Il mese di marzo lo dedichiamo al ricordo di una pioniera dell’architettura, combattiva e rivoluzionaria, impegnata politicamente e socialmente, Lina Bo Bardi.
«Quello che volevo era avere storia!» e l’ha avuta questa straordinaria architetta che lascia l’Italia per andare ad “avere storia” in Brasile. Uno dei primi cervelli di talento italiano in fuga, che ha dovuto lottare per essere accettata tra gli architetti brasiliani locali, perché oltre che donna era anche straniera.
Nata come Achillina Bo a Roma il 5 dicembre 1914, sin da giovanissima mostra una passione per l’arte. Decide di iscriversi alla facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma contro il parere del padre e si laurea a venticinque anni con una tesi sul tema della casa per madri nubili; a Milano collabora con Giò Ponti, apre uno studio con l’architetto Carlo Pagani, poi nel 1942, ad appena ventotto anni, ne apre uno proprio. Ma sono tempi di guerra e la mancanza di lavoro la porta a dedicarsi all’attività editoriale per giornali e riviste come Stile, Grazia, Tempo.
Nel 1943 un bombardamento aereo distrugge il suo studio; l’infausto evento la convince ad un profondo coinvolgimento col Partito Comunista Italiano e con la Resistenza.
Dal 1944 al 1945 è vicedirettora della rivista Domus con Carlo Pagani, col quale fonda anche “Quaderni di Domus”. Con Pagani e Zevi dà vita alla rivista “A-Cultura della vita”, la cui pubblicazione viene interrotta dopo il n. 8, in seguito ad un articolo sul controllo delle nascite.

Nel dopoguerra documenta la distruzione che aveva colpito l’Italia attraverso un reportage per il quotidiano Milano Sera, e partecipa al Congresso nazionale per la Ricostruzione: Milano è stata ripetutamente bombardata, è una città in rovina, ma la parte più vivace della cultura milanese preparò con determinazione la sua rinascita. Si fecero convegni, si elaborarono proposte per rilanciare l’esperienza del razionalismo, interrotta dalla guerra.
«Fu allora, quando le bombe demolivano senza pietà l’opera e il lavoro dell’uomo, che capimmo che la casa deve essere per la vita dell’uomo, deve servire, deve consolare e non mostrare, in un’esibizione teatrale, le vanità inutili dello spirito umano … Per un architetto, la cosa più importante non è costruire bene, ma sapere come vive la maggior parte della gente, impadronirsi di come fare il fornello, come funziona il gabinetto, come fare il bagno».
Nel 1946 torna a Roma e sposa il critico d’arte e giornalista Pietro Maria Bardi. Nello stesso anno, insieme al marito, invitato a dirigere il Museo d’Arte di San Paolo, si trasferisce in Brasile, che diventerà la sua seconda patria. Qui trova quella libertà di espressione creativa che non era riuscita ad ottenere in una patria devastata dal secondo conflitto mondiale. Nel 1950 fonda e dirige con il marito la rivista Habitat e nel 1951 ottiene la cittadinanza brasiliana. Nello stesso anno costruisce a San Paolo la sua prima opera, la Casa de Vidro, sua residenza e ora sede della fondazione a lei dedicata, dove, in forte anticipo sui tempi, indaga il rapporto tra natura e architettura.


La casa, costruita nella foresta pluviale che circonda San Paolo, è stato il suo primo tentativo di contestualizzare il modernismo italiano, in cui si era formata, nel tessuto del Brasile, trovare un linguaggio brasiliano in modo che fosse moderno e celebrasse contemporaneamente l’ambiente locale.
La zona-giorno della casa poggia su colonne pilotis, che permettono al paesaggio di scorrere sotto l’edificio, dando la sensazione di una struttura in bilico, circondata dalla natura, che attraverso alcuni alberi del giardino, penetra addirittura in un cortile, nel cuore della casa. Grandi pannelli di vetro, da cui il nome “Casa di vetro”, rendono la maggior parte della casa quasi completamente aperta. L’altra metà, con le camere da letto, la zona destinata alla servitù e la cucina, poggia su un terreno solido.
Tra il 1955 e il 1957 insegna Teoria dell’architettura presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica dell’Università di San Paolo. Scrive allora il suo Contributo propedeutico all’insegnamento della teoria dell’architettura. Bocciata al concorso a cattedra, si sposta a Salvador da Bahia, antica capitale afro del Brasile, dove dal 1958 tiene corsi sulla Teoria e Filosofia dell’Architettura, e mette in piedi un programma di mostre e iniziative insieme ad altri illustri architetti.
Il governatore di Bahia le affida il compito di restaurare l’antico zuccherificio Solar du Unhão, che prende nome da un giudice dell’alta corte brasiliana del XVII secolo, Pedro Unhão, per adibirlo a sede del nuovo Mamb, Museo di Arte Moderna di Bahia.

