Sono numerosi i Paesi dove — per consuetudine cristallizzata — con il matrimonio la donna perde il suo nome di famiglia e assume quello del marito. Questa prassi è emblematica delle società di stampo patriarcale. “Lei” appartiene a un nucleo familiare fino a che “lui” non la includa nel suo, come mostra la prossemica secolare di un rito in cui il padre simbolicamente “consegna” la figlia al futuro sposo. Cambia anche l’appellativo: “signora” quando si sposa, non più “signorina”. L’equivalente maschile non esiste, nessuno dice “signorino”, come un tempo i domestici chiamavano il figlio più giovane dei padroni.
Il codice civile del Regno d’Italia si esprimeva cosi: «Il marito è capo della famiglia, la moglie ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda». D’altronde il capo non godeva anche dello ius corrigendi? Non era arbitro delle decisioni sui comportamenti della moglie e sull’educazione della prole? Non poteva appellarsi all’”onore” della famiglia addirittura quando diventava assassino? Quanta fatica per cambiare il diritto di famiglia!
Per quanto attiene al nostro tema, dal 1975 il Codice Civile abolisce le gerarchie e stabilisce che la donna mantenga il proprio cognome anche da sposata, ma prevede che possa aggiungere al suo quello del marito (per fortuna esso non viene più riportato sui documenti, anche se si ripresenta in alcuni elenchi elettorali). Il caso inverso non è nemmeno concepito (in alcuni Paesi del nord Europa è invece comune che il marito assuma il cognome della moglie). È caduto il dogma della indivisibilità, sotto certi profili è caduto il dogma della matrimonialità e, in un certo senso, si è attenuato il dogma della eterosessualità. Il cammino, però, è ancora molto lungo e non possiamo certamente affermare che l’ordinamento italiano declini, come dovrebbe fare, il concetto di famiglia in modo plurale e paritario.
E figli e figlie? La norma del D.P.R. 396/2000 consentiva la possibilità di chiedere un cambio del cognome nei soli casi in cui esso fosse ridicolo, vergognoso o tale da rivelare l’origine naturale della persona. Un primo timido cambio alla disciplina si realizzò nel 2012, quando il Decreto n. 54 modificò il testo, prevedendo la possibilità che il figlio potesse chiedere di “aggiungere al proprio un altro cognome”. Dove in pratica si legge che il cognome della madre non soltanto non ha la rilevanza di quello del padre, ma addirittura il suo ruolo è sostanzialmente identico a quello del cognome di una qualunque altra persona.
Correva l’anno 2016 quando la Consulta, con la sentenza n.286 — considerata una delle pietre miliari dell’uguaglianza di genere — sancì l’incostituzionalità della norma che prevedeva l’automatica attribuzione del cognome paterno alla prole: «è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia». Si afferma però che il nato/la nata possa portare tanto il cognome paterno quanto quello materno solo nel caso in cui esista il consenso espresso di entrambi i genitori, mentre si lascia inalterata la disciplina originaria nel caso in cui i coniugi non abbiano manifestato alcuna intenzione o nel caso in cui tale consenso manchi. In tali casi torna a prevalere la forza della tradizione. Era comunque una prima breccia: nel febbraio 2021 la Corte annuncia di considerare ormai indifferibile un intervento correttore del diritto in tema di cognome, considerando che il Parlamento italiano, nonostante le numerose sollecitazioni di cui è stato destinatario, non è stato in grado di offrire risposte, alimentando così una cultura patriarcale e maschilista.
La patronimia equivale, infatti, alla cancellazione simbolica della genealogia femminile: insegna ai maschi che sono i soli a poter dotare di riconoscibilità, e quindi di dignità sociale, la famiglia e la prole. Alle femmine trasmette per converso un messaggio di inferiorità manifesta, di marginalità rispetto alla comunità e alla storia, di identità posta perennemente sotto protezione. L’eroe omerico Achille era figlio di un uomo mortale e di una dea immortale, eppure era il Pelide: figlio di Peleo. Auguri e figli maschi. La legge Salica — valida in molte nazioni — prevede la successione al trono solo in linea maschile. Dove esiste la monarchia ancora si sparano 25 colpi di cannone se nella famiglia reale nasce una femmina, 100 se nasce un maschio. È la regola: una soggettività minore dev’essere governata anche tramite la cancellazione. È il destino sconfitto delle madri, il seme malato della disuguaglianza. Il linguaggio è stato costretto per secoli entro i legami che definiscono una donna ora come madre di, ora come figlia di, ora come moglie di, destinandola a non potersi sottrarre alla parentela e agli affetti privati per inscriversi nell’ordine pubblico.
Esiste una narrazione solo maschile della sovranità che s’incarnò per millenni nell’autorità del pater familias, a esaltare l’universale astratto della legge contro il particolare concreto della vita. Il matrimonio d’amore, che per noi oggi è prassi indiscussa fino a parere un diritto, è un fenomeno che si è affacciato sulla scena da due secoli ma si è diffuso su ampia scala solo nel ‘900; in precedenza le nozze erano decise dalle famiglie, spesso senza neppure interpellare i diretti interessati, specie di sesso femminile. Non era pensabile percorrere altre strade, vivere i ruoli in modo diverso, se non subendo la riprovazione sociale o sanzioni vere e proprie (non tutti peraltro potevano sposarsi, ed è noto che il destino dei figli cadetti e delle figlie senza dote, nelle famiglie nobili, era quello di non poter accedere alla scelta matrimoniale).
Le parole sono eloquenti: ‘matrimonio’ coincide con l’autorizzazione sociale a diventare legittimamente madre; ‘patrimonio’ non c’entra con il ruolo maschile nel concepimento ma con la trasmissione della roba, terre, case, denaro. Roba da uomini, roba seria. Le transazioni economiche prematrimoniali hanno avuto nella storia un ruolo centrale nello stabilire o cementare legami e alleanze tra gruppi famigliari distinti e sono nate come compensazione per il trasferimento del potere produttivo e, soprattutto, riproduttivo della sposa dalla propria famiglia di origine a quella del marito. D’altronde i figli nati fuori dal matrimonio e non riconosciuti dal padre non si chiamavano un tempo non solo “bastardi” ma “figli di nessuno”? La madre era “nessuno”: non aveva importanza essendo mero contenitore, sessualmente passiva, socialmente irrilevante. Pensiamo alle parole che leggiamo nella tragedia Eumenidi sulla bocca di Atena, chiamata a giudicare Oreste accusato di matricidio: Non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio: ella è nutrice del germe in lei seminato. Il generatore è colui che feconda. Ne era convinto il sommo Aristotele, che spiegava che i due elementi alla base della procreazione sono il seme maschile (dotato di virtù formatrice) e il sangue mestruale (materia passiva e grezza) delle donne, «esseri deficienti e occasionali». Nonostante la ginecologia e l’ostetricia nei secoli avessero fatto molti passi avanti, nel 1750 l’anatomista Jacques Fabien Gautier-Dagoty pubblicò un libro in cui ugualmente sosteneva, con l’avallo potente delle sacre scritture, della legge salica e della morale, che solo il padre contribuisce attivamente alla creazione della prole. La svolta definitiva avvenne solo nell’800, quandola scienza finalmente consolidò e diffuse una conoscenza seria della procreazione. Sempre comunque arbitra delle definizioni sociali delle situazioni si fece la Chiesa, che si arrogava il diritto esclusivo di intervenire nei momenti salienti della vita e soprattutto su questo monopolio fondava il proprio potere.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.