«E tutte le donne hanno alla fine poco cervello: e come ne è una [che] sappi dire dua parole, e’ se ne predica, perché in terra di ciechi chi vi ha un occhio è signore»: così scriveva Niccolò Machiavelli nella commedia La mandragola. È ormai ben noto il fastidio che procuravano le donne istruite nel corso dei secoli e come ci si sia ingegnati in tanti modi per negare loro il diritto all’istruzione.
Gli uomini hanno sempre avvertito l’esigenza di relegare il genere femminile nel limbo dell’ignoranza: era necessario tarpare loro le ali e privarle sia della libertà di pensiero che di una possibile indipendenza economica.
Già Pitagora sentenziava: «C’è un principio buono che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, e un principio cattivo che ha creato il caos, le tenebre e la donna» e Marziale nei suoi Epigrammi ammoniva: «Tua moglie non sia troppo dotta».
Spulciando qua e là in vari testi del precedente millennio, saltano fuori tanti, ma proprio tanti, “autorevoli pensieri misogini” che la tentazione di raccoglierne alcuni in questo articolo è stata forte.
Procediamo cronologicamente iniziando con il genovese Leon Battista Alberti, una delle figure artistiche più poliedriche del Rinascimento, nato a Genova nel 1404. Nei suoi Libri della famiglia rammentava al perfetto pater familias di istruire la moglie solo nell’economia domestica e di tenerla lontana dai libri.
Il teologo Martin Lutero, nato nel 1483, dimostrò una “mentalità più aperta” auspicando che sia gli uomini che le donne potessero leggere la Sacra Scrittura ma…« l’uomo doveva saper esercitare la sua professione, la donna doveva dirigere la casa ed educare cristianamente i figli».
Circa quarant’anni dopo il filosofo e umanista spagnolo Jean Luis Vives nel suo saggio Institutio foeminae christianae, dedicato peraltro alla regina d’Inghilterra Caterina d’Aragona, scriveva con magnanimità che alle bambine dovevano essere impartiti i rudimenti dell’istruzione per imparare a leggere ma era fondamentale un’educazione domestica mirante al saper tessere e filare. Unica eccezione ammessa, vista la dedica, era ovviamente per le regine che potevano accedere al “sapere umanistico”, considerato il loro ruolo pubblico. Alla fine del Cinquecento, il poeta e teologo spagnolo Luis de Leon si sentì in dovere di puntualizzare meglio questo concetto.

In La Perfecta Casada spiega che le nobili potevano sì avere un’istruzione ma per tutti i ceti sociali era necessaria la dedizione “alla rocca e al fuso”: «…che trattino le regine e le duchesse il lino…». Era inevitabile rinchiudere le donne dentro le mura domestiche «poiché gli uomini sono per il pubblico, le donne per l’encerramento». Ed ancora: «la natura non fece la donna buona e onesta e adatta per lo studio delle scienze né per le questioni complicate, ma per la sola occupazione semplice e domestica, per questo la limitò nell’intendere».
E il concetto doveva continuamente essere esplicitato e ribadito tanto che quando in Italia, nel 1748, venne tradotto e pubblicato De l’education des filles dell’arcivescovo francese Francois de Salignac, gli italiani furono indottrinati ulteriormente su quali argomenti dovevano essere istruite le fanciulle: sulle faccende domestiche, sul comportamento per rendere felice un marito, sull’educazione dei figli nel rispetto dei principi religiosi, ricordando sempre loro di osservare «modestia e silenzio».
Il filosofo John Locke, fervido sostenitore dell’uguaglianza degli individui, nello stesso periodo scriveva che la donna doveva essere sottomessa al marito.
Nel Settecento in Italia gli uomini colti sostenevano che bisognava tenere sotto stretto controllo le donne che leggevano e soprattutto quelle che leggevano romanzi perché potevano identificarsi con il personaggio fittizio e quindi nutrire pericolose fantasie eversive. Giacomo Casanova così scriveva: «La frequente lettura di romanzi è la vera ragione della rovina di una gran quantità di ragazze».
Per il filosofo Kant «il troppo apprendere non si addiceva alla natura femminile che vi perdeva in attrattiva e bellezza». Nel suo pensiero uomini e donne erano uguali ma per le donne gli studi dovevano essere limitati perché la loro libertà si esercitava in seno alla famiglia, sviluppando principalmente grazia, modestia e gusto.
Anche il pedagogista Rousseau, spesso ospite nei salotti delle colte aristocratiche, sentì l’urgenza di precisare che l’istruzione e l’educazione delle bambine doveva essere necessariamente differente da quella dei bambini. Quindi per un uomo era preferibile scegliere di sposare una «ragazza semplice e grossolanamente educata e non una donzella saccente e di bello spirito» dato che una donna saccente «è il flagello del marito, dei figli, degli amici, dei domestici, di tutti». Affermava inoltre che «le ragazze che sanno di lettere resteranno zitelle per tutta la vita, quando sulla terra ci saranno uomini di buon senso».
Nonostante tanta avversione, finalmente, in Italia, nel 1874, le donne furono ammesse a frequentare alcuni corsi universitari. Come riporta Alessia Lirosi nel suo Libere di sapere tra il 1877 ed il 1900 vi furono 257 lauree femminili e si laurearono 224 donne dato che alcune conseguirono più di una laurea. La metà di queste lauree furono conseguite in tre Università: quelle di Torino, Padova e Pavia. Ma spesso le laureate restarono prive della possibilità di esercitare le professioni per le quali avevano diligentemente studiato, vittime di pregiudizi sessisti e della ferma opposizione di varie categorie professionali. Un esempio per tutte: Lydia Poet, la prima italiana a laurearsi in Giurisprudenza, si vide negata dalla Corte di Cassazione l’iscrizione all’Ordine degli avvocati con la seguente motivazione: «…l’impossibilità di conciliare la fragile natura femminile con una professione che avrebbe richiesto una forza fisica e morale del carattere maschile».
Così alcune furono libere di “sapere” ma quel diritto faticosamente acquisito restava confinato ai margini della società.
Viene spontaneo chiedersi: ma le donne reagirono alla dilagante e “autorevole” misoginia in questi quattro secoli?
Certamente. Reagirono con proteste scritte, con intelligenza ed ironia, con rabbia e determinazione ma la Storia ufficiale non ce lo racconta. Una Storia ancora oggi troppo concentrata su “uomini illustri” che riempiono capitoli di testi scolastici e strade delle città che attraversiamo ogni giorno.
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Articolo di Ester Rizzo

Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Ist. Sup. di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) nel corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo, Le Ricamatrici, Donne disobbedienti e Il labirinto delle perdute.