L’Ottocento, fedele al principio della famiglia patriarcale, propone e legittima un’immagine statica e privata della donna, sentimentale, fragile e intimista, una donna moglie e madre esemplare, tutta casa e chiesa.

È proprio l’Ottocento romantico a creare il cliché della donna angelo, custode e nume tutelare del focolare, una donna che consuma la sua vita all’interno delle pareti domestiche, una specie di suora laica che fa della casa il suo chiostro e il suo monastero, una donna centro e motore del nucleo familiare, una creatura posta sotto l’egida del marito che ha bisogno di protezione perché è il sesso debole per antonomasia, e anche un essere moralmente irreprensibile, circondata da un’aureola di purezza, una donna, in definitiva, prigioniera e chiusa in una gabbia, come dimostra esteriormente anche la sovrastruttura di indumenti che è costretta a indossare.


La donna deve accettare il marito scelto dai genitori. Non è libera di leggere i libri che vuole come i romanzi d’amore molto in voga a quel tempo, ma solo libri di devozione o di carattere pedagogico. Alle donne non è concesso iscriversi all’università. Si ritiene addirittura che per una donna studiare sia contro natura e che lo studio potrebbe farla impazzire. In un’epoca in cui l’analfabetismo è diffusissimo, in Francia Elisa Lemonnier, preoccupata per l’eccessiva ignoranza delle ragazze, fonda tuttavia la prima scuola professionale nella quale possano imparare almeno le nozioni basilari, leggere, scrivere e far di conto.
La donna non è libera di lavorare, il marito deve essere il solo “a guadagnare il pane”. Molte ragazze, specialmente nobili e borghesi, si fanno monache, alcune di loro fondano nuovi ordini religiosi, mirati specialmente a istruire il loro sesso.

La donna nel XIX secolo vive in una condizione di inferiorità giuridica, economica e politica, una condizione di subordinazione rispetto all’uomo, a lei spetta solo gestire la casa e crescere i figli. La donna è sottomessa in tutto e per tutto al marito, dipende completamente dal suo uomo-padrone ed è socialmente emarginata. Non può amministrare il suo patrimonio, nemmeno la dote che porta quando si sposa. A volte il marito le dà una paghetta giusto per le spese di abbigliamento. Vietatissimo possedere soldi in proprio perché questo ridurrebbe inevitabilmente la subordinazione all’autorità maritale.


Tale condizione di inferiorità sociale, culturale ed economica è destinata a durare fino ai primi decenni del Novecento e rende tutta in salita la lunga strada per l’emancipazione. Le figlie, com’è risaputo, devono parlare col “voi” ai genitori e mantenere nei loro riguardi il più assoluto rispetto. Padre e madre devono essere severi e rigorosi e imporre la loro disciplina alle figliole, le quali hanno una limitata libertà sia di pensiero che di azione. Le donne possono uscire di casa, sì, ma la loro destinazione principale è la chiesa oppure la pubblica fontana, dove ci si reca per attingere acqua, o altri posti legati comunque alle faccende da sbrigare in casa.
L’Europa protestante (vedi Inghilterra e Germania) ci presenta un’immagine di donna dinamica, radicalmente diversa e opposta rispetto al modello dell’Europa cattolica: una donna attiva e socialmente impegnata, che si muove, opera e agisce al di fuori della ristretta cerchia delle mura domestiche, una donna che vive una vita pubblica. Le prime donne ad agire pubblicamente sono le mogli dei pastori: assistono le persone deboli e bisognose, i poveri e gli ammalati, insegnano ai bambini e alle donne adulte. Nascono così le prime professioni tipicamente “femminili” come l’insegnante e l’infermiera. Seguendo il loro esempio, ben presto altre donne maritate escono dalle proprie case, accompagnate dalle figlie o dalle serve: visitano persone malate, portano loro viveri, indumenti e medicine, le assistono, le curano e promuovono un’intensa attività di beneficenza. Nell’Europa cattolica solamente negli ultimi decenni del secolo le donne, soprattutto nobili, cominciano a uscire dalle mura domestiche per dedicarsi a opere benefiche.


