Il rapporto con l’ambiente naturale ha un valore fortemente simbolico e riflette il percorso interiore di Luisa Bruschetti Santandrea. La narrazione si apre in un parco di Christiania con la descrizione di «tre primavere», che delimitano distanze non solo temporali ma anche spaziali: quella fra il Paese d’origine, l’Italia, che la viaggiatrice ha lasciato ad aprile per trovare l’inverno in Olanda; all’arrivo di una seconda primavera in quel luogo, l’autrice riparte verso un nuovo inverno, quello del giugno scandinavo, il «tragico squallore […] di prati arsi e bruciacchiati» dal gelo. Qui, nella prospettiva di una natura sinistra che ritornerà spesso durante il percorso, si sta faticosamente risvegliando un’ultima primavera.
La prima prospettiva sul paesaggio norvegese mostra un villaggio del Telemark, inquadrato dalla finestra della camera dove Luisa è ospite. Non si tratta tanto di uno sguardo, quanto piuttosto di un invito all’ascolto del silenzio che avvolge ogni cosa: «Non il lontano abbaiar d’un cane, non il perdersi di qualche richiamo, non il canto di un gallo. […] Solitudine infinita d’un mondo vergine che pareva uscito allor allor dalla creazione divina […] e su tutto un fiato freddo, sempre più largo, sempre più vicino, ma senza vento, come se una gola gigante si spalancasse, e invece d’alito ne uscisse gelo. L’anima mia si sentì presa a poco a poco da un vago sgomento». Impegnata nel suo percorso di ricerca interiore, l’autrice tratteggia prima l’immagine di una solitudine inquietante per inserirvi, subito dopo, un velocissimo time-lapse premonitore, che sintetizza un immaginario percorso dall’Equatore al Polo: risalendo dai «palmizi, poi i pini ad ombrello, poi gli ulivi e la vite, poi il frumento e i castagni poi la regione degli ontani e dei pioppi, e poi più su quella dei frassini e dei faggi, e più su ancora quella degli abeti e delle betulle; ed ora ecco il limitare delle tundre e delle lande, cui seguirebbero la roccia e il ghiaccio, lassù […] nell’assoluto silenzio artico. Poi… era il capo del mondo, era il punto fermo […] Il Nord. Ecco il mostro sempre in agguato: il gelo, l’assenza della vita».
Santandrea si muove attraverso ambienti climatici diversi, per immaginare infine il deserto che l’attende al vertice del mondo, nelle sembianze di una non-entità mostruosa. Tuttavia, nel paragrafo successivo la narrazione propone un contrasto sorprendente: la Scandinavia si trasforma in una terra vitale, ricca di vegetazione e di acque, di «migliaia di laghi, foreste inesauribili, fonti generose, torrenti […] cascate che sembran precipitare da un paradiso a un inferno, Scandinavia, dove tutto è straordinario, dove anche la tristezza è meravigliosa».
Alcuni arditi, prosegue l’autrice mantenendo il tono lirico, hanno osato sfidare questa terra, lottare per conquistarla, sopportandone la «penetrante malinconia» e simulando la felicità con l’aiuto dell’immaginazione: «la miracolosa fantasia veste la tragica solitudine dell’abete con tutti i colori dell’arcobaleno, lo orna di fiori, di doni, di lumi […] unisce la vecchiaia e la povertà in uno zoccolante vegliardo […]», afferma, attribuendo alla Norvegia le tradizioni dell’albero natalizio e di santa Claus. Questo inizio turbolento, che riflette negli aspetti contrastanti della destinazione l’inquietudine latente della protagonista, prepara chi legge alla descrizione di un viaggio definito come un «pellegrinaggio» e percepito come «lo sviluppo più largo e più complesso d’un tema iniziale già tracciato dalla mia immaginazione». Si allude dunque a una tensione precedente, mai dichiarata apertamente, che il paesaggio provvede gradualmente ad amplificare «nell’animo di chi lo contempla», imponendo a «tutti i nostri sentimenti» una «compostezza che non par terrena».
