Editoriale. è IL CIELO A LANCIARE LA SFIDA

Carissime lettrici e carissimi lettori,

oggi più di ogni altra volta, ricomincio l’editoriale da dove l’ho terminato, insieme a voi, la settimana scorsa. Lawrence Ferlinghetti, il poeta libraio, editore e pittore, tra i simboli della Beat generation, se ne è andato nelle prime ore di martedì scorso a una manciata di giorni (quasi un mese esatto) dal suo compleanno: 102 anni il 24 marzo.

Oggi qui ci sentiamo di celebrarlo di nuovo alla fine di questo scritto con una delle sue poesie più belle, Il poeta pescatore, che elabora il suo leitmotiv sul tema della morte e (permettetemi un paragone forse azzardato) mi ricorda per certi versi l’appassionante canzone, quasi omonima, di Pierangelo Bertoli, Il pescatore.

Ferlinghetti, lo abbiamo detto, era figlio di due migranti: la madre era nata in una famiglia ebrea sefardita portoghese e il padre era bresciano. L’Italia, in effetti, sarà sempre nel cuore del poeta e tante volte è venuto nella sua terra di origine con mostre dei suoi quadri e per recitare le sue poesie. Amava Dante Alighieri e qui lo ricordiamo con alcuni suoi versi dall’ironia a lui solita: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi imbattei in me stesso e non capii niente»! In Italia l’opera di Lawrence Ferlinghetti è stata portata da Fernanda Pivano insieme a tutta la poesia americana di quel periodo, da Jack Kerouac a Allen Ginsberg, amata e diffusa dalla grande genovese alla quale ancora la sua città non riesce a dedicare una piazza o una strada degne di darle la visibilità che merita. Qui è simpatico (seppure ha il sapore di un tragico perbenismo) l’episodio che lega ancora di più Ferlinghetti ad Allen Ginsberg, che fu causa per il poeta di origine italiana di un breve periodo di carcere perché una sua opera, L’Urlo, venne giudicata oscena dalla giustizia americana. Era stata venduta (a un poliziotto!) nella City Lights, la famosissima libreria, ritrovo di amici e intellettuali, da lui fondata e sede anche della sua casa editrice, motore culturale della Beat Generation di cui il poema di Ginsberg può essere giudicato un manifesto. Viene ben definito, «un urlo di dolore, di denuncia, di celebrazione, i cui versi scorrono al ritmo del Bebop (oltre che musica fu un vero e proprio stile di vita, n.d.r.) e dell’avanguardia degli anni cinquanta»: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte…» (incipit del poema, 1955).

Passiamo ora a celebrare un altro mito della cultura e dell’arte, un altro simbolo poetico che ci ha fatto e, in questa epoca benjaminiana della riproducibilità tecnica,ci fa ancora piangere, ridere ed emozionare con i suoi occhi grandi sgranati sul mondo fantastico dei film nei quali magistralmente recitava. Giulia Anna Masina era nata cento anni fa, il 22 febbraio 1921, a San Giorgio di Piano, nel bolognese, un paese al quale sarà sempre legata e nel quale spesso ritornava, in treno, in compagnia del suo importante e amatissimo marito, Federico Fellini.

A Giulietta Fellini non dette mai artisticamente il cognome, ma fu lui a coniare il suo nome, al diminutivo. Fellini non fu però il solo a dirigerla, Masina recitò solo in sette dei suoi film. Fu attrice anche di Roberto Rossellini, Alberto Lattuada, Luigi Comencini, Marcello Marchesi e altri ancora. Ma certo il successo e i ruoli che portarono Masina a essere conosciuta a livello internazionale furono quelli recitati sotto la guida del marito, da La strada, a Giulietta degli Spiriti, che lei poco amava perché mal sopportava la figura di una donna sottomessa, a Lo sceicco bianco (con un magistrale Alberto Sordi) fino alle Notti di Cabiria, in cui continua la storia della prostituta del film precedente e personaggio per lei ricorrente anche in altri film. Fino al fantastico duetto con Marcello Mastroianni in Ginger e Fred, visitazione, da anziani, dei due famosi ballerini americani.