La donna del popolo lavora accanto all’uomo in campagna e lo aiuta nei lavori agricoli. Ma le donne non disdegnano lavori pesanti e faticosi, come si vede in un celebre dipinto di Nino Costa, spiegato dal pittore stesso: «Dopo una nottata piovosa, alla mattina, mentre si apriva il cielo, vidi delle donne che avevano sulla testa strani fardelli che poi conobbi essere radiche di alberi delle quali caricavano una barca. Ne ebbi una grande impressione e cominciai il quadro che fu compiuto nel 1852».
Le cose vanno diversamente con la rivoluzione industriale, che ha per culla l’Inghilterra. Nelle città nascono le prime industrie, in particolare tessili. Le donne in massa lasciano le campagne e affollano le fabbriche. Nasce, così, la figura della donna operaia che la mattina lascia la propria abitazione per recarsi al posto di lavoro. Nel contempo, si pone per la prima volta nella storia il problema come conciliare il lavoro extradomestico con il ruolo di moglie e di madre. Ma fin dall’inizio le donne sono vittime di una forte discriminazione: fanno lo stesso lavoro degli uomini ma devono faticare per più ore e vengono pagate molto meno degli uomini.
Alle donne non spetta nessun congedo per gravidanza, anzi devono riprendere il lavoro subito dopo aver partorito se non vogliono perdere il posto. Molte operaie si portano figli e figlie appena nate legati sulle spalle o in culle improvvisate; spesso neonate/i e bambine/i piccolissimi muoiono a causa degli incidenti frequenti nelle fabbriche dove lavorano le loro mamme. Di qui il grande problema della parità di diritti che è alla base dei primi movimenti femministi, tenuto conto che alla fine del secolo le donne sono ancora escluse dal diritto di voto in quasi tutto il mondo, fatta eccezione per Australia, Nuova Zelanda e alcuni Stati americani.
Il femminismo affonda le sue radici nella progressiva presa di coscienza da parte delle donne della propria condizione insieme alle rivendicazioni finalizzate a una maggiore dignità e autonomia. Ma la questione femminista è tutt’altra storia, e rappresenta una tematica così ampia e complessa che richiederebbe una trattazione analitica a parte. Qui basti sapere che le donne vorrebbero scrollarsi di dosso il grembiule che ne fa delle buone, perfette massaie, ma purtroppo non è ancora possibile. Durante tutto il XIX secolo e ancora all’alba del Novecento una donna se non sa cucinare non è nessuno; perciò le fanciulle imparano da subito a preparare le pietanze, ma soprattutto a pulire accuratamente i cibi, perché la salute dipende anche dall’igiene. Sanno scegliere gli alimenti più sani e genuini, che non necessariamente sono anche i più ghiotti e succulenti.
Il saper “fare cucina” è un’arte femminile confermata dalle molte tradizioni popolari: nella Calabria dell’epoca la donna non può sposarsi se non è capace di cucinare la pasta in almeno quindici modi diversi. Le ragazze da marito imparano a fare da mangiare seguendo alla lettera i ricettari scritti, mentre gli uomini in cucina lavorano molto più di fantasia.
Il luogo della casa in cui donne, madri e mogli passano molta parte della giornata è, appunto, la cucina, un piccolo regno dove la donna è l’assoluta padrona. Qui si preparano i pasti che alimenteranno la famiglia ogni giorno; ecco perché la massaia pulisce a dovere ogni superficie ponendo la più accurata attenzione a non trascurare nulla. Prima di tutto non vi mette piede se non è pulita e con un grembiule fresco di bucato. La donna riversa la massima cura su stoviglie, piatti, pentole e casseruole, e pulisce accuratamente anche l’arredo della cucina.

Nel corso del secolo circolano molti periodici italiani come il Giornale delle donne, una rivista bimestrale pubblicata dal 1872, in cui, fra i tanti argomenti, compaiono articoli dedicati alle “notizie di igiene”: vi si raccomanda, ad esempio, di lavare accuratamente la frutta e la verdura per liberarla dai microbi. Le regole della cucina sono dettate da una nuova scienza, l’economia domestica, grazie alla quale la donna impara a governare e gestire se stessa e la propria casa. Ci sono donne tutt’altro che casa e chiesa, e sono le protagoniste del Risorgimento. Questo glorioso periodo storico ci viene presentato da sempre come opera esclusiva di uomini: Mazzini, Garibaldi, Cavour, ecc.
Al contrario c’è un Risorgimento al femminile, tutt’altro che minore, completamente ignorato da tutti i manuali di storia.
Il Risorgimento ha le sue donne, le “sorelle d’Italia”, le “madri della patria”, patriote, eroine invisibili e sconosciute dell’unità della penisola. Protagoniste del Risorgimento sono da una parte le donne del popolo, che scendono in strada e combattono apertamente fianco a fianco con gli uomini, e dall’altra le intellettuali, le salottiere, chiamate “giardiniere” perché adibiscono gli spazi verdi delle loro nobili dimore a luoghi di riunione.

