2022: una Biennale al femminile

Ho visitato recentemente la 59ima Esposizione Internazionale d’arte di Venezia, più conosciuta come Biennale, aperta quest’anno con un anno di ritardo, per il protrarsi della pandemia di Covid 19, evento che sin dal 1895 si era verificato soltanto durante i due conflitti mondiali, e sono rimasta piacevolmente sorpresa dal constatare una massiccia presenza di artiste.
Aperta dal 23 aprile al 27 novembre, quest’anno la direzione è stata affidata a Cecilia Alemani, 45 anni, prima curatrice italiana della Biennale Arte, che a causa della pandemia ha potuto selezionare le opere solo attraverso lo schermo del computer, visitando virtualmente per quasi due anni centinaia di atelier in tutto il mondo. Cecilia vive a New York, e commissiona opere d’arte per il parco urbano High Line, un parco sopraelevato lungo una ferrovia dismessa, dove le opere rimangono esposte al massimo per dodici mesi e i visitatori possono vederle passeggiando. Per questa 59ima edizione ha scelto 191 artiste e 22 artisti provenienti da 58 nazioni; sono 26 le artiste italiane, e 180 le prime partecipazioni alla Biennale.
Negli oltre 127 anni di storia dell’Esposizione non era mai capitato che la maggioranza fosse femminile: l’80% è costituito da donne e persone non binarie, molte le nere o appartenenti a minoranze, o apolidi (quasi nessuna artista vive dove è nata); e la loro riscoperta è sigillata soprattutto nelle piccole mostre, le  “capsule del tempo”, dedicate alle artiste delle avanguardie del ‘900, che non erano mai riuscite a salire sul palcoscenico della storia, spesso rimaste nell’ombra, escluse dai manuali di storia dell’arte, sebbene altrettanto talentuose  rispetto ai colleghi maschi: Remedios Varo, Leonor Fini, Dorothea Tanning, Carla Accardi, Sonia Delaunay, Niki De Saint Phalle, Dadamaino, Maria Sibylla Merian, Meret Oppenheim, Grazia Varisco, Paula Rego, Regina Cassolo, Valentine de Saint-Point, Nan Goldin, Georgiana Houghton, Barbara Kruger, Louise Nevelson, Carol Rama, Eileen Agar, Claude Cahun, per citarne solo alcune più note, ma anche giovanissime come Chiara Enzo, Alexandra Pirici, Jadé Fadojutimi, Ambra Castagnetti, Shuang Li, Kudzanai-Violet-Hwami. L’intento è stato quello di restituire una narrazione equa della storia culturale e colmare quei vuoti in cui sono state relegate le artiste.

Manifesto della Biennale 2022, Milk of dreams

La mostra si articola tra i Giardini e le Corderie dell’Arsenale e il titolo dell’attuale edizione è Il latte dei Sogni, tratto da un libricino di fiabe di Leonora Carrington, in cui l’artista surrealista tratteggia per i suoi figli personaggi fantastici, talvolta inquietanti, che vivono in un mondo magico nel quale è concesso trasformarsi. Il latte è il nutrimento che proviene dal corpo femminile, dove avviene la prima metamorfosi dell’uomo. Tre le aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, la relazione tra gli individui e le tecnologie, i legami tra i corpi e la Terra. Alemani ha voluto narrare il ruolo dell’umano sulla terra, porre una riflessione sul post umano, sulle responsabilità dell’uomo in un universo non più antropocentrico. Miti e leggende, mondi onirici, fantastici, si intrecciano alla realtà, tra passato, presente e futuro.

Sulla facciata del Padiglione Centrale ai Giardini troviamo What if they bark 01-07, squali e pesci di plastica che brandiscono tavole da surf, chitarre elettriche, ukulele, missili imbottiti con un tessuto a quadretti. Sono opere di Cosima von Bonin, artista nata a Mombasa in Kenia nel 1962 e attiva sulla scena artistica di Colonia. Molte delle sue installazioni sono popolate da sagome di tessuto raffiguranti pesci, balene, funghi, cani, le cui tenere sembianze evocano meraviglia e orrore, umorismo e dolore.

What if they bark 01-07, Cosima von Bonin

Vincitrice del Leone d’oro per la migliore partecipazione con il padiglione USA ai Giardini è Simone Leigh, afroamericana, classe 1967, prima donna nera a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale: l’edificio neoclassico originale è stato trasformato in modo radicale, reso irriconoscibile da colonne di legno e dal tetto completamente coperto di paglia. L’intervento si ispira all’Esposizione Coloniale tenutasi a Parigi nel 1931, in cui venivano presentati edifici che pur replicando quelli dei Paesi colonizzati li adattavano al gusto occidentale, distorcendoli. 

