«Servirà ricordarsi di queste cose?»
James Hillman nel suo libro Il codice dell’anima parla della teoria della ghianda, sottolineando come «il senso della vocazione è quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana». La ghianda rappresenta l’idea che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta. Secondo Hillman, alla nascita, ciascuno/a di noi riceve un daimon, una sorta di compagno guida, che ci ricorda chi siamo e conduce il nostro destino. La vita e la morte di Eleonora de Fonseca Pimentel (Roma 13.1.1752-Napoli 20.8.1799) mi hanno ricordato tutto questo, quanto forte deve essere stato in lei il senso della chiamata alla vita in un’epoca in cui essere donna, scrittrice, attivista politica non era un fatto né semplice né scontato.
Ripercorreremo alcuni passaggi della sua esistenza dialogando con il romanzo storico di Enzo Striano, Il resto di niente, in cui l’autore rievoca l’impegno della nostra protagonista. Il libro analizza lo snodo del 1799, momento in cui, a Napoli, capitale del Regno delle due Sicilie, alcuni illuministi, sull’onda lunga delle notizie della Rivoluzione francese, tentano di realizzare «l’ambiziosa e fragile» Repubblica partenopea. Striano scandisce la vita di Eleonora attraverso due città: Roma e Napoli. La prima vede accogliere la famiglia de Fonseca Pimentel esule dal Portogallo, nella seconda compirà il suo destino di donna e di intellettuale.
A quindici anni aveva ricevuto l’istruzione per una ragazza della sua età ed era pronta per l’ingresso nei salotti. Il suo istitutore le regalò un volumetto dal titolo La damigella istruita che piacque molto alla giovane Lenor perché conteneva nozioni di fisica, chimica, economia; lesse anche Conversazione sulla pluralità dei mondi di Bovier de Fontenelle in cui apprese come l’universo ha avuto inizio; tuttavia più di ogni altra cosa l’appassionò la poesia, soprattutto i versi di Metastasio. «Li divorò con intenerito stupore. Quei versi trattavano, con naturalezza, sentimenti che lei pensava andassero nascosti. La colpì il fatto che senza vergogna gli autori si presentassero desolati, sconfitti, non già da tragiche vicende di guerra o di potere, bensì per delusioni amorose».

A diciotto anni la troviamo a Napoli e Striano ci racconta di come Eleonora avvertì uno dei passaggi della sua vita. Fisicamente si reputava compiuta, sebbene non si sentisse né bella né brutta, ma i mutamenti importanti avvenivano dentro di lei: «aveva già conquistato due certezze: il luogo, l’impegno. Da Napoli non si sarebbe più mossa. La seconda certezza? Continuare a leggere, scrivere, coltivare idee». Un unico grande limite si frapponeva tra i sogni e la realizzazione del proprio destino: il suo essere donna.
Come conciliare la libertà dello spirito con l’indipendenza economica? «Spesso le vie che il mondo ti presenta per liberarti dal bisogno sono ugualmente meschine. Guadagni una libertà, ne perdi un’altra. A nessuna donna del Regno era aperto il piccolo mondo del lavoro di qualità. Soltanto cameriera, cuffiara, stiratrice, puttana. Non esistevano medichesse, avvocatesse e apparivano mostri donna Colubrano Pignatelli che studiava matematica o Mariangela Ardinghelli che aveva scritto di elettricità. Dai libri, inoltre, non veniva un grano».