Durante le Cinque giornate di Milano dal 23 al 28 marzo 1848, le popolane a centinaia scendono in piazza contro gli Austriaci del Maresciallo Radetzky. Una di esse, Luisa Battistotti Sassi, ventiquattrenne, vestita da uomo, alza una barricata e raccoglie un centinaio di uomini che, dopo un duro combattimento, hanno la meglio sugli odiati Austriaci.
Gesta di valore compiono le donne per difendere la Repubblica Romana, nata quando papa Pio IX è costretto a fuggire da Roma: ha vita brevissima, solo sei mesi come quella Napoletana, dal 9 febbraio al 4 luglio 1849. Colomba Antonietta Porzi si taglia i capelli, indossa la divisa di bersagliere, combatte accanto al marito contro i Francesi accorsi in aiuto del papa, ma a Porta San Pancrazio, colpita in pieno petto da una palla di cannone, muore tra le braccia del marito mormorando “Viva l’Italia”. Non ha ancora 23 anni. In difesa della Repubblica Romana si batte l’eroina più famosa del Risorgimento italiano, la leggendaria amazzone che difende i diritti dei popoli alla libertà e all’indipendenza, la brasiliana Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, ovvero Anita Garibaldi, l’inseparabile compagna dell’eroe dei due mondi che conosce nel 1839, destinata a diventare la madre dei suoi quattro figli e la compagna inseparabile di tutte le sue battaglie, unica donna tra tanti uomini. Cavalca fin da piccola, e quando scoppia la rivolta degli straccioni imbraccia il fucile e combatte con i ribelli contro le truppe imperiali brasiliane. Poi la troviamo con Garibaldi in Italia, e quando il 4 luglio la Repubblica Romana cade, lei, il marito e i fedelissimi garibaldini marciano verso Venezia che ancora resiste agli Austriaci. Poi Anita, provata dai combattimenti, malata di malaria e indebolita dalla quinta gravidanza, esala l’ultimo respiro tra le braccia del marito nella laguna di Mandriole, tra sabbie e canneti, il 4 agosto 1849, prossima a compiere i 28 anni.

C’è qualche donna “camicia rossa” tra i Mille di Garibaldi, ma i libri di storia non lo dicono. Antonia Masanello si arruola con un nome maschile, Antonio Marinello (il cognome del marito), si veste da uomo, raggiunge i garibaldini in Sicilia dopo la loro trionfale partenza da Quarto. Si batte eroicamente e nessuno si accorge che è donna. Lo scopre Garibaldi quando nella furia di uno scontro le si sciolgono i capelli. Morirà di tisi nel 1862 a soli 29 anni, forse proprio per gli stenti sofferti durante i combattimenti. Tra le file dei garibaldini milita la moglie di Francesco Crispi, Rose Montmasson, detta Rosalia (che si traveste da militare per imbarcarsi sul piroscafo Piemonte, mentre il marito le ha caldamente raccomandato di starsene buona e tranquilla a Quarto), infaticabile nella cura dei feriti tanto che nella battaglia di Calatafimi imbraccia personalmente il fucile pur di portare in salvo i soldati colpiti e dare loro le cure del caso.
Garibaldi menziona altresì una certa Marzia, romana (mai pienamente identificata) e la palermitana Lia. L’anglo-italiana Jessie White-Mario, mazziniana di ferro, che lo stesso Mazzini definisce “la Giovanna d’Arco della causa italiana”, in qualità di infermiera assiste e cura i feriti. Durante la battaglia del Volturno del 1° ottobre 1860 salva la vita a due soldati, è in prima linea nella terza guerra d’indipendenza e, sempre al fianco di Garibaldi, sul campo di battaglia di Monterotondo e di Mentana nel 1867. Segue il suo condottiero perfino nella guerra franco-prussiana, nel 1870, quando partecipa alla battaglia di Digione.
Nel 1861 l’Italia è fatta, ma bisogna togliere Roma al papa. I patrioti e le patriote si riuniscono nella casa di Giuditta Tavani Arquati a Trastevere. Un brutto giorno, però, il 25 ottobre 1865, gli zuavi pontifici fanno irruzione nella casa, e compiono una strage: Giuditta, che ha 37 anni ed è incinta del quarto figlio, è massacrata dopo aver visto morire sotto i suoi occhi il marito e un figlio di dodici anni.