Ma il volto di Giulietta Masina che porto dentro è quello malinconico e fanciullesco (ma lei sapeva prestarlo anche alle sue prostitute) di Gelsomina, voluta fortemente sul set de La strada da Anthony Quinn, suo partner artistico, l’indimenticabile Zampanò, dopo che la candidatura di Masina, proposta da Fellini aveva ricevuto il rifiuto da parte di tanti produttori. E invece Masina vinse. Vinse la sua eccellenza di recitazione che contribuì a portare al capolavoro felliniano l’Oscar come miglior film straniero.

Pensando a questa minuta, ma tenace attrice che il marito chiamava in romagnolo spippolo, indicando un essere insieme piccolo e tenero, ci piace, con il suo personaggio, spaesato e innocente, credere al viatico che “il matto” (Richard Basehart) indica a Gelsomina, che ogni persona “serve” a qualcosa, in qualche modo un richiamo alla poetica di Frank Capra, un altro grande della settima arte. Le note dell’indimenticabile Nino Rota che escono dalla tromba di Gelsomina suoneranno di nuovo ai funerali di Giulietta Masina, come lei stessa aveva voluto. La sua vita si è conclusa il 23 marzo del 1994 poco più di cento giorni dopo la morte di Federico Fellini, il 31 ottobre 1993, quando fece in tempo a celebrare (il giorno prima), seppure in ospedale, il loro cinquantesimo anno di matrimonio.

Tornando dalla poesia alla durezza delle cronache odierne, ben altro anniversario dobbiamo annoverare tra le date del presente. Un anno fa iniziava per l’Italia il vero contatto con il virus coronato, “scoperto” dal coraggio di una dottoressa, con una disobbedienza al protocollo formale, cosa che farà diventare ufficiale il paziente n.1 a Codogno, e a dare tristemente il via al primo lockdown ma, soprattutto, alla serie infinita di morti che rimandano alla memoria le interminabili code di camion militari sfilati per le strade del bergamasco, pieni di bare e di dolore.

Dopo 12 mesi siamo ancora in sospeso. Purtroppo, rispetto all’invisibile quanto forte virus, ci troviamo attaccati al filo dell’incertezza. I vaccini ci sono, ma non quanti dovrebbero essere per tutto il mondo infettato. E intanto il Covid-19, come è stato appellato, per dirla con un bisticcio di parole, cova vendette riproducendosi in subdole e contagiosissime varianti che pongono interrogativi alla validità contrastante dei vaccini.

E mentre una donna, Jasmin Harrison, naviga in primato, solitaria, l’oceano Atlantico o Larissa Lapichino, figlia di Fiona May, vola in alto competendo con i passati trionfi materni, c’è chi non riesce a alzarsi al di sopra del linguaggio patriarcale e continua il dialogo con le donne ragionando in termini sessisti e non per ciò che rappresentano come persone con il loro pensiero. 

Prima di chiudere veniamo a dare uno sguardo d’insieme al numero odierno della nostra rivista. Calendaria 2021 ci offre la storia europea di Slava Raskoj, la pittrice croata morta appena ventinovenne, che seppe dare alle sue opere un’espressione tutta al femminile. Un’altra pittrice la troviamo, in compagnia dell’autrice, a Monsummano Terme, la mostra dedicata ad Anna Scotti e ad altre sue contemporanee. Dalla Toscana alla Sicilia per conoscere una donna coraggiosa e di larghe vedute, Rosita Lanza, che si occupò di educazione sessuale e di contraccezione in un tempo e in una società restie ad argomenti del genere. E di musica parla anche il resoconto del nostro secondo salotto letterario, Les salonnières virtuelles, che martedì scorso, ultimo del mese, è stato dedicato appunto alla musica, composta e ascoltata dalle donne. Ancora di musica si parla raccontando la storia interessante di Dexter Gordon, un sassofonista di grande qualità, purtroppo non conosciutissimo e sottovalutato. Interessante la “chiacchierata” con Toni Morrison, insignita nel 1993 del Nobel per la Letteratura, affermandosi come prima afroamericana a vincere il Premio. Brescia ritorna con una donna del cinema, l’attrice Kiki Palmer. Leggeremo poi anche storie femministe in un excursus dal 1700 a oggi. Un nuovo social, il clubhouse sembra molto interessante e aperto e ci incuriosisce. Andiamo lontano, per la giornata mondiale della preghiera, con le donne dell’isola di Vanuatu, immersa nell’oceano Pacifico. Un libro da leggere è quello di Claudia Basile sulla parola, attraverso 23 racconti di cui è formato il libro.

