All’alba della Prima guerra mondiale nella maggior parte dei Paesi europei le donne sono ancora prive del diritto di voto: non possono perciò influenzare le decisioni politiche, anche se nella vita reale le più attive fra loro assumono chiare posizioni sul conflitto. A Milano Linda Malnati e Carlotta Clerici fondano nel 1914 il “Comitato pro umanità” per sostenere la neutralità italiana. Oltre alle neutraliste si formano gruppi di interventiste, di orientamenti diversi ma tutte convinte che la guerra possa essere un’occasione di emancipazione. Al fronte, nonostante l’impegno profuso, gli unici compiti in cui la donna è tollerata rimangono quelli tradizionali dell’infermiera e della dama di carità, che incarnano il ruolo tipicamente ancillare di angelo consolatore, custode e assistente dell’uomo impegnato in grandi imprese. Alcune coraggiose che si travestono da soldato per raggiungere la prima linea vengono prontamente identificate e rimandate a casa. Nella vita civile, come concessione del tutto eccezionale, le donne sono autorizzate alla propaganda militare: raccolgono offerte per i regali da inviare ai soldati oppure, per indurre all’arruolamento, decorano con una piuma bianca, simbolo di codardia, chi non veste la divisa; organizzano balli, lotterie e pesche di beneficenza; per cento lire “vendono” un “bacio patriottico” ai valorosi in partenza.

Il periodo della guerra rappresenta comunque per le donne una fase cruciale verso l’indipendenza: per utilizzarle come manodopera è necessario accordare loro maggiore libertà che, se non sempre è accettata, deve essere almeno tollerata. Nelle fabbriche metalmeccaniche la presenza femminile è avvertita, specialmente dai vecchi operai, come un sovvertimento dell’ordine naturale e un attentato alla moralità.
Alla loro presenza si reagisce con una pungente ironia: Ugo Ojetti, già corrispondente di guerra del Corriere della Sera, così si esprime nel 1917: «La fiumana di donne penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini: campi, fabbriche… Talune, è vero, assomigliano ai bambini, specie quando ancora non ne hanno di propri: si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, s’impuntano, scioperano, minacciano, strillano. Ma le più, insomma, lavorano e sono preziose, e s’ha bisogno di loro… La donna è prima di tutto un essere pratico il cui lavoro sociale è utilissimo». Le donne diventano tranviere, ferroviere, portalettere, impiegate di banca e dell’amministrazione pubblica, operaie nell’industria bellica, l’attività più importante. Qui, nelle fabbriche di munizioni, sono a costante rischio di incidenti: il materiale maneggiato è pericoloso e lavorato senza alcuna protezione, i turni massacranti sono distribuiti su 24 ore, viene revocato il riposo domenicale.

Anche e soprattutto nell’universo femminile delle nuove lavoratrici il cammino verso una maggiore libertà e l’affermazione di nuovi costumi proseguono inarrestabili, a dispetto della maggiore severità delle leggi e del tentativo di imporre abitudini austere, conformi alla gravità del momento. Il consumo di alcolici e sigarette, la presenza concreta di donne nei locali di divertimento la sera mettono in discussione il privilegio maschile rispetto alle attività di svago. Il nuovo ruolo sociale delle donne lavoratrici diventa visibile nei cambiamenti proposti dalla moda: sono abolite le gonne lunghe e strette e compare il tailleur, che permette una maggiore libertà di movimento e si avvicina alla moda maschile. In nome del rigore della guerra i colori sgargianti vengono sostituiti da tonalità più spente e anche le pettinature diventano più semplici, con capelli tirati indietro o tagli corti. Una tendenza inarrestabile, perché anche dopo la guerra le donne non vorranno più rinunciare alla comodità in nome dell’eleganza.