Sovereignty (Sovranità), il titolo della mostra esposta nel padiglione,fa riferimento ai concetti di autogoverno e indipendenza individuale e collettiva: “sovranità” è la non soggezione all’autorità, è la libertà di farsi la propria storia. Ci accoglie la grande scultura bronzea Satellite: con le gambe tramutate in colonne, l’opera alta ben 8 metri, fa riferimento al D’mba (detto anche nimba), maschera a spalla a forma di busto femminile creata dalle popolazioni Baga della costa della Guinea e usata durante le cerimonie rituali per comunicare con gli antenati. Al posto della testa ha un satellite proprio per questa sua funzione di comunicazione e guida.

Padiglione USA e Satellite, Simone Leigh

Nella prima sala del padiglione una scultura in bronzo che raffigura una lavandaia al lavoro, Last Garment (L’ultimo indumento) si riflette in una grande vasca. La scultura è ispirata alla fotografia di fine ‘800 “Mammy’s Last Garment” (“L’ultimo indumento di Mammy”), scattata nella Giamaica colonizzata per indurre i turisti anglofoni a visitare l’isola, proponendo l’idea di una popolazione semplice, onesta, pulita e lavoratrice.

Last Garment (L’ultimo indumento), Simone Leigh

Sentinel (Sentinella) si erge al centro della rotonda del padiglione: la scultura unisce una forma femminile allungata a un oggetto tradizionalmente utilizzato nei rituali di fertilità, presentando il corpo femminile come strumento o luogo di duro lavoro. Il titolo dell’opera indica l’atto di vigilare e assegna alla figura il ruolo di presenza vigile all’interno della mostra.

Nella penultima sala del padiglione Sharifa è il primo ritratto mai eseguito da Leigh. Questo bronzo colossale, realizzato dal vero nelle sembianze della scrittrice Sharifa Rhodes-Pitts, è alto il doppio della modella. Appoggiata al muro, con le mani sulle cosce e lo sguardo rivolto verso il basso, Sharifa mostra un corpo a riposo, che evoca una forma architettonica, e il piede che sporge dalla gonna ricorda la tradizione della statuaria egiziana.

Altra opera di Simone Leigh è all’Arsenale, che si apre proprio con una sua scultura, Brick House (Casa di mattoni), un gigantesco bronzo di una donna africana senza occhi, la cui gonna ricorda ancora una volta una casa. In origine collocato sulla High Line nel 2019, il monumentale busto in bronzo appartiene a un gruppo di sculture che fonde corpi e riferimenti architettonici.

Sentinel, Simone Leigh
Sharifa, Simone Leigh
Brick House, Simone Leigh

Leoni d’oro alla carriera sono andati a Katharina Fritsch e a Cecilia Vicuňa.

Il lavoro di Katharina Fritsch, tedesca, classe 1956, si distingue per opere figurative al contempo iperrealistiche e fantastiche, copie di oggetti, animali e persone rese nei minimi dettagli, miniaturizzate o ingigantite, e avvolte in campiture di colori stranianti. Elephant (1987), la scultura che apre la mostra ai Giardini nel padiglione centrale, nella sontuosa sala Chini, tra specchi e affreschi ottocenteschi, rappresenta, in maniera minuziosa e surreale, un elefante, anzi un’elefantessa, dall’epidermide verde scuro. Realizzata in poliestere dal calco di un elefante impagliato, riproduce con sorprendente esattezza ogni piega e ruga del corpo dell’animale, mentre le dimensioni e il colore generano un effetto sovrannaturale, che rimanda a una natura in via di sparizione e a un mondo sempre più artificiale e sintetico.

Elephant, Katharina Fritsch

Cecilia Vicuňa, cilena, classe 1948, ha lasciato il suo paese dopo il golpe di Pinochet e si è trasferita a New York. Impegnata nella lotta per i diritti delle popolazioni indigene dell’America latina e del Cile, col suo lavoro di traduzione di poesie sudamericane ha preservato opere che altrimenti sarebbero andate perdute. Alla Biennale sono esposti alcuni suoi dipinti e un’opera del 2022 intitolata NAUfraga, un assemblaggio di frammenti di corda e oggetti raccolti a Venezia, ispirato alla precarietà dell’ecosistema della laguna veneziana. Il titolo, derivato dal latino navis e frangere, evoca il tragico sfruttamento della terra, che sta lentamente facendo affondare Venezia.

NAUfraga, Cecilia Vicuňa

Mi piace ricordare ora alcune opere che mi hanno particolarmente colpita, non potendo menzionare tutte quelle che vorrei.

L’installazione di Rebecca Horn, tedesca, classe 1944, Kiss of the Rhinoceros (Bacio di Rinoceronti) del 1989, presenta due bracci meccanici percorsi da un scarica elettrica che fanno avvicinare e allontanare due corna di rinoceronte, imitando il movimento in due tempi del funzionamento del corpo umano, il respiro, il battito cardiaco. Le opere dell’artista alternano protesi per il corpo a sculture cinetiche e film in cui spesso figurano le sue sculture mobili.