La sua azione è sempre indirizzata a valorizzare la cultura brasiliana e le sue radici, pertanto conserva l’edificio del 1600, ma al tempo stesso lo aggiorna con un design moderno: lascia intatto l’esterno coloniale e aggiunge la scala moderna. Vuole farne un luogo di formazione, non un mausoleo del passato, un luogo attivo di conoscenza.
Negli stessi anni lavora al Museo di Arte Popolare, facendone un museo dell’artigianato.
Dopo cinque anni, la dittatura che nel frattempo prende il potere, la destituisce dalla direzione del Mamb, e Lina, nel 1963, torna a San Paolo, dove si impegna nel suo progetto museale più importante, il Masp, Museo d’Arte di San Paolo, di cui il marito fu il curatore per quarantacinque anni, il più importante museo dell’America Latina.

Il Museo nasce dall’incontro di Pietro Maria Bardi e Assis Chateaubriand, proprietario di giornali, radio e televisioni (Gruppo Diarios Associatos), e al loro desiderio di creare in Brasile una collezione d’arte che potesse competere con quelle delle maggiori città europee e americane. La prima sede del Museo furono alcune sale dell’edificio dei Diarios Associatos.
Gli spazi furono appositamente ristrutturati, ma con l’incremento della collezione si rivelarono insufficienti. Il Comune mise a disposizione allora un terreno sull’Avenida Paulista, e venne indetto un concorso per la realizzazione di un nuovo spazio museale. Lina, che aveva curato già la ristrutturazione della sede precedente, risultò vincitrice. L’edificio si compone di due parti.
La prima si sviluppa in superficie. È caratterizzata da quattro colonne di cemento collegate da due travi che corrono per tutta la lunghezza dell’edificio, reggendo e sollevando da terra il corpo dell’edificio, un grosso parallelepipedo chiuso da grandi vetrate. L’interno è disposto su due piani e ospita il museo vero e proprio. La seconda parte è sotterranea e si sviluppa sotto il livello della piazza. In essa trovano posto una grande sala, due auditori e i servizi. Tra i due corpi del museo si trova un grande spiazzo coperto, l’Esplanada che porta il nome della progettista. Nel 1990 i pilastri sono stati pitturati di rosso, una soluzione non prevista nel progetto originario.

Il museo è concepito non soltanto come contenitore di opere d’arte, ma come un luogo fatto per la gente, dotato di spazi aperti che favoriscono l’incontro, ed è improntato a uno spiccato carattere divulgativo e didattico.
Intanto si dedica interamente al lavoro, non avendo figli, e predilige il progetto di edifici pubblici, il più impegnativo dei quali è il recupero della fabbrica Pompéia, vecchia industria di bidoni di ferro a ovest di San Paolo, che viene trasformata in una piccola cittadella del tempo libero, completata in più fasi tra il 1977 e il 1986. Sesc-Pompéia è un gigantesco centro sociale, ricreativo, culturale e sportivo.