Questa «natura gigante» spoglia la mente di ogni ricordo e attira l’anima «altrove», mettendola in comunicazione con «le più remote profondità» dell’essere, con «il senso dei primitivi». Così, spinta dalla potenza della natura stessa, l’autrice può comunicare impressioni profonde e abbandonare «la grazia, la reticenza», perché è Dio stesso che adesso le parla, come ha parlato agli abitanti di queste terre. La prospettiva mistica è resa più acutamente dolorosa dalla solitudine «meravigliosa e terribile», di «epica grandezza e di felicità perfetta»; il viaggio, presentato all’inizio come un pellegrinaggio, diventa così un «sacrificio» che «consuma a poco a poco, come sopra un altare».
Un altro elemento contribuisce a esasperare questo stato d’animo: la nostalgia, tipica di chi affronta un viaggio, per le persone care lasciate in patria; Santandrea rivede nella memoria i sorrisi, gli sguardi, «le parole dette e quelle non dette», in una escalation che la porta a baciare nel ricordo, con «la bocca arida, gli occhi brucianti» non solo i propri cari lontani, ma anche i morti, fino a ricordare il bacio rituale, «di venerdì santo [alle] redentrici piaghe di Cristo». Queste le caratteristiche di un itinerario in cui la percezione mistica del paesaggio non abbandona mai la scrittrice e si esaspera in alcune occasioni, a sottolineare le diverse fasi di sviluppo della crisi spirituale che la accompagna.
Emblematico a questo proposito è l’episodio nel bosco di Holmenkollen, dove si perde, partendo da una baita «di legno marrone […] intagliato, solenne, odoroso come un mobile di sacrestia […] somigliante al tipo di isba russa» per ritrovarsi in «una selva sterminata». Una semplice passeggiata si trasforma in un’avventura drammatica e chi legge è guidato attraverso un percorso che riecheggia l’Inferno dantesco: «Il sole è alto, ma dentro la selva pare sempre imbrunire. Oso entrare sotto la volta opaca, affondando nella neve rotta qua là da viluppi di radici contorte e viscide come serpenti […] spettacolo che ha del sinistro e dell’incantato, e mi ricorda […] Gustavo Doré. […] Una diffusa luce verdognola. La selva immobile ha la gravità di una cattedrale. Tendo l’orecchio […] Giro guardinga […] un effluvio speciale, come di mandorle amare, solca l’aria improvvisamente […] Ritta così, pari al tronco, mi sembra d’essere divenuta un elemento vivo della foresta, un tutto fuso con essa». Santandrea non si limita a entrare nel bosco, ma “osa”, “affonda”, procede “guardinga”, sente un “effluvio” forse velenoso; finché, in una metamorfosi opprimente, si sente “fusa” con la natura.
Quindi la natura stessa prende vita: «[…] nel respiro della foresta risento, morbide e ispirate, le tre note del corno di Odino, e scorgo il fantasma di un alto cavallo bianco […] La selva si anima. Uno gnomo, e un altro, e un altro, fan capolino, ammiccando dal solo occhio che sporgono. Infine escono intieri dai loro nascondigli, con mille smorfie e sgambetti, e si danno la mano saltellando sui piedi puntuti; poi, scuotendo le barbe più grandi di loro, inarcando le sopracciglia di sotto i cappucci rossi come creste di gallo, danzano in girotondo, panciuti e nani, intorno a un paterno albero gigantesco. Dalle regioni aeree cade una pigna: tutto scompare».
A questo punto l’autrice ha perso l’orientamento e si sente «chiusa dentro come in una gabbia» nella «selva inesorabile»; il «desiderio folle di uscire […] da quella solitudine, mi fa perder la calma». Dopo diversi tentativi infruttuosi solo per caso raggiunge la strada e scopre che lo châlet è sempre stato vicinissimo: al suo rientro trova «la stufa, i panini, il burro, il latte, la marmellata, e un paio di babbucce asciutte: che bel paese la Scandinavia!». Per quanto drammatico sia stato il percorso, l’avventura non può che avere un esito felice, poiché «soltanto in tale paese è possibile, nel raggio di trecento metri, passare dall’isolamento assoluto dell’epoca quaternaria, ai fasti del the completo».

Il discorso narrativo si concentra nuovamente sugli elementi naturali a Odda, il rinomato centro turistico dove villeggianti agiati di diverse nazionalità trascorrono rilassanti vacanze, mentre Santandrea vi colloca la sua catarsi e la sua rinascita spirituale.