Kiss of the Rhinoceros, Rebecca Horn

Ruth Asawa, americana, 1926/2013, inizia a praticare arte durante la detenzione imposta dal governo statunitense a migliaia di persone di origine giapponese. Inizia a costruire sculture sospese, trasformando materiali industriali, come ottone, acciaio, rame, in forme sinuose e aggraziate. Untitled, del 1952, realizzata con filo di ferro, ispirata a una tecnica di intreccio di ceste appresa in Messico, consiste in una serie di bozzoli che alludono a forme naturali quali onde, alberi.

Untitled, Ruth Asawa
Womb Models, Aletta Jacobs

Aletta Jacobs, olandese, 1854/1929, è stata la prima donna ammessa in un’università olandese e per molto tempo l’unica a esercitare la professione medica nei Paesi Bassi; tra le maggiori rappresentanti internazionali del movimento femminista, si è battuta in campagne di sensibilizzazione anticoncezionale. Nel 1897 ha pubblicato un libro in cui, coadiuvato da tavole illustrate disegnate dalla stessa Jacobs, descrive dettagliatamente il corpo femminile e in particolare il suo sistema riproduttivo. In mostra sono esposti alcuni modelli di utero in cartapesta, Womb Models, 1840, che descrivono diversi stadi di gravidanza.

E ora un’artista haitiana, Myrlande Constant, classe 1968, che ha innovato la tradizione artistica della bandiera vudù, il drapo Vodou: le sue bandiere, di grande formato, fondono la cultura contemporanea con la storia haitiana e la religione vudù. Ricamate a mano con l’aggiunta di lustrini e perline, presentano composizioni affollate immerse in atmosfere magiche, versioni alternative dei miti della religione haitiana che riguardano il cibo, l’unità e la solidarietà. La bandiera Rasanbleman soupe tout eskòt yo ha richiesto quattro mesi per essere completata e l’aiuto dei cinque figli dell’artista.

Rasanbleman soupe tout eskot yo, Myrlande Constant

E come non ricordare Earthly Paradise della colombiana Delcy Morelos, classe 1967? Questa grande installazione, del 2022, fatta di masse di terreno tra cui si cammina, profumano di terra, fieno, polvere di cacao, chiodi di garofano e cannella. Ci ricorda che noi stessi siamo esseri terreni, d’altronde la parola “umano” deriva dal latino “humus”.

Earthly Paradise, Delcy Morelos

I dipinti della paesaggista Jessie Homer French, nata a New York nel 1940, evocano una natura incontaminata e offrono una riflessione sul precario ruolo che l’umanità esercita al suo interno, suggerendo immagini di degrado e disastro, come in Oil Platform Fire (2019).

Oil Platform Fire, Jessie Homer French

Ancora metamorfosi in Sonhiferas della brasiliana Solange Pessoa, classe 1961. Gli intensi disegni in bianco e nero raffigurano sinuose creature e insetti durante la loro trasformazione.

Sonhiferas, Solange Pessoa

Impressionanti le maschere gigantesche di tre metri di altezza, cucite a mano con ritagli di tessuto, di pelliccia e di pelle, di Tau Lewis, canadese di origine, classe 1993, volti monumentali che stabiliscono una discendenza simbolica con oggetti mitici.

Angelus Mortem, Tau Lewis

Al centro delle opere di Rosana Paulino, artista brasiliana, nata a San Paulo nel 1967, ci sono le lacrime delle donne di colore in Brasile che impregnano la terra dando vita ad alberi che, come nel mito di Dafne e Apollo, servono a proteggerle.

Senhora das plantas, Rosana Paulino

Il gran finale all’Arsenale è costituto dal Giardino tropicale con figure apotropaiche To See the Earth Before the End of the World, opera di Precious Okoyomon, nata a Londra nel 1993, trasferitasi poi negli Usa. Nell’opera, il cui titolo è tratto da una poesia di Ed Roberson, le sculture sono disposte sullo sfondo di un campo di piante selvatiche, in cui kudzu e canne da zucchero si intrecciano a fiumi e diventano metafora di schiavitù, ma anche simbolo di nuova vita.

To See the Earth Before the End of the World, Precious Okoyomon

All’esterno delle Corderie c’è forse la più lunga installazione aerea su tubi della Biennale: è dell’italiana Giulia Cenci, che, nata a Cortona nel 1988, vive ad Amsterdam. Dead dance (2021-2022) è un percorso che si estende per centocinquanta metri, popolato di frammenti di corpi umani e animali, ottenuti dalla fusione di rottami di macchine.

Dead dance, Giulia Cenci

***

Articolo di Livia Capasso

foto livia

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.

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