Se dici “l’altra” sarò pure metà, ma con la metafora implicitamente affermi che lo sguardo sia il tuo.
Nel Sessantotto e – con molta più forza – nel femminismo c’era la buona abitudine di chiedere alle persone da che luogo parlassero. Nel frattempo don Milani segnalava che il soggetto del discorso è il soggetto del potere.
Non vorrei che la consapevolezza e l’abitudine si fossero perse.
Pensare che gli uomini possano parlare per tutti e per tutte e definire il mondo e i rapporti, mentre le donne prendano parola solo per le donne è l’ennesimo equivoco, imposto dal patriarcato, che sta alla base di molte contraddizioni ed è palese perfino nella politica, in quei partiti che magari prevedono responsabili femminili ma non hanno mai concepito responsabili maschili.
Ancor oggi la maggioranza delle persone – anche buona parte della comunità accademica dall’alto di una presunta neutralità scientifica – non si sente chiamata in causa da quella che chiamiamo “educazione di genere”: concede ma non partecipa. Anche quando non ne ha paura ritiene che siano discorsi che riguardano una quota marginale di donne occupate a rivendicare eccentrici diritti.
Come hanno notato gli autori dei men’s studies, delle donne si parla “in quanto donne” (questione femminile, condizione femminile, specifico femminile); degli uomini “in quanto uomini” non si parla mai. La “storia di genere” sarebbe storia delle donne: come se gli uomini non avessero un genere. Il Leviatano ha sembianze maschili, ce l’ha la raffigurazione di Dio. Maschile è il logos. L’hanno ribadito per secoli la famiglia, la scuola, la Chiesa, lo Stato.
La definizione di androcentrismo a partire dalle tradizioni religiose, data dall’antropologa Rita Gross nel 1977, è illuminante: «Nel pensiero androcentrico norma maschile e norma umana vengono a coincidere e diventano identiche. Il maschio è la misura dell’uomo.
Poiché maschile e umano si identificano, viene dato per scontato che le donne siano assorbite nel pensiero maschile, nel senso di genere; lo stesso discorso vale per la lingua e la ricerca.
Nel momento in cui le donne – dopo che è diventato evidente che in ogni società esiste una forma di differenziazione dei ruoli dei sessi – vengono prese in considerazione in quanto tali, esse sono guardate come oggetti contrapposti all’umanità, […] che devono essere spiegati e inseriti nella propria concezione del mondo con lo stesso status ontologico ed epistemologico degli alberi, degli unicorni, delle divinità o di qualsiasi altro oggetto che dev’essere discusso per rendere intelligibile l’esperienza. Sono lì nel mondo, ma vengono discussi come ‘altro’ rispetto al soggetto umano che cerca di capire il suo mondo […]. Mentre i maschi vengono presentati come soggetti religiosi, le donne compaiono solo in quanto rapportate ai maschi, che costituiscono il vero oggetto della ricerca».
Fino ai primi anni Ottanta si parlava di “studi delle donne”, women studies: sono stati una base di partenza ma non potevano esaurire un discorso più ampio. Gli studi di genere (gender studies), multidisciplinari e ormai riconosciuti dalla comunità scientifica, allargando lo sguardo hanno consentito di indagare su aspetti inesplorati e sul persistere anche nelle società più aperte di stereotipi e pregiudizi spesso inavvertiti.
Esiste la “letteratura rosa”, collocata in appositi scaffali; in libreria non trovo tracce di una letteratura azzurra.
Vi faceva cenno già nel XVII secolo Marie de Gournay, discepola di Montaigne: «Mentre la maggior parte delle donne ha interesse a leggere quello che scrivono i maschi, la maggior parte degli uomini non ha interesse a leggere quello che scrivono le donne».
È una forma di torsione che percorre ogni aspetto della vita delle comunità e ha percorso il canone fondativo del contratto sociale e di ogni disciplina, dal diritto alla grammatica all’arte alla medicina; abitua a trasformare in gerarchia ogni alterità, a pensare “io” come soggetto strutturante e sovrano.
Suvvia, è così difficile dire e pensare la pluralità?
Il suffragio è “universale” anche quando e dove le donne non possono votare? Una donna a capo di un ministero è un “ministro’”? Sui corpi maschili si esercita lo stesso controllo che sui corpi femminili? Domande che ormai si pongono molte ragazze, che attraversano perfino le istituzioni, ma che sarebbero state impensabili all’epoca della mia giovinezza.
Dal punto di vista maschile prevalente però pare ancora che solo le donne – ossia la metà dell’umanità » rappresentino una parzialità. Il maschile è la forma base dell’essere umano, si presenta a nome di tutti/e, parla a nome di tutti/e, incorpora ogni vivente, si autoproclama universale, generico o sovraesteso; oppure inclusivo, bontà sua. Il femminile (in quanto debole seppur gentile) è solo una variante diminuita di essere umano, un’appendice, un completamento o un contenitore. La cosiddetta complementarietà è un inganno, una presa in giro: «Nell’unione dei sessi ciascuno concorre egualmente allo scopo comune, ma non alla stessa maniera. Da ciò deriva la prima diversità determinabile nell’ambito dei rapporti morali dell’uno e dell’altro. L’uno dev’essere attivo e forte, l’altro passivo e debole; è necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altro offra poca resistenza» (Jean Jacques Rousseau, Sofia, o la donna, 1762).
Quanto incide ancora la memoria di questi tratti sui modelli di relazione e di organizzazione sociale che pratichiamo?
Accade – a monte – nella costruzione del sapere e nella sua trasmissione: nonostante la nostra scuola sia ormai completamente femminilizzata molta didattica riafferma un principio unico, accetta passivamente le gerarchie e subisce perfino le cancellazioni. Il patriarcato appare “naturale”: così ovvio, scontato e inevitabile da non dover essere mai nemmeno nominato nei testi scolastici.
Non c’è bisogno di essere maschi per agire con questo filtro. Se la subalternità all’ordine simbolico è interiorizzata, dalla madre e dall’insegnante viene da lei trasmessa alle figlie e alle allieve, riproducendo il gioco di aspettative legate alla differenza e influenzando i processi di apprendimento e quelli di formazione dell’identità femminile.
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Articolo di Graziella Priulla

Già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.