L’arrivo è preceduto da una lenta risalita lungo l’Hardanger Fjord, che ricorda il percorso di Marlow lungo i meandri equatoriali del fiume Congo nel conradiano Cuore di tenebra. Anche qui si tratta di una interminabile navigazione: «Occorrono venticinque ore di piroscafo per percorrere il solo fiordo di Hardanger. E trenta ne sono necessarie per percorrere quello di Sogn», lungo sponde ostili dove la terra è «sconvolta, tormentata, lugubre, brulla» come «dopo una serie di ciclopici cataclismi. […] il fiord ― anche dove è più spazioso ― non è mai né lieto, né invitante […] è sempre severo e solitario […] intimidisce sempre per un non so che di ostile […] lo si accosta con un vago sgomento, come persuasi, navigandolo, di violare qualche suo terribile segreto». Tuttavia, la natura «bellissima, e pur sterile», spaventosa e ostile «può attirare irresistibilmente, ma soltanto certe anime. Io l’adoro», afferma l’autrice, dimostrando la sua ambigua attrazione per il fiordo misterioso e perturbante: «Per capire il fiord bisogna venirci da soli, come avete fatto voi; a costo di farne una malattia», afferma il capitano. In uno stato di angoscia che pretende la solitudine, nell’ultimo tratto di navigazione viene interrogata la natura stessa: «Capire il fiord, significava farsi grandi con lui […] significava accettarlo […] amore, anche per la pietra che non dà pane e non nutre fiore […] Come vicino all’approdo, in quel mondo vergine e nascosto, tutto mi si spiegava! Le cose della vita mi apparivano così lontane […] e la mia culla vera io la trovavo qui, soltanto qui, dove facevo ritorno a qualche cosa che mi apparteneva».
Nel cuore della wilderness, nel punto più lontano dalla normalità della sua vita, soggiogata dal fascino sublime di questa Natura indifferente, se non addirittura ostile e così somigliante alla protagonista del Dialogo leopardiano con l’Islandese, Santandrea si sente ritornare alla sua essenza autentica. Da qui inizia il suo (ri)crearsi, (ri)conoscendosi in un percorso meditativo solitario che terminerà con la comprensione del proprio ruolo nella vita. Per affrontare questo imprescindibile passaggio è però necessaria un’operazione drastica: dopo aver già escluso qualsiasi contatto con altri esseri umani, affrontando un viaggio impegnativo in completa solitudine, deve eliminare anche qualsiasi rapporto con la natura e rimanere confinata nella sua stanza d’albergo: «non sentii più l’impazienza di godere delle superbe passeggiate, così vergini e così invitanti, che circondano Odda», afferma.
La separazione dalla natura è indispensabile per avventurarsi in un viaggio più complesso, quello interiore, che la porterà a risolvere il problema che più la tormenta, quello della propria identità e del proprio ruolo nel mondo. Solo allora potrà ripartire verso «il sole che non tramonta», simbolo della sua anima liberata dall’incertezza.
Sarà così che, nel «labirinto» dei fiordi del Finnmark, potrà finalmente apprezzare la natura: «le tinte delle erbe e dei fiori. […] le campanule della cipolla selvatica erano d’un candore pari a quello miracoloso della gola d’un gabbiano, e i fiori nel trifoglio parevano spille di rubini […] le finissime trine delle felci spiccavano qua e là in ciuffi eleganti, e l’erica insinuava dappertutto le sue rosette carnicine». Anche lei potrà entusiasmarsi davanti al sole di mezzanotte: «Ed ora a noi, o affascinante sole giallo e vermiglio della deserta Lapponia! […] somigliante a un braciere. […] I colori del tramonto e dell’alba si fondevano sui due immensi versanti della volta celeste, illuminandola tanto riccamente dalle parti opposte, da far pensare a due Soli».
Nell’eterno giorno del nord la natura è più che mai lietamente affaccendata e l’animo della scrittrice definitivamente rasserenato: «Oramai, per quasi tutta la notte, i passeri trillavano e le api ronzavano nei calici dei fiori; le gazze, nell’inganno dell’ora, andavano preparando gli ultimi nidi, e le farfalline delle ortiche svolazzavano continuamente».
In copertina: vista sulla città di Odda.
***
Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.