L’attività letteraria femminile non si ferma: sulle riviste divampa la polemica fra interventiste e pacifiste. Anna Franchi definisce l’attività bellica «terrorizzante grandiosità del dovere dagli uomini compìto», mentre i racconti della trasgressiva poeta e scrittrice Ada Guglielminetti, dal titolo Le ore inutili (1919), sottolineano la consapevolezza dell’inconcludenza del conflitto attraverso l’ironia o la rappresentazione degli uomini come feriti o reduci. Donna Paola invece, in La donna della nuova Italia, sostiene che «la guerra, in pochi mesi, ha messo in luce, nella donna italiana, un’anima nuova, la sua anima vera». Benché la maternità rimanga la dimensione identitaria dominante, la guerra induce a dubbi e riflessioni: la rivista Difesa delle lavoratrici invita a dissuadere i figli dall’arruolamento; per contro, pubblicazioni come Unità d’Italia e La madre italiana esprimono la speranza di una rigenerazione attraverso la guerra, che mobilita la «stirpe» contro il nemico di razza e consente l’espansione dei confini.
Indicando l’esempio della «madre spartana» che spinge il figlio verso «un ideale alto e severo, per il quale nessun sacrificio è eccessivo» si sostiene il modello della donna che «antepone al valore relativo della vita del figlio quello assoluto e trascendente della patria in armi e della stirpe». La stessa figura femminile è ribadita nella rivista La madre italiana. Rivista mensile per orfani di guerra, fondata da Stefania Türr nel maggio 1916, dove l’autrice, inviata al fronte, fornisce un elenco dettagliato degli orrori austro-tedeschi, esalta il valore dei soldati italiani e plaude al sacrificio delle infermiere, coraggiosamente morte nell’esercizio della professione. Oltre a Türr sono pochissime le donne ammesse al fronte come corrispondenti: Flavia Steno, grazie alla sua conoscenza del tedesco, viene inviata a Berlino dal Secolo XIX di Genova; per ottenere maggiore credibilità, invia i propri resoconti firmandoli con lo pseudonimo maschile di Mario Valeri. Ester Danesi Traversari è invece corrispondente del Messaggero di Roma, mentre Barbara Allason e Annie Vivanti sono sul fronte del Carso per la rivista La donna. Carla Cadorna, figlia del generale Luigi, pubblica le sue memorie alla fine del conflitto in La guerra nelle retrovie.

La Grande Guerra lascia come conseguenza non solo l’insoddisfazione per la “vittoria mutilata” dalla mancata conquista di tutti i territori rivendicati, ma anche, visti gli sviluppi della Rivoluzione russa, l’idea di un possibile rovesciamento di gerarchie. La critica dell’autorità sfocia in aspre lotte sociali, contenute dallo Stato sia attraverso le leggi che con azioni repressive: il Biennio Rosso (1919-1920) in Italia centro-settentrionale è caratterizzato da mobilitazioni contadine e manifestazioni operaie di varia durata.
La morte di milioni di uomini sul campo di battaglia provoca un calo generale della natalità, cui fanno seguito ovunque in Europa politiche di incremento demografico. Il cambiamento delle relazioni fra i generi, anche rispetto alla procreazione, è evidenziato nelle ricerche di Livio Livi, noto docente di statistica che, riportando i dati dei tassi di natalità di diversi ceti sociali, mostra come, già dall’inizio del Novecento, pure l’Italia sia stata influenzata dal «neomalthusianesimo di stampo francese»: le coppie esercitano un controllo delle nascite che impedisce l’atteso baby boom, previsto nell’immediato dopoguerra in seguito all’accumulo dei matrimoni rinviati. Un profondo cambiamento, che mette in discussione le relazioni tra generi, ceti sociali e classi di età è comunque in atto anche nei modelli di comportamento. Superata l’emergenza bellica, la difficoltà di riconvertire i posti di lavoro porta al licenziamento di molte donne, che si erano abituate, pur nella difficoltà, alla loro autonomia. Come sempre il messaggio è contraddittorio e opportunistico: dopo averne lodato l’operosità in fabbrica durante la guerra, adesso si pretende che le lavoratrici rientrino nell’ambito familiare e che riassumano i loro ruoli procreativi e materni.