Le cosiddette giardiniere sono le patriote, che ospitano chi anela alla liberazione della patria nei loro giardini e successivamente nei loro elegantissimi salotti. Lì, nel chiuso e al riparo da sguardi indiscreti, si organizzano rivolte e piani di liberazione. Il salotto dell’amabile e raffinata contessa Clara Maffei è il più frequentato di Milano: vi si ritrovano patriote/i, letterate/i, artiste/i, tra cui Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi, il pittore Francesco Hayez. Anche la bella e mondana principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, sorvegliata speciale della occhiuta polizia austriaca, che entra presto in contatto con la Carboneria, trascorre molti anni in Francia, e apre a Parigi uno dei più frequentati salotti del tempo dove si ritrovano Bellini e Liszt, Musset, Balzac e Heine, tutti affascinati dalla grazia e raffinatezza della nobildonna. Tornata in Italia, viene raggiunta a Napoli dalla notizia del popolo di Milano insorto contro gli Austriaci. Parte immediatamente per il Nord insieme a un gruppo di duecento napoletani ai quali paga il viaggio. L’anno dopo è a Roma a difendere la Repubblica Romana, si dà da fare per organizzare ospedali nei punti nevralgici della città per dare pronta assistenza ai feriti nei combattimenti.

Chiusa la parentesi delle donne d’eccezione, combattive e battagliere, e tornando alla normalità di una famiglia borghese, va sottolineato che l’Ottocento è, per eccellenza, il secolo della musica da salotto, la cosiddetta “musica domestica”: si fa tantissima musica in casa e le donne la fanno da padrone. La musica è solo un mezzo di intrattenimento nei salotti di famiglia, un fatto di etichetta e di costume, una moda, non un’attività professionale. Nei salotti aristocratici e borghesi si tengono concerti privati e ogni signorina di buona famiglia deve saper suonare il pianoforte, ritenuto particolarmente adatto al sesso femminile sia per il suono che produce sia per la posizione richiesta a chi lo suona, elegante, composta, adatta alle lunghe e voluminose sottane dell’epoca, le crinoline.

Una volta adulta e sposata, la donna deve smettere di suonare, relegata inesorabilmente al ruolo di angelo del focolare domestico, con l’unico scopo di sposarsi, avere e allevare figlie e figli, e prendersi cura della casa. Comporre musica, soprattutto strumentale, ed esibirsi in pubblico è ritenuto disonorevole per il genere femminile. Padri, mariti, fratelli, cercano di impedire in ogni modo la carriera musicale delle loro rispettive figlie, mogli o sorelle. Le uniche che possono esibirsi in pubblico sono le bambine prodigio, con i padri al seguito, e le cantanti d’opera, la cui professione è spesso ritenuta sinonimo di cattiva reputazione. La donna non solo non può suonare lo strumento che vuole, le è perfino vietato eseguire pezzi vigorosi e robusti di un compositore come Beethoven, ma solo pezzi languidi, romantici, appassionati di un Mendelssohn o di uno Chopin. Le donne non possono suonare l’organo perché non è consentito loro esibirsi in chiesa. Sono del tutto banditi gli strumenti a fiato. Gonfiare le guance contraddice i canoni della bellezza femminile.

che suona l’arpa
(Scuola britannica del XIX secolo)
Tra gli strumenti ad arco, il violoncello è poco adatto a una donna perché per suonarlo bisogna stare a gambe aperte. Le più audaci posano lo strumento al lato di entrambe le gambe, ma sono costrette a una torsione del dorso innaturale, che si rivela dolorosa e dannosa col tempo. Inoltre il suono grave del violoncello è considerato meno adatto a una donna rispetto al suono del violino, molto vicino al registro vocale femminile. Tuttavia la posizione eretta e fiera, la torsione del polso, la curva del gomito in primo piano rendono anche l’esecuzione al violino antiestetica per una donna. L’arpa resta lo strumento più femminile sia per la postura aggraziata e gentile che la donna assume nel pizzicarne le corde sia per la dolcezza e fluidità del suono. Le arpiste sono le uniche musiciste a essere ammesse a far parte delle orchestre, che sono ancora composte da soli uomini.

