini, non luogo, spesso di disagio e degrado. Ndr) o sull’autobus numero 3 (collega il centro della città con il quartiere Mandolossa, attraversando la lunga via Milano, ora oggetto di un grande progetto di riqualificazione e bonifica ambientale, ma fiancheggiata da stabilimenti che per quasi un secolo hanno pesantemente inquinato e quartiere tra i più multietnici della città. Ndr). Anche il nostro linguaggio è popolare, nella più nobile delle accezioni, e fruibile, perché vuole dar luogo a un dialogo vivo tra chi fa e chi assiste».

Domando: «Mi potete fare degli esempi?»
Francesca: «Dal 2011 organizziamo “Barfly — Il teatro fuori luogo” che porta il teatro dove non si fa teatro e in luoghi non vissuti. Facciamo laboratori e workshop nei parchi cittadini, cui possono partecipare tutti e tutte, non solo le persone iscritte, anche chi si trova a passare per caso e prova curiosità per la nostra proposta».
Roberta: «Dal 2015, nell’ambito di “Metamorfosi festival — scena mentale in trasformazione” (in foto), in partenariato  con l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale Spedali Civili di Brescia, proponiamo parate di strada e azioni sceniche di strada che coinvolgono fino a 100 persone e vedono la partecipazione della sezione giovanile della banda cittadina “Isidoro Capitanio”, altre/i artisti del territorio quali scenografi/e, musicisti/e, danzatrici e danzatori, utenti dei servizi di salute mentale, allievi/e dei nostri laboratori. Una delle nostre cifre è la relazione e queste parate di strade e azioni sceniche sono un lavoro condiviso fra arte e associazionismo. Puntiamo molto a una relazione diretta con il pubblico e i nostri spettacoli, tratti da drammaturgie originali, sono il risultato di un lavoro di ricerca e dialogo collettivo fra regia, attrici e attori, spettatori e musica. Ricerchiamo e coltiviamo la relazione sia con il pubblico, sia con altre artiste e artisti di sensibilità affine e abbiamo realizzato coproduzioni con Acque e Terre Festival, Crucifixus Festival di Primavera, Teatro Litta di Milano».
Francesca: «La compagnia “Metamorfosi” è composta da tre figure attoriali professioniste, cioè noi, e da altre tre non professioniste, utenti del servizio di salute mentale, e contribuisce a trasformare i luoghi e le relazioni tra utenti e operatrici e operatori della salute mentale. Le esperienze teatrali divengono esperienze di vita in cui entra la sofferenza. Partecipano persone molto auto-consapevoli, che scelgono autonomamente di far parte dell’esperienza, non vi sono indirizzate dalle operatrici e dagli operatori, e progettano insieme a noi. Grazie a una rete di partenariato diffuso e istituzionale — Recovery net, in scadenza a ottobre 2021 —da tre anni è possibile retribuire anche le/gli attori non professionisti».

Valeria: «L’edizione 2020 di Metamorfosi Festival, prevista per marzo, è stata recuperata a settembre. Il festival è l’uscita pubblica del lavoro della compagnia, frutto della relazione con la salute mentale, e instaura, a sua volta, relazioni con altri soggetti — Cinema Nuovoeden, Fondazione Brescia musei, Centro teatrale bresciano — per realizzare eventi quali proiezioni cinematografiche, spettacoli al Teatro Sociale e al Santa Chiara-Mina Mezzadri, concerti. Nasce dalla volontà di parlare a pubblici diversi e mettere in atto un’invasione pacifica della città. La ricerca di dialogo non si limita alla dimensione locale, ma aspira, attraverso convegni annuali, a costruirne uno di respiro nazionale. Il convegno 2021 sarà diluito nel tempo e realizzato parte in presenza, parte on-line (conferenze digitali)».

Ultima domanda: «Pensate che la centralità dell’ascolto e della relazione nel vostro lavoro abbiano a che fare con l’essere donne?»
Valeria: «No. Siamo persone. Non mi piace che le donne siano automaticamente associate al lavoro di cura».
Francesca: «Mi piacerebbe non fosse così. Nello stare in ascolto, tessere relazioni, trasformarci capiamo insieme alla città».
Roberta: «Essere in tre ha molto a che vedere con quello che facciamo. Ci nutriamo delle nostre differenze. Lavorare insieme è più faticoso, ma più nutriente. E questo aspetto si ritrova nel lavoro quotidiano delle donne».
Francesca: «Forse c’è una radice femminile. Siamo tre direttrici artistiche, il che non è molto diffuso nelle compagnie teatrali, basate generalmente sulla suddivisione dei ruoli. Forse è così perché abbiamo iniziato come amiche, il nostro progetto nasce da relazioni personali».
Roberta: «Lavorare in questo modo è molto faticoso perché implica una ricostruzione continua della propria identità. Ri-trovare ogni giorno sé stesse, trovando nuovi significati e ri-trovare il senso del proprio fare in tante direzioni, toglie centralità. Viviamo le esperienze in modo diverso e il nostro approccio funziona nel modo migliore quando ci confrontiamo molto tra di noi; insomma, mi nutro e provo a nutrire. Trovo molto femminili queste modalità generative di relazione e di processi artistici».

***

Articolo di Claudia Speziali

mbmWJiPdNata a Brescia, si è laureata con lode in Storia contemporanea all’Università di Bologna e ha studiato Translation Studies all’Università di Canberra (Australia). Ha insegnato lingua e letteratura italiana, storia, filosofia nella scuola superiore, lingua e cultura italiana alle Università di Canberra e di Heidelberg; attualmente insegna lettere in un liceo artistico a Brescia.

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