La senatrice Liliana Segre, in una delle sue testimonianze sull’inferno vissuto ad Auschwitz, ricordando quel terribile viaggio all’interno del vagone piombato diretto al campo nazista disse che: «… vedemmo per la prima volta scritto con il gesso sul vagone: Auschwitz bei Katowice. Capimmo che quella era la nostra meta. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo il nostro amore come un ultimo saluto».
E proprio questa fu la realtà condivisa dalla famiglia Sonnino di Genova decisa a restare unita ad ogni costo, i sei figli con i genitori, increduli e incapaci di comprendere fino in fondo ciò che stava accadendo intorno pur sperimentando sulla loro pelle l’emarginazione via via più totale, la perdita del lavoro, l’esclusione dalle scuole per i più piccoli e le fughe disperate in quel settembre del 1943. Quando i nazifascisti iniziarono la “caccia all’ebreo”, i Sonnino non osarono tentare la fuga in Svizzera come molti altri prima di loro e scelsero dapprima di rifugiarsi in un paesino sperduto della Val Trebbia poi, sempre in clandestinità e in preda ad un terrore crescente, in diversi appartamenti nella periferia di Genova, finché il cerchio si strinse e fu la fine. Furono arrestati e deportati in Germania.

La loro era stata una famiglia agiata: il padre Ettore rappresentante di commercio, i figli maggiori Paolo, Roberto e Maria Luisa impiegati, Piera, Bice e Giorgio in età scolare. Con la promulgazione delle leggi razziali nel 1938 il loro mondo andò in pezzi e iniziarono a conoscere la fame, l’emarginazione e a vivere nel terrore di essere denunciati e deportati, cosa che purtroppo avvenne il 12 ottobre 1944. Furono portati alla Casa dello Studente di Genova, allora sede del comando centrale nazifascista, dove un poliziotto spiegò che essere ebrei era colpa grave poiché la loro razza aveva «inchiodato Nostro Signore Gesù Cristo […]. In che guaio vi siete messi da allora…», come rievocherà nelle sue memorie Piera Sonnino (Portici, NA, 11.2.1922), unica superstite della famiglia.