La concezione tipicamente romantica della donna, creatura quasi angelica e ultraterrena, eterea, sognante e impalpabile, trova la sua espressione più felice nella danza. Nel 1832 viene rappresentata all’Opéra di Parigi La Sylphide, il primo balletto romantico che consacra l’ideale di donna romantica. Il coreografo Filippo Taglioni, padre della ballerina che lo interpreta, Maria Taglioni, inventa il candido tutù, la danza sulle punte e le leggere scarpette di raso rosa con le quali Maria si trasforma in una silfide, una creatura incantata, magica, irraggiungibile. È un’immagine di immateriale leggerezza che si libra in volo. Così anche nel successivo balletto Giselle, ancora oggi simbolo del più puro romanticismo.
Nella seconda metà dell’Ottocento medicina, chirurgia e anatomia sono tra le maggiori passioni femminili. Scrivono i fratelli Goncourt: «Molte donne imparano a maneggiare il bisturi». Anche l’anatomia è tra le maggiori passioni femminili. «Una giovane signorina, la contessa di Coigny, è talmente appassionata di questo orribile studio che non viaggia mai senza portare con sé sul sedile della carrozza un corpo da dissezionare». Per buona parte del secolo in campo medico le donne sono, tuttavia, relegate al semplice ruolo di levatrici. La prima donna inglese laureata in medicina è costretta per tutta la vita a travestirsi da uomo per poter esercitare la medicina.
La nobildonna britannica Florence Nightingale (1820-1910) fonda la moderna scienza e professione infermieristica. Ogni anno il 12 maggio, nel giorno del suo compleanno, si festeggia in tutto il mondo la Giornata internazionale dell’infermiere. Convinta, come lei afferma, che «ogni donna è un’infermiera nata», in occasione della guerra combattuta in Crimea dal 1853 al 1856, parte per il fronte insieme a trentanove infermiere. Per assistere i/le pazienti di notte, si fa luce con una lampada guadagnandosi il soprannome di “signora con la lanterna”. In sei mesi la mortalità tra i feriti cala dal 42% al 2%. Nel 1853 viene fondata a Napoli la prima scuola per infermiere. Ne seguono altre dopo l’Unità d’Italia. Nel 1864 nasce a Milano la Croce Rossa Italiana.
Il XIX secolo è ricco di personalità scientifiche femminili di rilievo. La prima università al mondo che apre ufficialmente le sue porte alle donne è il Politecnico di Zurigo, nel 1867. La paleontologa britannica Mary Anning ritrova i primi scheletri completi di ittiosauro e plesiosauro, rettili marini estinti.
Figlia del poeta George Byron, Ada Lovelace è la prima donna informatica della storia, la madre del computer e dell’informatica. Ada intuisce che la macchina calcolatrice, o macchina analitica, ideata dall’ingegnere e matematico Charles Babbage, è non solo una macchina utile per eseguire ogni genere di calcolo, ma, una volta fornita di un programma, cioè una sequenza ordinata di istruzioni operative, e di dati, è in grado di sviluppare qualsiasi funzione e quindi può avere un campo di applicazioni vastissimo.

L’astronoma statunitense Maria Mitchell, nel 1847, utilizzando un telescopio, scopre una cometa divenuta nota come la cometa di Miss Mitchell. In suo onore è stato dato il suo nome a un cratere lunare (cratere Mitchell). Difficile è la vita per le artiste, alle quali non è consentito frequentare le accademie né dipingere all’aria aperta, ma con le nozioni rudimentali apprese è consentito di esercitarsi con tele, pennelli e tavolozza all’interno delle pareti domestiche. Nella moda del XIX secolo si susseguono tre stili in relazione alle vicende storico-politiche: Restaurazione, Romantico, Nuovo Rococò.