Promotore dell’intervento fu il Sesc, Serviço Social do Comércio, un ente no-profit brasiliano che si prefiggeva di garantire strutture sportive e attività culturali per gli abitanti meno abbienti del paese. Agli edifici esistenti, Lina accosta delle torri in cemento armato, collegate da passerelle scoperte. La torre più alta, contiene il serbatoio dell’acqua per l’intero complesso. Il centro ha diverse attività: un teatro di ottocento posti, un ristorante, una birreria, una biblioteca, laboratori per attività artistiche, campi di basket e zone adibite ad altri sport di gruppo, palestre, sale da ballo e una piscina. L’edificio è tra le venticinque opere più significative dell’architettura del dopoguerra, secondo un’indagine del New York Times.
Sempre a San Paolo Il Teatro Oficina, che nasce da un edificio per uffici andato in rovina per un incendio, sovverte le gerarchie spaziali del teatro borghese: non esistono più confini tra gli attori, che si muovono in una sorta di lungo corridoio centrale, e il pubblico a cui è destinata una struttura di ponteggio che lo sovrasta. Lo scopo è quello di far sentire lo spettatore come se fosse impegnato con gli attori sul palcoscenico. Nel 2015 The Guardian ha definito il Teatro Oficina come miglior teatro del mondo.

Alla fine della dittatura del governo militare, nel 1985, Lina tra il 1986 e il 1989 torna a lavorare a Salvador de Bahia, dove cura il recupero del centro storico, e collabora alla realizzazione della Casa do Benin, un centro culturale sulle radici africane del Brasile, che nel nome ricorda la Repubblica del Benin, da dove proveniva la maggior parte degli schiavi arrivati a Bahia. Il centro ospita gallerie, laboratori didattici, un ristorante e appartamenti.

Il Teatro Gregório de Mattos presenta una proposta ambientale innovativa; ha due piani, al piano terra si trova la Galleria che può ospitare mostre, interventi artistici e installazioni. Una scala scultorea collega il piano terra al piano superiore, dove lo spazio è multiplo, adatto ad ospitare spettacoli innovativi e ha una capienza di 300 persone.

Durante i suoi ultimi dieci anni di vita Lina lavora al rinnovamento dell’architettura brasiliana, Nel 1990 inizia il progetto per la nuova sede del Municipio di San Paolo che terminerà due anni dopo. Tra il 1990 e il 1992 lavora alla Stazione di polizia di San Paolo, e nel 1991 al Centro culturale Vera Cruz, di San Bernardo do Campo, San Paolo, una riconversione dei padiglioni dismessi di ex studi cinematografici.

Nel 1991, un anno prima della sua morte, partecipa alla progettazione del padiglione del Brasile per l’Esposizione Universale di Siviglia del 1992 con il progetto la Grande Cassa. Si tratta di un solido sollevato da terra, completamente chiuso, con aria condizionata e illuminazione artificiale, attrezzato per esposizioni, con bar, auditorium e teatro.
Lina muore il 20 marzo del 1992 a San Paolo.
Durante la sua vita ha prodotto più di seimila disegni, la maggior parte dei quali sono conservati negli archivi della Casa de Vidro. Sono disegni di mobili e gioielli, mobili economici in legno pressato o plastica, mobili con struttura in metallo con sedili e schienali imbottiti. Tra i suoi oggetti più noti si annovera la Bowl Chair, progettata nel 1951, una sedia a scodella imbottita su una struttura in metallo.

Disegni successivi, come la sua Cadeira Beira de Estrada (Roadside Chair) del 1967, in legno e corda, si basano su modelli antichi e materiali locali.

Quella di Lina Bo Bardi è stata un’architettura dell’impegno civile, contro ogni moda fine a sé stessa. Un’architettura dell’uomo per l’uomo, moderna e antica allo stesso tempo, popolare e colta, artigianale e non industriale, rispettosa delle tradizioni ma anche innovativa, razionale e poetica.
Nel 2013 il British Council, in collaborazione con l’Istituto Lina Bo Bardi, ha creato una borsa di studio in suo onore per gli architetti del Regno Unito disposti a lavorare in Brasile.
Il 5 dicembre 2014 un doodle di Google ha commemorato il suo centesimo compleanno.

L’8 marzo 2021 la Biennale di Venezia le ha conferito un Leone d’Oro speciale alla Memoria.

Milano le ha intitolato una piazza nella nuova zona delle Varesine, ai piedi della Torre Diamante.
In copertina: Lina Bo Bardi fotografata nella sua casa.
***
Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.