Furono poi trasferiti nelle carceri di Marassi e gli uomini separati dalle donne.
Dopo un breve soggiorno in un campo a Bolzano, iniziò il viaggio sul treno diretto ad Auschwitz dove le Sonnino incontrarono Elena Recanati Foà che sarà, come Piera, tra le poche sopravvissute. Arrivarono a destinazione il 28 ottobre 1944. In una baracca del campo polacco la famiglia trascorrerà quella che sarà l’ultima notte insieme. Piera rimase con le sorelle Maria Luisa e Bice e dopo pochi giorni appresero dalla dottoressa Bianca Maria Morpurgo, anche lei detenuta, che i genitori con ogni probabilità erano «già stati gassati» ma che non bisognava rattristarsi poiché la morte avrebbe risparmiato loro l’agonia, le umiliazioni e le sofferenze della vita del campo.
Piera matricola A-26699, Maria Luisa matricola A-26698 e Bice matricola A-26700 dopo qualche giorno furono trasportate nel campo di Bergen-Belsen.
Giunsero già provate nel fisico per il freddo e la fame e furono subito obbligate a lavori pesantissimi in condizioni disumane, coperte di pochi stracci e con calzature di fortuna. Si aiutavano tra loro come potevano finché, una sera del gennaio 1945, una sorvegliante chiamò alcuni nomi tratti da un elenco, e, tra questi, la sorella Maria Luisa. Piera pensò si trattasse di svolgere un incarico straordinario, invece non la rivide mai più. Scoprirà con il tempo che i suoi resti erano stati gettati in una fossa comune.
Qualche giorno dopo la più piccola, Bice, non riuscì ad alzarsi dal pagliericcio e a nulla valsero le poche cure che le compagne erano in grado di offrire. Morì in breve tempo e il suo corpo fu lasciato fuori dalla baracca per diversi giorni, seppellito rapidamente dalla neve che stava cadendo.
Piera rimase sola, con la mente delirante che invocava quotidianamente la morte liberatoria e il fisico allo stremo, privata di ogni residuo di umanità e della capacità di registrare gli eventi che si susseguivano sempre più incalzanti.
Come ricorderà nelle sue memorie, quei campi erano popolati non più da esseri umani bensì da larve, larve che arrancavano per obbedire ai comandi dei sorveglianti, cercando di non sprofondare in quel fango orribile e vischioso definito «uno straordinario fango che mai avevamo veduto. Non pareva terra e acqua: ma qualcosa di organico andato in decomposizione, carne putrefatta, divenuta liquame».
Piera sopravvisse fino all’aprile 1945 quando avvenne l’ultimo trasferimento in treno verso quella che scoprirà in seguito essere la salvezza, perché lei e le sue compagne di viaggio al momento della partenza non ne erano consapevoli. Il treno ad ogni sosta scaricava i cadaveri di chi non ce l’aveva fatta e, quando le dissero che presto sarebbe arrivata all’ospedale, Piera iniziò ad urlare terrorizzata poiché nell’inferno dei lager chi era malato o malata non tornava mai più. Venne caricata a forza su un’ambulanza e portata in ospedale ad Amburgo dove un’infermiera cercò di tranquillizzarla, spiegandole che la guerra era finita e, una volta guarita, avrebbe potuto tornare a casa. Era il 9 maggio 1945. Trascorse alcuni mesi su un treno-ospedale che giunse il 21 settembre a Merano e, dopo vari trasferimenti che la condussero alla completa guarigione da severe forme di patologie bronco-polmonari, nel settembre 1950, a 28 anni, ritornò a Genova. Ma il ritorno a casa, che scoprì essere stata completamente saccheggiata, non fu felice soprattutto dopo aver avuto conferma, attraverso il Ministero dell’Assistenza postbellica, dello sterminio dell’intera sua famiglia. Fortunatamente ritrovò una zia e una cugina grazie alle quali lentamente, faticosamente, riprese a vivere.
Sposò Antonio Gaetano Parodi, giornalista dell’Unità, ed ebbe due figlie che ricevettero i nomi delle sorelle scomparse, Bice e Maria Luisa.

Nel 1960 ebbe la forza di mettere per iscritto la sua testimonianza sull’inferno vissuto nei campi nazisti, testimonianza che rimase chiusa in un cassetto per quarantadue anni. Nel maggio 2002, tre anni dopo la morte di Piera (avvenuta a Reggio Emilia l’11.5.1999), la figlia Maria Luisa inviò il manoscritto alla redazione del settimanale Diario che aveva inaugurato una sezione chiamata La memoria lunga allo scopo di tramandare nel tempo e alle giovani generazioni testimonianze ed esperienze vissute nel passato da genitori e nonni.
Il testo fu pubblicato integralmente e divenne poi un libro, edito da Il Saggatore, intitolato Questo è stato. Una famiglia italiana nei lager, tradotto anche in Francia, Stati Uniti e Olanda.
Alla memoria di Piera è stata dedicata a Genova una scalinata in Via Casoni, nel quartiere San Fruttuoso, nel 2018; una pietra d’inciampo è stata posta in ricordo della famiglia Sonnino.
In copertina. Intitolazione a Genova, foto di Marina Sonnino.
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Articolo di Marina Antonelli

Laureata in Lettere, appassionata di ricerca storica, satira politica e tematiche di genere ma anche letteratura e questioni linguistiche e sociali, da anni si dedica al volontariato a favore di persone in difficoltà ed è profondamente convinta dell’utilità dell’associarsi per sostenere i propri ideali e cercare, per quanto possibile, di trasformarli in realtà. È autrice del volume Satira politica e Risorgimento. I giornali italiani 1848-1849.