Con la caduta di Napoleone e la fine dello stile Impero, nasce lo stile Restaurazione: corpetto stretto e attillato, con maniche a palloncino o a prosciutto, molto ampie e sbuffanti; vita alta e stretta, sottolineata da una cintura rigida; gonna a forma di cono che termina con volant. I cappelli hanno la tesa ampia, ornati con nastri e piume. Con il Romanticismo si afferma la linea a clessidra: la vita diventa sempre più stretta e la gonna sempre più ampia. La caratteristica più evidente dell’abito è rappresentata dalla grande scollatura ovale e dalle ampie e bizzarre maniche rigonfie che si ispirano ai costumi rinascimentali.
Appare la crinolina, gabbia di cerchi metallici, che nel 1860 raggiunge l’incredibile circonferenza di sette metri. Inventata verso il 1830 dal francese Oudinot, è una sottogonna realizzata originariamente in tessuto rigido, imbottito di crini di cavallo, da cui prende il nome. Molto in voga verso la metà del secolo, viene sostituita verso il 1860 da Charles Frederick Worth, sarto inglese trapiantato a Parigi, con una gabbia a cerchi metallici e molle d’acciaio, che aumentano ulteriormente il volume delle gonne, che possono avere fino a dieci strati di stoffa. Lo scrittore parigino Alphonse Karr osserva con ironia: «Due donne non stanno più insieme nei primi posti di un palchetto in teatro, né dentro una carrozza. Cinque donne non possono conversare sedute l’una vicina all’altra perché separate dall’ampiezza delle loro gonne, devono gridare per farsi ascoltare. Un uomo seduto in mezzo a due donne scompare». Si vedono in giro crinoline così larghe che urtano le candele accese e la poverina rischia di prendere fuoco insieme alle gale, volant e nastri. Se poi una donna “alla moda” scampa al pericolo d’incendio, il continuo strisciare delle gonne per terra finisce per favorire il contatto potenziale con i germi della febbre, del tifo o di altri virus e malattie per le quali non esistono cure efficaci.
Malgrado i numerosi inconvenienti, tuttavia la “crinolinomania” è un’epidemia che infetta le donne di tutti le classi sociali dalle nobili alle borghesi e alle donne del popolo. Un’epidemia che, complice il corsetto e la tubercolosi, fa strage della popolazione femminile: 40.000 vittime in tutto il mondo. Una cifra che ha dell’incredibile, eppure è un’atroce verità.
Durante il secolo del Romanticismo un’altra pesante coercizione fisica imposta dalla tirannia della moda è il cosiddetto “vitino di vespa”, ossia un giro vita che non superi i quaranta centimetri, in contrasto con l’esagerata ampiezza della gonna.
Dopo la metà dell’Ottocento con il nuovo rococò, a cui dà grande impulso l’imperatrice di Francia Eugenia, moglie di Napoleone III, la donna assume la forma a copriteiera: la gonna raggiunge il massimo dell’ampiezza, sostenuta da una gabbia foderata di crine e rinforzata da cerchi di vimini. Sul finire del secolo, la sottana si sgonfia ma presenta un rigonfiamento sul dietro, il sellino, in francese tournure. In più, termina con una lunga coda o strascico chiamata “raccoglispazzatura”. Fa timidamente capolino, intanto, un nuovo capo, il tailleur, composto da giacca, gonna e camicetta, destinato a grande avvenire nel secolo che sta per cominciare. Comunissimi sono i cappellini con piume e fiori.


All’inizio del secolo i capelli sono raccolti in chignon, gonfi e arricciati sulle tempie. In seguito, la classica pettinatura romantica vuole i capelli divisi alla sommità della fronte in due bande lisce che coprono le orecchie e si riuniscono sulla nuca in un vaporoso chignon, un nodo con le ciocche arrotolate. Negli ultimi decenni del secolo, i capelli sono raccolti in una voluminosa crocchia sulla nuca.
Dopo gli eccessi cosmetici del Settecento, durante la prima metà del secolo il Romanticismo cancella il rosso e riporta di moda il viso pulito acqua e sapone, pallido, anzi bianco come la neve, anemico, quasi cadaverico e spettrale, ricoperto con un candido velo di cipria, alias la polvere di riso. Gli occhi sono languidi, neri e profondi, senza traccia di ombretto. Niente fard sulle guance, niente rossetto sulle labbra. Il rossetto è riservato alle prostitute. Le labbra sono esangui, lucidate con grasso di balena. In mancanza di belletti, le donne si pizzicano le guance e si mordono le labbra per farle sembrare più colorite. Nella seconda metà del secolo la raffinatissima imperatrice Eugenia accenna a richiamare in voga il rosso per guance e labbra, indizio di buona salute.
Nel 1860, il profumiere francese Eugène Rimmel crea il primo mascara destinato a rivoluzionare il mondo della cosmesi. Il successo è tale che “rimmel” diventa sinonimo di mascara in molti paesi.
In copertina: la crinolina in una caricatura del 1857 dell’illustratore britannico John Leech.
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Articolo di Florindo Di Monaco

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.