Ma qual era, dunque, questo innocente sogno di libertà di Eleonora? «Non desiderava che d’esser felice. Non occorreva molto: stare tranquilla ai sogni della mente, ai libri, trasformarsi in piccola, innocua divinità, lieta di governare un mondo da lei stessa edificato, perciò amabile, privo di misteri. Tutto qui. Non ne aveva il diritto?». Sappiamo che nella Napoli del Settecento questo non era un diritto né per Eleonora né per nessun’altra. Sappiamo che nel XXI secolo ci sono luoghi del mondo in cui questo non è ancora possibile. Sappiamo che dove ciò è possibile, specie in Occidente, molte donne non lo hanno ancora capito. Fonseca Pimentel fu costretta dunque ad un infelice matrimonio di convenienza e perse l’unico suo figlio, Francesco. Ciononostante andò avanti nel suo sogno e nella sua vocazione, quella cioè di immaginare per Napoli una società rigenerata, lontano dal dispotismo borbonico e dalla miseria. Come sarebbe stato possibile? «Ecco dove doveva andare il mondo: verso una storia nuova, guidata non più da sinistri despoti delle coscienze e dei corpi, ma dalle menti illuminate. Il mondo costruito dai re, dai nobili, dai preti, era ancora saldo da millenni. Il numero d’uomini nuovi minimo, l’ignoranza dei popoli massima».

In Eleonora, educata dallo spirito critico dell’Illuminismo, il mondo delle sfarzose processioni napoletane ― «un corteo con un uomo appeso a un’enorme croce, rosso, gonfio per il dolore e per lo sforzo; seguito da Madonne e Maddalene che si strappavano i capelli; la processione sotto il palazzo del re e della regina che prima si inginocchiano e poi lanciano monete, provocando l’inferno tra i miserabili» ― dovette procurarle più di un ragionevole dubbio. Se Dio può tutto, perché non ferma il male, il dolore, la morte? E se non può è ancora Dio? Forse esisteva solo il Fato e avevano ragione i napoletani, che dai greci antichi discendevano, quando, di fronte alla sventura, al dolore, borbottavano rassegnati: «accossì adda ì, ben sapendo che nessuno, nulla modificano il corso delle cose. Ogni fenomeno deve per forza generarne un altro, che gli somiglia perché è figlio, ma è pure diversissimo. Così dopo la pioggia viene il sereno, dopo il brutto il bello. Se non ci fossero dolore, brutto, pioggia, come gusteresti il contrario? Tu aspetta e ciò che deve avvenire avverrà. Se agisci per cambiarlo o evitarlo, vuol dire che doveva andare in questa nuova direzione. Il destino non puoi mai farlo fesso».

Le ultime pagine del libro ci consegnano una donna stanca che ha visto fallire il sogno di una Repubblica delle lettere; ma dopotutto « come una Repubblica di Principesse e letterati possa piacere ai lazzari?». Nonostante tutto i due princìpi primordiali, Padre Dio e padre re, garantiscono un mondo ben ordinato che nemmeno Eleonora dalle pagine del Monitore, con i suoi articoli educativi, riuscì a modificare.
In direzione del patibolo, condannata a morte per impiccagione come rivoluzionaria, la folla intona un coro: «Fatte cchiù acca, fatte cchiu allà:/cavece ‘nfaccia a la libertà!». Tocca a lei. «Domani avranno già scordato quanto succede adesso: ora però si stanno divertendo, innocenti e crudeli come infanzia. Ma tutti siamo infanzia: questi qui, noi che moriamo, il re, la regina. Quante assurdità, meu Deus! Servirà, poi, ricordare queste cose?».

Cos’era, allora, il daimon di Eleonora de Fonseca? Dice Hillman che esso non può essere liquidato dalle spiegazioni di noi mortali ma «c’entra molto con i sentimenti di unicità, di grandezza, con l’inquietudine del cuore, con la sua impazienza, con la sua insoddisfazione, i suoi struggimenti. Ha bisogno della sua parte di bellezza. Vuole essere visto, ricevere testimonianza, riconoscimento, soprattutto dal suo padrone. È lento ad ancorarsi e svelto a volare. Non può dimenticare la sua propria vocazione divina, si sente esule sulla terra e partecipe dell’armonia del cosmo».
Servirà ricordare? Ciascuno nel silenzio della propria risposta trovi la sua destinazione.
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Articolo di Giovanna Nastasi

Giovanna Nastasi è nata a Carlentini, vive a Catania. Si è laureata in Pedagogia e Storia contemporanea e insegna Lettere negli istituti secondari di II grado. La sua passione è la scrittura. Ha pubblicato un romanzo, Le stanze del piacere (Algra editore).