Tuttavia, le donne non si rassegnano all’inattività; per continuare a uscire e conservare una certa autonomia economica, ripiegano su mestieri di assistenza, propaganda, distribuzione di cibo ai poveri, corsi di cucito; per non parlare di chi deve far fronte all’indigenza e si adatta, in città, a servizi nelle abitazioni private, mentre in campagna abbondano le braccianti a giornata e le mondine che, a seconda della stagione, si trasferiscono nelle zone di coltivazione del riso. Un’altra contraddizione palese proviene dal mondo della moda, che propone nuovi modelli: da una parte le donne sono invitate a evidenziare la propria femminilità, anche scoprendo parti del corpo che prima della guerra erano tabù, come ad esempio le gambe, e a migliorare l’aspetto truccandosi; dall’altra, caratteristiche sessuali tradizionalmente messe in evidenza, come i capelli lunghi o il seno prosperoso, perdono la loro importanza. Fa la sua comparsa la garçonne francese.

Alle riviste che già esistevano si aggiungono nuove proposte: tra queste il mensile Lidel (il cui nome è l’acrostico di Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganza, più l’iniziale della direttrice Lydia Dosio De Liguoro), che si rivolge a donne dai molteplici interessi, cui proporre un modello femminile cosmopolita, segnalare notizie mondane e attualità culturali, grazie anche a una fitta rete di collaboratori e collaboratrici illustri, fra i quali Massimo Bontempelli, Guido da Verona, Grazia Deledda, Ada Negri, Luigi Pirandello, Matilde Serao e Federigo Tozzi, nonché Carlo Carrà come critico d’arte. La carta patinata, il costo elevato, l’accurata scelta di immagini e la pubblicità di prodotti esclusivi confermano l’orientamento verso un pubblico d’élite. Riprende infine la lotta per il suffragio, ottenuto in tanti altri Paesi europei. Il 6 settembre del 1919 la Camera approva la legge sul voto alle donne che però non può essere approvata in Senato a causa dello scioglimento delle Camere; l’anno seguente l’approvazione viene invece bloccata dalle elezioni.
Secondo l’acuta analisi della presidente del Comitato Pro Suffragio, Regina Terruzzi, «la legge non è stata votata per paura dell’incognita che l’ingresso della donna nella vita politica rappresenta per tutti i partiti. […]. Nella mentalità dei dirigenti politici, il suffragio femminile deve essere un servizio calcolato e ben sicuro». La proposta successiva, presentata nel 1922, è composta da un unico articolo: «Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne». Poiché non pare una priorità, essa non viene discussa ed è poi definitivamente bloccata dalla marcia su Roma di ottobre. Nel maggio 1923, Mussolini, nuovo Presidente del Consiglio, si pronuncia a favore del suffragio femminile.
In novembre la legge Acerbo (ironicamente chiamata del “voto alle signore”) concede il voto a una ristretta categoria di donne: alle decorate, alle madri di caduti, a coloro che esercitano la patria potestà, che hanno conseguito il diploma elementare, che sanno leggere e scrivere e pagano tasse comunali pari ad almeno 40 lire annue. Le aventi diritto sarebbero circa 1.700.000, su 9 milioni di uomini; tuttavia, subito dopo l’approvazione della legge quelle stesse elezioni amministrative, cui sono state ammesse le donne, vengono abolite e il Sindaco sostituito dal Podestà, di nomina diretta del governo centrale. L’argomento del voto femminile è così definitivamente archiviato: soltanto dopo più di vent’anni e un’altra guerra mondiale potrà essere di nuovo affrontato.
In copertina: le donne italiane durante il periodo della guerra.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.
Salve, aggiungerei la cinquantina di donne laureate in medicina e farmacia arruolate nella Croce rossa e in parte transitate nella Sanità Militare, che hanno servito negli ospedali di ogni livello con gradi, stellette e stipendio
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Oltre alle migliaia di infermiere volontarie e suore infermiere impegnate nella cura dei feriti e dei malati.
Ma forse hai volutamente lasciato a parte tutto il settore sanitario.
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