Abituare all’uso dei sinonimi, già a partire dai primi anni di scuola, è un tassello importante dell’educazione linguistica. Si insegna a non ripetere più volte la stessa parola all’interno di una frase o di un periodo, a trovare una parola meno comune o, ancora, a evitare le parole generiche, cercando espressioni più precise. In altre parole, si cerca di “allenare” alla ricchezza lessicale e di stimolare la riflessione sulla lingua. In fondo la variatio può anche diventare una sorta di divertimento e di gioco (e non è soltanto utile a risolvere le parole crociate). Allo stesso tempo, a scuola si impara che molti sinonimi non sono davvero intercambiabili e che questa variatio può essere insidiosa: domanda e quesito sono sinonimi? Motivo e causa? Felice e contento? Se non si fa attenzione al contesto in cui una parola viene usata, lo scivolone è dietro l’angolo, soprattutto quando si ha a disposizione il Thesaurus accluso nei programmi di scrittura (quello che si apre con maiuscola-F7, per chi, come me, usa Word): un programma davvero utile, ma solo sei hai sviluppato e continuato a coltivare la tua coscienza linguistica. Altrimenti i risultati possono essere imbarazzanti. Ultimamente ho letto un articolo che parlava della risoluzione di un “quiz matematico”. Quiz? Cioè una domanda tipo Trivial Pursuit? Dal contesto era chiaro che non si trattava di un quiz bensì di un problema (matematico), ma la manipolazione linguistica della notizia, passata in rete da un articolo all’altro senza una vera riflessione, ha fatto diventare il problema matematico un quesito matematico, una domanda matematica e infine un quiz. Ma un matematico si occupa di risolvere quiz? Quando a scuola impariamo a usare il teorema di Pitagora, risolviamo dei quiz di geometria? No, in matematica si risolvono problemi, non quiz. Senza una coscienza linguistica, l’uso del dizionario dei sinonimi può dunque portare ad una comunicazione imprecisa, alla nascita di equivoci e, a volte, alla distorsione della realtà. Non è sicuramente facile destreggiarsi tra precisione linguistica, comunicazione e stile, ma chi diffonde notizie, e lo fa di mestiere, dovrebbe avere queste competenze sommate ad una particolare sensibilità per capire quando un sinonimo è appropriato al contesto o meno. Si tratta spesso di sfumature, ma proprio questa attenzione alle sfumature della lingua non riguarda unicamente giornalisti, scrittori, blogger, influencer o chiunque scriva per mestiere o per diletto, ma tutti noi. Le sfumature di senso racchiudono più di quanto di possa immaginare a prima vista e fanno emergere il non detto. Se parlo di quiz matematico quello che l’altra persona pensa di me è che o non so scrivere, o non conosco la lingua o ho litigato con la matematica (o con l’insegnante) da bambina.
Le parole che si usano, con il loro bagaglio di significati, possono anche fare la differenza in ambiti più delicati. Qualche tempo fa ho letto un articolo in inglese sulle motivazioni giuste o sbagliate che stanno alla base di un’adozione. Una motivazione sbagliata, secondo la giornalista, è ad esempio quella di voler diventare genitori adottivi per salvare qualcuno (‘save’), mentre una motivazione giusta è quella di volerlo per aiutare qualcuno (‘help’). Save o help, salvare o aiutare: e che differenza c’è?
Certamente una prima differenza sta nella connotazione religiosa e morale di salvare/save (salvare un’anima dal peccato e dalla perdizione), ma questa prima spiegazione, tuttavia, non mi è sembrata esauriente. Riflettendo dunque ulteriormente sui diversi significati, mi sono accorta che, in molti contesti, con la parola salvare l’attenzione cade inevitabilmente sul salvatore o sulla salvatrice e che chi viene salvato passa, in un certo senso, in secondo piano. Questa è la mia percezione se sento frasi del tipo salvare dalla povertà o salvare dalla droga e mi sembra che ciò vada nella stessa direzione di questa frase di Simone de Beauvoir: “Riporre la propria salvezza su qualcuno che non sia noi stessi è il più sicuro mezzo di correre alla propria perdita”. (da L’età forte). Con aiutare/help, invece, mi sembra che il soggetto dell’azione abbia un ruolo più sfumato, meno attivo, perché l’aiuto può essere una conseguenza di un’offerta ma anche di una richiesta ma non può essere un’imposizione. C’è dunque una sorta di collaborazione tra le parti: io ti aiuto, tu ti fai aiutare. Certo, nel caso di bambini e bambine, magari appena nati o nate, l’offerta di aiuto non viene e non può essere percepita come una collaborazione attiva tra le parti, ma l’uso di aiutare fa emergere l’impostazione mentale nei confronti dell’adozione da parte degli aspiranti genitori. E durante un colloquio di idoneità può fare una gran differenza.
Mi rendo conto che questa mia riflessione, questa sorta di viaggio nelle differenze semantiche può essere condivisa o meno, anche perché la coscienza linguistica dipende dalla formazione, dalle letture, dal bagaglio linguistico regionale e/o dialettale o anche dall’influsso di altre lingue. A prescindere però dalle argomentazioni qui esposte, sulle quali si potrebbe aprire una discussione, riflettere sulle sfumature di senso rimane un esercizio di educazione linguistica utile e importante perché bisogna essere consapevoli che le parole danno sì voce ai pensieri ma allo stesso tempo fanno emergere le nostre qualità nascoste come anche i nostri pregiudizi e le nostre paure.
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Articolo di Lorenza Pescia De Lellis

Nata e cresciuta nel Canton ticino, sono stata assistente al Romanisches Seminar di Zurigo e ho collaborato all’edizione degli Scritti linguistici di Carlo Salvioni. Attualmente vivo negli Stati Uniti e sono visiting scholar all’Institute for Advanced Study di Princeton. Tra i miei interessi di ricerca ci sono il linguaggio di genere, il multilinguismo e la politica linguistica, l’analisi del discorso, la storia della linguistica.