Molto abbiamo da imparare nella seconda puntata dell’articolo riguardante le disuguaglianze, non solo economiche, scatenate con maggior crudeltà e vigore dal regno del Coronavirus. E sempre di pandemia si parla in un libro che è un dialogo sul tema e sulle parole attinenti ad esso, fatto da una coppia di scrittori sulle sensazioni provate reciprocamente durante questo difficile periodo. Il Senso dello stupore aleggia, invece, nello struggente ricordo di un’amica visitata un tempo, nella sua casa al di là della foresta, e poi scomparsa per sempre.

Mentre nella formazione dell’attuale Governo cosiddetto tecnico le donne sono apparse in numero davvero irrisorio, sia come ministre che come sottosegretarie, sono tante le insegnanti, soprattutto quelle che migrano per l’Italia intera per accelerare il raggiungimento della stabilità lavorativa (oggi qui è la seconda puntata). Da non mancare la storia di Mika, anarchica, rivoluzionaria, lucida osservatrice dei movimenti politici del ‘900. Interessante anche la ricetta, questa volta intrisa di ricordi di una bambina che si vergognava a portare a scuola la sua merenda, segno di una provenienza povera e contadina del lontano sud e che, invece, finirà per incuriosire le compagne che scambiano il loro pane e cioccolata, tanto desiderato dall’autrice, con il panino con la piccante e profumata “rossa”, il sugo di pomodoro speziato che porterà tra le bambine i bei doni della curiosità, della condivisione e del trionfo affettivo.

Chiudiamo, come promesso all’inizio, con la bella poesia di Lawrence Ferlinghetti. «Una lirica è stato detto che ha il sapore della saggezza estrema, della consapevolezza che invecchiando impari a sentire che la vita non ha più bisogno di essere vissuta con competizione perché l’unico e solo punto di riferimento è il cielo»:

«Invecchiando percepisco
che la vita ha la coda in bocca
e gli altri poeti gli altri pittori
non significano più alcun genere di competizione
È il cielo a lanciare la sfida
il cielo ha bisogno di decifrare
anche se gli astronomi si sforzano di sentirlo
con le loro enormi orecchie elettriche
il cielo che ci sussurra costantemente
gli ultimi segreti dell’universo
il cielo che respira dentro e fuori
come fosse l’interno di una bocca
del cosmo
il cielo che è anche la sponda della terra
e anche quella del mare
il cielo con le sue molte voci e nessun dio
il cielo che racchiude un mare di suoni
e di echi che ci rimanda
come in un’onda contro la parete del mare
Poesie intere dizionari interi
arrotolati in un rombo di tuono
E ogni tramonto un action painting
e ogni nuvola un libro di ombre
attraverso le quali volano selvagge
le vocali degli uccelli che stanno per gridare
E il cielo è chiaro per il pescatore
anche se è coperto
Lo vede per quello che è:
uno specchio del mare sul punto di crollare su di lui
sulla barca di legno al cupo orizzonte
Dobbiamo pensarlo come poeta per sempre faccia a faccia con la vecchia realtà
dove gli uccelli non volano mai prima della tempesta
E lui sa quello che verrà giù
prima dell’alba
e lui è la sua migliore vedetta
ascoltando il suono dell’universo
e cantando le sue visioni
della terra dei vivi».

Buona lettura a tutte e a tutti.

Buona lettura a tutte e a tutti.

***

Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

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